Escrivá e la teologia dell’asinello
Nell’anno appena cominciato la Chiesa celebrerà il 50° anniversario del Concilio ecumenico Vaticano II, del cui insegnamento sulla spiritualità del laicato è stato un “pioniere” (lo affermò Giovanni Paolo II nel proclamarlo santo) il fondatore dell’Opus Dei San Josemaría Escrivá (che nacque il 9 gennaio 1902). Ho avuto la fortuna di convivere e lavorare con lui per più di vent’anni. Dio lo scelse, ha ribadito Benedetto XVI nel benedirne la statua nella basilica di San Pietro, «per annunciare la vocazione universale alla santità e all’apostolato nella Chiesa».
Tutto ciò mi riporta alla memoria e al cuore (al ricordo) un episodio avvenuto nell’udienza privata che Papa Wojtyla mi concesse nel 1984, all’indomani della mia nomina a segretario del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi. Dopo avergli parlato, quando stavamo ancora seduti, tolsi dalla borsa un piccolo oggetto – un asinello di ferro con un minuscolo basto di panno verde e rosso – e lo misi sopra il tavolo. «Questo cos’è?», mi domandò il Papa, alquanto incuriosito. Risposi: «Di per sé è un oggetto di poco valore, ma per me è una reliquia: me lo diede il fondatore dell’Opus Dei quando cominciai a lavorare al servizio della Santa Sede nel 1960, negli anni di preparazione del Concilio. L’ho tenuto sempre sul mio tavolo di lavoro perché mi ricorda la teologia dell’asinello che ho imparato da monsignor Escrivá».
Giovanni Paolo II mi guardò con i suoi occhi azzurri e mi chiese sorpreso: «La teologia dell’asinello?». Gli spiegai quanto il fondatore amasse la figura dell’asinello con la quale ci mostrava il senso della santificazione del lavoro ordinario. Ci faceva notare che Gesù, per entrare a Gerusalemme, non scelse un cavallo o un’altra nobile cavalcatura ma preferì un asinello: un animale umile, obbediente, resistente nel lavoro, che si accontenta di poco e, allo stesso tempo, procede deciso e allegro. Il Papa mi seguiva con attenzione e voleva che proseguissi. E io: «L’asinello ha le orecchie lunghe e tese verso l’alto». Diceva san Josemaría: «Sono come antenne innalzate verso il cielo per cogliere la voce del suo padrone, di Dio». Ci volle l’entrata del prelato di anticamera per interromperci e dare il segnale che l’udienza era finita. Giovanni Paolo II era rimasto assorto ad ascoltarmi, tanto che mi congedò dicendo: «Dobbiamo continuare il nostro discorso su questo argomento». L’immagine dell’asinello che tanto piacque al Beato Wojtyla è quella che meglio esprime il modello di cristiano proposto dallo spirito dell’Opus Dei: una persona che non si risparmia, che è al servizio degli altri, che non ha velleità di trionfare ma svolge i suoi compiti con amore e dedizione.
La Provvidenza ha voluto che la figura giuridica definitiva per inquadrare l’Opus Dei fosse promulgata proprio durante il pontificato di Giovanni Paolo II, che aveva sempre apprezzato lo spirito del fondatore. Ricordo ancora gli anni di lavoro nella Commissione tecnica paritaria che era stata costituita per approfondire lo studio della realtà dell’Opus Dei e anche la vastità della consultazione che il Papa fece rivolgere a 2.084 vescovi di 34 nazioni, fornendo lo schema delle norme costitutive e funzionali della futura Prelatura. Le risposte furono oltre 500, ed espressero a stragrande maggioranza un parere positivo circa l’erezione dell’Opus Dei in Prelatura personale.
Oggi l’Opus Dei – presente in più di 60 paesi del mondo – svolge la sua missione prendendosi cura della formazione cristiana di circa 90mila fedeli, oltre alle centinaia di migliaia di persone che ne frequentano le attività spirituali che sono sempre aperte a chiunque lo desidera.
Ogni tanto, quando sento che qualcuno parla di “trame finanziarie” o di “potere” dell’Opus Dei mi viene da sorridere e ripenso alla “teologia dell’asinello” di san Josemaría. Mi torna allora in mente quella professoressa di una scuola statale che dice: «Ho il mestiere più bello del mondo: insegnare a vivere»; penso a quella infermiera che lavora con il sorriso sulle labbra per rallegrare i malati che assiste; penso agli studenti di una residenza universitaria di Genova che l’estate scorsa hanno dedicato venti giorni delle loro vacanze a un’attività di volontariato in Nicaragua (facendo prima una raccolta di fondi per pagarsi il viaggio e coprire i costi del lavoro che hanno poi realizzato); penso a quell’allevatore di polli asiatico che in un video di qualche anno fa spiegava come gli insegnamenti di san Josemaría lo hanno aiutato a mettere ordine nella sua vita e nel suo lavoro. Questo è il panorama offerto dalle persone dell’Opus Dei. Gente comune, indaffarata nelle piccole e grandi occupazioni quotidiane, che cerca di vivere secondo la luce di Cristo che porta nel cuore.
In una società affetta da una certa tendenza agnostica e tecnocratica, la prospettiva dell’Opus Dei – che è la prospettiva cristiana – va in controtendenza. La Prelatura non si occupa direttamente di organizzare, di dare soluzioni o di progettare alcunché, si limita – se così si può dire – a dare una profonda formazione cristiana, ad aiutare donne e uomini di ogni tipo e condizione a coltivare quel rapporto di amicizia con Dio (basato sulla preghiera e sui Sacramenti) dal quale poi discende tutto il resto.
È per questo che, per iniziativa dei fedeli dell’Opus Dei, con la collaborazione di tante persone di buona volontà, sono nate in tutto il mondo attività di portata sociale come il centro educativo Crotona che opera nel Bronx di New York o l’università Strathmore in Kenya che fin dagli anni ’60 accoglie studenti di tutte le religioni ed etnie; oppure, a Roma, il Centro Elis che prepara tecnicamente ed umanamente i giovani all’inserimento nel mondo del lavoro. Non sono enti “ecclesiastici” né “emanazioni della Prelatura”. Sono la manifestazione civile e laica dello spirito di iniziativa apostolica dei fedeli dell’Opus Dei, di cristiani comuni, cittadini come tutti gli altri. A collaborare con queste iniziative vi sono anche molti non cattolici – e persino non cristiani – a riprova che il cristianesimo ha una vocazione al bene comune e alla promozione di quei valori universali in cui tutti si possono riconoscere al di là delle appartenenze.
(card. Julián Herranz, 06/01/12, Il Sole24ore)
Grazie San Josemaria!