La sua formazione
Nostro Padre ha sempre parlato di sé come di un ragazzo normale, cresciuto in una famiglia profondamente cristiana, ma senza bigotteria. Vuole raccontare qualche episodio del nostro fondatore bambino?
Josemaría era un bambino robusto, perfettamente sano, anche se quando aveva circa un anno e mezzo fu colpito da una malattia infettiva che si rivelò subito estremamente grave.
Il medico di famiglia, Ignacio Camps Valdovinos, molto amico del signor José Escrivá, padre di Josemaría, arrivò a dirgli: «Guarda, Pepe [il diminutivo con cui José Escrivá era chiamato dagli amici], devo dirti la verità: non sopravvivrà oltre questa notte; il bambino morirà».
I genitori reagirono da buoni cristiani com’erano: pregarono molto, si abbandonarono alla volontà di Dio, e promisero che se il bambino fosse guarito l’avrebbero portato in pellegrinaggio alla cappella di Torreciudad, in un’impervia località pirenaica, dove si venera un’antica immagine della Madonna, prediletta anche dagli abitanti di Barbastro.
II mattino dopo, il dott. Camps si recò a casa degli Escrivá e domandò: «A che ora è morto il bambino?». José Escrivá rispose: «Non solo non è morto, ma è perfettamente guarito. Non lo senti parlare?». Il dott. Camps entrò nella stanza del bambino e lo vide in piedi, afferrato alla sbarre del lettino, che saltava e gridava rumorosamente.
A proposito di quel lettino: sua madre mi ha raccontato che il piccolo Josemaría aveva tanta vitalità che una volta, mentre saltava tenendosi alla sponda, senza volerlo prese uno slancio così forte che fece una capriola e cadde a terra, fuori dalla culla.
I genitori mantennero la promessa e compirono il pellegrinaggio di ringraziamento a Torreciudad, dove adesso si erge un grande santuario dedicato alla Madonna.
I genitori gli insegnarono le prime preghiere, che egli continuò a recitare per tutta la vita, anche quando, compiuti i settant’anni, incominciò a dire di averne solo sette, sottolineando i vantaggi della vita d’infanzia spirituale.
Parlando di sé, qualche volta diceva: «Ricordo che un bambino, nel recitare l’atto di dolore, invece di dire “proposito di ammenda” (in casigliano, enmienda) pronunziava “della mandorla” (in casigliano almendra). Lui non sapeva che cos’era l’ammenda, ma le mandorle sì, perché gli piacevano. Quella preghiera manifestava anche la buona volontà di voler piacere a Dio e di comportarsi bene; la “mandorla” di non peccare mai più. Avranno cominciato a insegnarmi questa preghiera verso i tre anni e ora che sono arrivato a sette anni non ho lasciato la “mandorla”. E per questo ringrazio Dio».
Aveva un carattere spiccato. Per esempio, quando sua madre lo invitava a dare un bacio a qualche conoscente, egli talvolta rispondeva di non avere baci «già fatti».
L’ambiente di Barbastro era molto cristiano. Quando alla fiera del paese fu esposto uno dei primi aeroplani, il signor Escrivá portò il figlio a vederlo. Il nostro fondatore ricordava, divertito, il commento di certe suore che si domandavano: «Quando l’aereo volerà sopra l’orto, infrangerà la clausura?».
Più grandicello, Josemaría talvolta accompagnava suo padre a caccia: il signor Escrivá, infatti, era un appassionato cacciatore. Nel cortile di casa aveva una gabbia con gli uccelli da richiamo per le quaglie. Era una gabbietta alla quale poteva essere tolto il fondo cosicché, fissata al suolo, gli uccelli potevano cibarsi e muoversi direttamente sul terreno. Come a ogni buon cacciatore, al signor Escrivá piaceva raccontare episodi relativi alla caccia, e il figlio ricordava molti particolari. Le pernici e le quaglie erano le prede preferite, ma, se capitavano a tiro, il signor Escrivá sparava anche ai tordi.
Il piccolo Josemaría aveva molto spirito di osservazione, e gli piaceva frequentare la cucina. Aveva notato che la cuoca calcolava il tempo di cottura delle uova sode recitando due Credo.
È un particolare divertente e sintomatico…
A proposito di uova sode. Mi viene in mente che, negli anni sessanta, una direttrice del Kenia raccontò al Padre che, per calcolare il tempo di bollitura delle uova, seguivano l’uso locale di scavare una buca nel terreno e di gettarvi un po’ d’acqua: quando era filtrata tutta attraverso la terra, voleva dire che l’uovo era sodo. Il nostro fondatore comprese che non avevano neppure un orologio adatto, e si commosse per quella estrema penuria di mezzi: seduta stante, decise di dare a quella sua figlia una sveglia che avevano nel Centro in cui abitava.
Ma torniamo all’infanzia del Padre. Giocava con i compagni e partecipava alle abituali baruffe, ma non sopportava la crudeltà. Si sa che i bambini a volte sono spietati: quelli di Barbastro non erano un’eccezione e alcuni avevano l’abitudine di cacciare i pipistrelli e di inchiodarli a un muro per poi ammazzarli a sassate. Una volta Josemaría fu testimone involontario di una di queste scene brutali. Non la dimenticò per tutta la vita. Incline com’era a riflettere sulle cose che vedeva, capì anche da quell’episodio fino a dove può arrivare la crudeltà umana e — con le dovute distanze — l’inconcepibile comportamento degli aguzzini di nostro Signore, agonizzante sul legno della Croce.
Nostro Padre attribuiva alla sua natura di aragonese la schiettezza e la sincerità nei modi, e la costanza, la perseveranza nei propositi.
Sono caratteristiche che egli ebbe fin dall’infanzia. L’ho sentito raccontare che talvolta, da piccolo, diventava rosso quando sentiva parlare degli scribi e dei farisei, e la stessa cosa succedeva a sua sorella Carmen. La spiegazione è semplice: molte persone scrivevano il cognome degli Escrivá con la «b», dato che generalmente in Spagna la «b» e la «v» si pronunziano allo stesso modo; perciò, quando i compagni di scuola sentivano parlare degli scribi (los Escribas), guardavano sorridendo gli Escrivá. I difetti dell’ipocrisia e della finzione erano infatti i più diametralmente opposti al modo d’essere del Padre. Voglio aggiungere, tuttavia, che egli, se parlava spesso dei propri difetti infantili, non accennava mai alle proprie virtù o ai propri successi. Per esempio, non mi disse mai di aver vinto un premio per lo studio e la condotta negli anni delle scuole elementari. L’ho saputo dopo la sua morte, esaminando i bollettini diocesani.
Il fondatore fu un allievo brillante, fin dalle scuole medie iniziate a Barbastro e concluse a Logrono, dove la famiglia si trasferì alla fine del 1915 a seguito del fallimento dell’impresa commerciale paterna. Il signor Escrivá, che generosamente si era accollato le conseguenze del non corretto comportamento di un socio, aveva trovato un nuovo impiego in un negozio di tessuti a Logrono. La famiglia dovette ridimensionare il proprio tenore di vita, sopportando le iniziali ristrettezze con molta signorilità. Il giovane Josemaría doveva senza dubbio tener presenti anche le necessità famigliari nel maturare la propria vocazione professionale.
Voleva fare l’architetto. A quella scelta era orientato dai suoi interessi artistici e umanistici, oltre che dall’attitudine per la matematica e per il disegno. A quel tempo gli alunni che avevano ricevuto il massimo voto con la lode — «sobresaliente con premio», nella terminologia dell’epoca — si sedevano nel primo banco e avevano il compito di rispondere alle domande del professore qualora i compagni fossero risultati impreparati. Josemaría occupò il primo banco al quarto e quinto anno di liceo durante le lezioni di algebra e di trigonometria, oltre che di letteratura.
I genitori erano contenti di quella propensione, anche se il signor Escrivá talvolta prendeva garbatamente in giro il figlio dicendogli che sarebbe diventato «un muratore di lusso».
Come tutte le mamme, anche la signora Dolores osservava le amicizie del figlio adolescente, e gli dava un consiglio che il Padre mi ha raccontato, divertito, più di una volta. Parlandogli della scelta della futura moglie — poiché niente faceva prevedere che non si sarebbe sposato — sua madre gli diceva: «Josemaría, né tanto bella da far incantare, né tanto brutta da far spaventare».
E invece le cose andarono molto diversamente.
Il Padre incominciò a «presentire l’Amore» — usò sempre questa espressione — in un’occasione ben precisa. Tra la fine del dicembre 1917 e gli inizi del gennaio 1918 una forte nevicata si era abbattuta sulla regione di Logrono. Secondo la cronaca del giornale locale, La Rioja — riportata cinquant’anni dopo da un altro quotidiano, La Nueva Rioja —, la precipitazione atmosferica durò circa un mese, diverse persone morirono per il freddo, la temperatura scese fino a sedici o diciassette gradi sotto zero, si paralizzarono le comunicazioni, ecc. Una mattina Josemaría vide sulla neve le impronte dei piedi scalzi di un carmelitano.
Immediatamente si risvegliò nella sua anima una profonda inquietudine e si domandò: «Se altri fanno tanti sacrifici per Dio e per il prossimo, io non sarò capace di offrirgli nulla?». Cominciò allora ad avvertire con una sicurezza assoluta che il Signore gli stava chiedendo qualcosa, e poiché non sapeva che cosa, poco tempo dopo prese a rivolgersi al Signore con la supplica del cieco Bartimeo: «Domine, ut videam!»; oppure: «Domine, ut sit!» e anche, ricorrendo alla Santissima Vergine perché si compissero nella sua vita i disegni di Dio: «Domina, ut videam!», «Domina, ut sit!».
Intensificò la sua vita di preghiera e di orazione, si accostò quotidianamente alla Messa e alla Comunione. Come frutto di questa dedizione, intuì che se si fosse fatto sacerdote sarebbe stato in grado di capire meglio ciò che il Signore voleva da lui. Decise dunque di entrare come alunno esterno nel seminario di Logrono, e i suoi genitori non si opposero, anche se quella decisione modificava radicalmente i piani famigliari. Il signor Escrivá condusse il figlio a parlare con don Antolin Onate, abate della Collegiata di Logrono, un santo sacerdote che in città era una vera istituzione, il quale incoraggiò la vocazione del ragazzo.
L’impatto con l’ambiente del seminario di Logrono, e successivamente con quello di Saragozza dove, a partire dal 1920, il fondatore ultimò gli studi teologici, non dev’essere stato dei più favorevoli, date le condizioni di partenza, nettamente cristiane ma «laicali», della famiglia Escrivá.
I genitori gli avevano insegnato a venerare il sacerdozio, ma egli, prima dell’episodio delle orme sulla neve, aveva sempre escluso di farsi sacerdote. A scuola aveva anche avuto una iniziale avversione per il latino, e diceva: «II latino, per i preti!». In seguito, quando egli approfondì lo studio del latino e si entusiasmò per questa materia, avvertì quasi la necessità di compensare lo scarso interesse dimostrato in quei primi anni e, oltre a qualificare come sciocco il suo comportamento di allora, diceva: «Non ringrazierò mai abbastanza per il bene che mi fecero a scuola, quando alle medie mi obbligarono a studiare latino. Ricordo che ci facevano riempire i quaderni con le declinazioni e le coniugazioni dei verbi, tanto di quelli regolari quanto di quelli irregolari. Inoltre, dovevamo segnare se la quantità era lunga o breve. Cosicché in seguito non mi capitava mai di leggere, per esempio, “legèrem” invece di “lège-rem”».
Ma ritorniamo alla domanda. La maggioranza dei compagni di seminario, a Saragozza, era di estrazione contadina e non molto familiarizzata con le consuetudini di igiene e di buona educazione che Josemaría aveva appreso in casa. Il Padre non pretese mai di fare sfoggio dì educazione né di cultura; anzi egli avrebbe desiderato non farsi notare dai suoi compagni, di cui sempre parlò come di ottimi ragazzi. Ma non fu possibile poiché, come l’ho sentito raccontare, «non vi erano lavandini nelle stanze, sicché per lavarmi dalla testa ai piedi dovevo portare tre o quattro brocche d’acqua; forse era questo a scandalizzare qualcuno».
Quando parlava dei suoi anni in seminario, il Padre affermava di ricordare solo virtù dei suoi compagni e i loro grandi desideri di servire la Chiesa. Tuttavia altre incomprensioni dovettero sorgere quando, senza che lui lo volesse, gli altri si accorsero dei suoi sforzi per curare la vita di pietà. Si guardava bene dal fare stravaganze, perché il Padre sin dall’infanzia fu nemico dell’ostentazione e della singolarità; ma allo stesso tempo ci diceva: «Non abbiate paura che si noti il vostro sforzo per essere devoti».
Egli trascorreva lunghe ore di orazione nella cappella del seminario di San Carlos a Saragozza, così come precedentemente aveva fatto nella chiesa della Rotonda a Logrono. Cercava di non attirare l’attenzione degli altri, ma quelle lunghe visite non potevano passare inosservate e alcuni dei suoi compagni dicevano ad alta voce, in modo che egli sentisse bene: «Ecco che viene il sognatore!».
Nella Bibbia (Genesi 37,19), quella è l’espressione usata verso Giuseppe dai suoi fratelli che poi l’avrebbero venduto ai mercanti egiziani.
Comunque, egli non dava alcuna importanza a quei commenti ironici, anzi cercava di spingere gli altri a pregare di più.
Non passò inosservato nemmeno il fatto che il Padre, durante il tragitto alla volta dell’università, entrasse nella Basilica del Pilar — per onorare mia Madre, diceva —; e così accadde che alcuni seminaristi cominciarono a chiamarlo rosa mystica, per prenderlo in giro. Egli soffriva per il soprannome che gli avevano affibbiato, soprattutto perché, anche se i compagni forse non se ne rendevano conto, costituiva un’irriverenza verso la Santissima Vergine; inoltre lo rattristava il fatto che si burlassero di ciò che avrebbe dovuto essere del tutto logico e normale non solo per chi si prepara al sacerdozio, ma anche per qualsiasi cristiano.
Tuttavia, l’apprezzamento dei professori e dei condiscepoli dev’essere stato consistente e sincero, se lo stesso card. Soldevila, l’arcivescovo di Saragozza che successivamente morì in un attentato, gli espresse direttamente la sua stima nominandolo, giovanissimo, Ispettore del seminario, anticipandogli la tonsura clericale.
È un indizio della maturità che egli ebbe fin dall’età giovanile, e testimonia il risultato della cura e dell’applicazione che il fondatore impiegò nella sua formazione umana, spirituale e dottrinale — esigentissimo nella sua lotta ascetica e negli studi, fin da ragazzo —, e apostolica: i compagni d’infanzia, di scuola e di seminario hanno conservato una memoria vivissima della sua affabilità, della sua disponibilità al servizio, da cui traspariva un impegno non meramente umano.
Nostro Padre fu ordinato sacerdote il 28 marzo 1925: a condividere la sua gioia c’erano la madre, la sorella Carmen e il fratellino Santiago, che aveva sei anni. Ma la festa non ebbe risonanza per il lutto recente: il 27 novembre precedente, infatti, il signor José Escrìvà era morto improvvisamente, lasciando ai figli la memoria di un padre esemplare. Il primo incarico sacerdotale di don Josemaría fu, per un paio dì mesi, la sostituzione dì un confratello nel villaggio di Perdiguera.
Era una situazione difficile, perché il titolare della parrocchia aveva abbandonato il proprio posto in circostanze poco chiare, anche se ufficialmente per malattia. E in parte doveva essere anche così, perché quel sacerdote morì repentinamente un mese dopo, cioè in maggio.
Il Padre prodigò immediatamente il suo zelo sacerdotale in quel paesino di ottocento abitanti. Nei paesi piccoli era normale che al sacerdote rimanesse un bel po’ di tempo libero dopo aver svolto i suoi doveri di pastore… Una volta terminate le mansioni parrocchiali, il sacerdote si soleva riunire con «le forze vive» del paese — il sindaco, il medico, il farmacista, il segretario comunale… —, per giocare a carte. Ma don Josemaría aveva molte altre cose a cui pensare: oltre ai doveri sacerdotali e alla cura della sua vita d’orazione, aveva una madre vedova e due fratelli da mantenere e doveva terminare gli studi civili; ma, soprattutto, sentiva chiaramente che il Signore voleva qualcosa da lui, anche se lo teneva ancora nell’oscurità. Perciò né allora né poi, come egli affermava, potè permettersi il lusso di annoiarsi: non ne aveva il tempo. Io l’ho sentito dire molto spesso, fino all’ultimo giorno di vita: «Non mi sono mai annoiato».
Quindi a Perdiguera, invece di prendere parte a questi passatempi con le «forze vive», si dedicò alla catechesi dei bambini e degli adulti, in gruppi, e anche privatamente solo a uno di loro, se vedeva che ne aveva bisogno. In meno di due mesi visitò tutte le famiglie del paese, casa per casa, riaccendendo in esse l’amore di Dio. In queste visite seguì sempre la norma di non andare nelle case dei contadini quando gli uomini stavano fuori a lavorare in campagna.
Nei momenti in cui la gente riposava e non era possibile svolgere nessuna attività pastorale, il Padre ne approfittava per fare lunghe passeggiate in campagna, per meditare, e anche per «ammazzare» il corpo, per mortificarsi.
Fece sapere a tutti che era sempre disponibile e che, per ogni genere di necessità, potevano chiamarlo a qualsiasi ora.
Questa condotta fu oggetto di critiche da parte di alcune persone. Il soprannome che gli avevano affibbiato nel seminario di Saragozza arrivò fino a Perdiguera. Per questo e per il suo comportamento sacerdotale, alcuni confratelli dei paesi vicini cominciarono a chiamarlo «il mistico».
Il Padre non pronunziò mai una parola di protesta né di risentimento contro questi mormoratori. Ma, ovviamente, quel pettegolezzo lo addolorò molto perché costituiva una mancanza di rispetto nei confronti di un sacerdote, non tanto verso la sua persona.
Nostro Padre, dunque, cominciò ad affinare le sue risorse sacerdotali fin dal primo momento, attraverso l’amministrazione dei sacramenti e la predicazione. Come apprese quello stile di predicazione così incisivo che abbiamo ascoltato e che possiamo continuare a leggere nelle omelie che sono state pubblicate?
La predicazione del Padre fu sempre dottrinale, ma applicata alla vita concreta delle anime. Inoltre era assai ricca e varia. Spesso parlava della vicinanza di Dio, della sua presenza in mezzo a noi, con una fede e una convinzione che sembravano scolpire profondamente nel cuore dei presenti le parole del Signore: «Regnum Dei intra vos est». Realmente viveva sempre con Dio e immerso in Lui: la predicazione era il traboccare del suo cuore innamorato.
Posso attestare che il fondatore, benché predicasse facendo l’orazione personale ad alta voce e pertanto esprimesse ciò che il Signore gli ispirava in quel momento, preparava con cura le prediche, anche se si trattava di un argomento che conosceva perfettamente e sul quale aveva già predicato innumerevoli volte. Non gli piaceva seguire pedissequamente le tracce preparate per altre occasioni: le adattava sempre, più o meno a seconda delle circostanze, alle condizioni particolari di coloro che lo ascoltavano. A noi sacerdoti consigliava di fare altrettanto. Spesso ricordava ai suoi figli sacerdoti che non potevano comportarsi come fra Gerundio de Campazas, un personaggio della letteratura classica spagnola creato dal p. Francisco José de Isla, il quale chiuse i libri e si lanciò a predicare: sermoni magniloquenti, ma senza alcuna sostanza. E, d’altra parte, ci raccomandava di non imitare «il talento di don Stupendo, che al mattino diceva quel che la sera prima stava leggendo»; l’unica cosa che può convincere gli altri, infatti, è la nostra vita, la nostra reale coerenza con il Vangelo. E, anche in questo, il suo esempio era trascinante.
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