Spontaneità e pluralismo nel Popolo di Dio
Intervista a cura di Pedro Rodriguez – pubblicata in Palabra (Madrid), ottobre 1967
Vorremmo iniziare questa intervista affrontando un tema che suscita oggi le più varie interpretazioni: quello dell’aggiornamento. Secondo lei, qual è il vero significato di questo termine in rapporto alla vita della Chiesa?
Fedeltà. Per me “aggiornamento” significa soprattutto fedeltà. Uno sposo, un soldato, un amministratore è tanto più buon marito, buon soldato, buon amministratore, quanto più fedelmente riesce ad assolvere in ogni momento, di fronte a ogni nuova circostanza della vita, i decisi impegni di amore e di giustizia che un giorno si assunse.
Appunto per ciò, questa fedeltà delicata, fattiva e costante – difficile com’è sempre difficile applicare i princìpi alla mutevole realtà contingente – è la migliore difesa contro l’invecchiamento dello spirito, l’inaridimento del cuore e l’anchilosi della mente.
Nella vita delle istituzioni succede lo stesso, e in modo del tutto particolare nella vita della Chiesa, che non risponde a un effimero progetto umano, ma a un disegno di Dio. La Redenzione – la salvezza del mondo – è opera della fedeltà , filiale e piena di amore, di Cristo – e di noi con Cristo – alla volontà del Padre che lo inviò.
Per questo, l’aggiornamento della Chiesa, oggi come ni qualsiasi altra epoca, è essenzialmente la lieta riconferma della fedeltà del Popolo di Dio alla missione che gli è stata affidata, cioé al Vangelo.
E’ evidente che questa fedeltà viva e attuale in ogni circostanza della vita umana, può richiedere – come di fatto è avvenuto molte volte nel corso della storia bimillenaria della Chiesa, e di recente con il Concilio Vaticano II – opportuni sviluppi dottrinali nell’esposizione delle ricchezze contenute nel depositum fidei, e adeguati cambiamenti e riforme vòlti a perfezionare, nel loro aspetto umano, perfettibile, le strutture organizzative e i metodi di evangelizzazione e di apostolato.
Ma sarebbe perlomeno superficiale pensare che l’aggiornamento consista innanzitutto nel “cambiare” o che qualsiasi cambiamento “aggiorni”. Basti pensare che non mancano oggi persone che, al di fuori della dottrina conciliare o addirittura in contrasto con essa, desidererebbero dei “mutamenti” che farebbero retrocedere il Popolo di Dio nel suo cammino di molti secoli, almeno fino all’epoca feudale.
Il Concilio Vaticano II ha usato con frequenza nei suoi documenti l’espressione “Popolo di Dio” per riferirsi alla Chiesa, e ha in tal modo messo in evidenza la comune responsabilità di tutti i cristiani nella missione unica di questo Popolo di Dio. A suo avviso quali caratteristiche dovrebbe avere quella “necessaria opinione pubblica nella Chiesa”, di cui già parlava Pio XII, perché palesi realmente questa responsabilità comune? E il fenomeno dell’opinione pubblica nella Chiesa in che modo è specificato dalle peculiari relazioni che esistono in seno alla comunità ecclesiale fra autorità e obbedienza?
Io non concepisco l’obbedienza veramente cristiana se non come obbedienza volontaria e responsabile. I figli di Dio non sono né pietre né cadaveri: sono esseri intelligenti e liberi, elevati tutti al medesimo ordine soprannaturale, detengano o no l’autorità.
Ma chi è privo della sufficiente formazione cristiana non sarà mai in grado di fare un retto uso della sua intelligenza e della sua libertà, sia per ubbidire che per manifestare le sue opinioni. Per questo, il problema di base della “necessaria opinione pubblica della Chiesa” equivale al problema della necessaria formazione dottrinale dei fedeli.
Certo, lo Spirito Santo diffonde la ricchezza dei suoi doni fra i membri del Popolo di Dio – tutti e singoli responsabili della missione della Chiesa -, ma ciò non esime nessuno – tutt’altro – dal dovere di acquistare questa adeguata formazione dottrinale.
Quando parlo di dottrina, intendo dire la sufficiente conoscenza che ogni fedele deve avere della missione totale della Chiesa e della speciale partecipazione che a lui spetta in questa unica missione, con la specifica responsabilità che ne consegue.
E’ proprio per questo – il Papa lo ha ricordato più di una volta – l’imponente lavoro pedagogico che attende la Chiesa in quest’epoca di dopoconcilio. E io ritengo che la retta soluzione del problema da lei accennato – come altre speranze che oggi palpitano in seno alla Chiesa – è strettamente connessa a quel lavoro pedagogico. Perché non saranno certamente le intuizioni più o meno “profetiche” di taluni “carismatici” privi di dottrina ciò che potrà garantire la necessaria opinione pubblica nel Popolo di Dio.
Quanto alle forme di espressione di questa opinione pubblica, non ritengo che sia questione di organismi o di istituzioni. Possono essere sedi ugualmente adatte sia un consiglio pastorale diocesano, sia le colonne di un giornale (anche se non ufficialmente cattolico), sia una semplice lettera personale di un fedele al suo Vescovo, e così via.
Sono molto varie le possibilità e le legittime modalità con cui si può manifestare l’opinione dei fedeli, e non mi pare che possano o debbano essere costrette in uno “stampo”, creando un nuovo ente o una nuova istituzione.
Meno che mai se si tratta di una istituzione che corra il pericolo – così facile – di finire, di fatto, monopolizzata o strumentalizzata da un gruppo o gruppetto di cattolici “ufficiali”, qualunque sia la tendenza o l’orientamento cui si ispiri la minoranza in questione. Se ciò avvenisse, si metterebbe a repentaglio il prestigio stesso della Gerarchia, e gli altri membri del Popolo di Dio avrebbero giustamente l’impressione di essere presi in giro.
Il concetto di Popolo di Dio, a cui ci riferivamo dinanzi, vuole esprimere il carattere storico della Chiesa, in quanto realtà di origine divina che nel corso del suo cammino si serve anche di elementi mutevoli e caduchi. In base a queste nozioni, come dovrebbe essere oggi la vita del sacerdote? Il decreto Presbyterorum ordinis ha delineato la fisionomia del sacerdote; che elemento di questa figura le sembra da mettere in particolare rilievo nei momenti attuali?
Fra le caratteristiche della vita sacerdotale, vorrei sottolinearne una che non va annoverata fra quelle mutevoli e transitorie. Mi riferisco alla perfetta unione che deve esistere – come ricorda spesso il decreto Presbyterorum ordinis – fra consacrazione e missione del sacerdote; l’unione, cioè, fra vita personale di pietà ed esercizio del sacerdozio ministeriale, fra rapporti filiali del sacerdote con Dio e rapporti pastorali e fraterni con gli altri uomini. Non credo all’efficacia del ministero di un sacerdote che non sia uomo di preghiera.
In qualche settore del clero vi sono preoccupazioni nei riguardi della presenza del sacerdote nella società, presenza che – richiamandosi alla dottrina conciliare (cost. Lumen gentium, n. 31; decr. Presbyterorum ordinis, n. 8) – cerca di esprimersi mediante una attività professionale od operaia nella vita civile (“sacerdoti nel lavoro”, ecc.) Qual è la sua opinione a questo riguardo?
Voglio dire anzitutto che rispetto l’opinione contraria a quella che sto per esporre, anche se la ritengo sbagliata per vari motivi; e voglio aggiungere che le persone che agiscono in quella direzione, con grande zelo apostolico, hanno il mio affetto e le mie preghiere.
Io penso che il sacerdozio esercitato come si deve – senza timidezza né “complessi” (che di solito denotano poca maturità umana), ma anche senza invadenze “clericali” (che rivelano poco senso soprannaturale) -, il ministero proprio del sacerdote, dicevo, è sufficiente di per sé a garantire una legittima, schietta e autentica presenza dell’uomo-sacerdote in mezzo agli altri membri della comunità umana a cui si rivolge.
Normalmente non ci sarà bisogno di altro perché il sacerdote viva in comunione di vita con il mondo del lavoro, comprendendo i suoi problemi e condividendone il destino. Ma ciò che raramente avrebbe efficacia – per l’inautenticità che lo voterebbe all’insuccesso fin dal primo momento – è il ricorso all’ingenuo “lasciapassare” di attività “laicali” da “dilettante”, che urterebbe, per molti motivi, il buonsenso degli stessi laici.
D’altra parte, il ministero sacerdotale – soprattutto in questi tempi, con tanta scarsezza di clero – è un lavoro terribilmente assorbente, incompatibile con il “doppio impiego”. Gli uomini hanno un tale bisogno di noi sacerdoti (anche se molti non lo sanno), che non si lavora mai abbastanza.
Mancano braccia, tempo, energie… Amo dire pertanto ai miei figli sacerdoti che se un giorno uno di loro notasse che gli è avanzato del tempo, può essere ben sicuro che in quel giorno non ha vissuto bene il suo sacerdozio.
E badi bene che mi sto riferendo a sacerdoti dell’Opus Dei, a persone, cioè, che prima di ricevere gli ordini sacri si sono dedicate per molti anni, quasi sempre, a una professione o a un mestiere nella vita civile: sono ingegneri-sacerdoti, medici-sacerdoti, operai-sacerdoti, e così via.
Eppure non ho mai visto nessuno di loro che abbia sentito il bisogno, per farsi ascoltare e stimare nella società civile, fra gli ex colleghi e compagni di lavoro, di avvicinare gli uomini con un regolo, un fonendoscopio o un martello pneumatico.
E’ vero che a volte esercitano la professione o il mestiere di prima (sempre in modo compatibile con gli obblighi dello stato clericale), ma non pensano mai che questa sia una premessa necessaria per garantirsi una “presenza nella società civile”: lo fanno per motivi ben diversi, come per esempio la carità sociale, o una pressante necessità economica per portare avanti un lavoro di apostolato. Anche san Paolo ricorse a volte al suo vecchio mestiere di fabbricante di tende: ma non perché Anania gli avesse detto a Damasco che doveva imparare a fabbricare tende per poter annunciare meglio il Vangelo di Cristo ai gentili.
In altri termini – e senza voler negare la legittimità e la rettitudine di altre iniziative apostoliche -, io ritengo che l’intellettuale-sacerdote e l’operaio-sacerdote, per esempio, sono figure più autentiche e più conformi alla dottrina del Vaticano II che non la figura del sacerdote-operaio.
Prescindendo dal lavoro pastorale specializzato, che sarà sempre necessario, la figura “classica” del prete-operaio appartiene ormai al passato: a un passato in cui molti non riuscivano a scorgere la meravigliosa potenzialità dell’apostolato dei laici.
Si rimproverano a volte quei sacerdoti che adottano una determinata posizione in problemi di ordine temporale, e soprattutto in politica. Parecchi di questi atteggiamenti, a differenza di quanto avveniva in altri tempi, sono di solito orientati a favorire una più ampia libertà, la giustizia sociale, ecc. È vero che non è proprio del sacerdozio ministeriale l’intervento attivo in questo campo, salvo poche eccezioni; ma lei non crede che il sacerdote debba denunciare l’ingiustizia e la mancanza di libertà, ecc., come qualcosa di non cristiano? Come fare a conciliare queste due esigenze?
Il sacerdote è tenuto a predicare – perché è parte essenziale del suo munus docendi – le virtù cristiane – tutte – e a indicare quali sono le esigenze concrete e le diverse applicazioni pratiche di queste virtù nelle diverse circostanze della vita delle persone alle quali egli rivolge il suo ministero.
E deve insegnare anche a rispettare e a stimare la dignità e la libertà di cui Iddio ha dotato la persona umana nel crearla, e la peculiare dignità soprannaturale che il cristiano acquista con il Battesimo.
Nessun sacerdote che compia questo suo dovere ministeriale potrà mai essere accusato – se non per ignoranza o malafede – di intromettersi in politica. E nemmeno è giusto dire che, impartendo questi insegnamenti, interferisca nello specifico compito apostolico, proprio dei laici, di ordinare cristianamente le strutture e le attività temporali.
Tutta la Chiesa oggi si mostra sollecita per i problemi del Terzo Mondo. Si sa che in questo senso una delle maggiori difficoltà sta nella scarsezza del clero in questi Paesi, soprattutto riguardo al clero nativo. Qual è la sua opinione e la sua esperienza al riguardo?
Ritengo che effettivamente l’aumento del clero nativo dovrà seguire nell’esercizio del ministero, alla sua congrua retribuzione economica, a tutte le disposizioni pastorali emanate dal Vescovo per la cura d’anime, il culto divino e le prescrizioni del diritto comune relative ai diritti e agli obblighi derivanti dallo stato clericale.
Ma accanto a questi necessari rapporti di dipendenza – che concretizzano giuridicamente l’ubbidienza, l’unità e la comunione pastorale che il sacerdote deve osservare con cura delicata verso il proprio Vescovo – vi è, nella vita del sacerdote secolare, anche un legittimo àmbito personale di autonomia, di libertà e di responsabilità.
In questo àmbito, il presbitero ha gli stessi diritti e gli stessi doveri di qualsiasi altra persona nella Chiesa, e in tal modo è nettamente differenziato sia dalla condizione giuridica del minorenne (cfr C.I.C., canone 89), sia dalla condizione del religioso che, a motivo della professione religiosa, rinuncia, in tutto o in parte, all’esercizio di questi diritti personali.
Per tali motivi, il sacerdote secolare – nei limiti generali imposti dalla morale e dai doveri del suo stato – può disporre e decidere liberamente di tutto ciò che si riferisce alla sua vita personale (spirituale, culturale, economica, ecc.), sia individualmente che in forma associata.
Ogni sacerdote è libero di provvedere alla propria formazione culturale d’accordo con le proprie inclinazioni o capacità. È pure libero di avere le relazioni sociali che preferisce, e di ordinare la propria vita come meglio crede, a patto che compia con diligenza i doveri del suo ministero. Ognuno è libero di disporre dei suoi beni personali come in coscienza ritiene più giusto.
E a maggior ragione, ognuno è libero di seguire, nella propria vita spirituale e ascetica e nelle pratiche di pietà, i suggerimenti dello Spirito Santo, scegliendo, fra tanti mezzi che la Chiesa consiglia o permette, quelli che considera più confacenti alle sue circostanze personali.
È proprio in rapporto a quest’ultimo argomento che il Concilio Vaticano II – e recentemente il Santo Padre Paolo VI, nell’Enc. Sacerdotalis coelibatus – ha lodato e raccomandato vivamente le associazioni diocesane o interdiocesane nazionali o universali, che, con statuti riconosciuti dall’autorità ecclesiastica competente, fomentano la santità del sacerdote nell’esercizio del suo ministero.
L’esistenza di queste associazioni, infatti, non comporta in modo alcuno né può comportare – come ho già detto – una menomazione del vincolo di comunione e di dipendenza che unisce il sacerdote al suo Vescovo, o della sua unione fraterna con tutti gli altri membri del Presbiterio, o dell’efficacia del suo lavoro al servizio della sua Chiesa locale.
La missione dei laici, secondo il Concilio, si svolge nella Chiesa e nel mondo. Ci sono in proposito degli equivoci, nati dal fatto che spesso ci si dimentica del primo o del secondo dei due termini. Secondo lei, come si potrebbe spiegare il ruolo dei laici nella Chiesa e il loro ruolo nel mondo?
Penso che bisogna evitare assolutamente l’idea di due funzioni diverse. La partecipazione specifica che spetta ai laici nella missione globale della Chiesa è appunto quella di santificare ab intra – in modo immediato e diretto – le realtà secolari, l’ordine temporale, il mondo.
Allo stesso tempo, oltre a questa funzione propria e specifica, i laici hanno anche, come i chierici e i religiosi, una serie di diritti, di doveri e di facoltà fondamentali, che corrispondono alla condizione giuridica di “fedele” e che hanno logicamente un loro àmbito di esercizio in seno alla società ecclesiastica: la partecipazione attiva alla liturgia della Chiesa, la facoltà di cooperare direttamente all’apostolato specifico della Gerarchia o di consigliarla nella sua attività pastorale, quando si è invitati a farlo, ecc.
Ma queste due funzioni – cioè quella specifica che spetta al laico come “laico”, e quella generica che gli spetta come “fedele” – non sono funzioni opposte, ma sovrapposte; e fra esse non vi è contraddizione, bensì complementarità.
Sarebbe assurdo pensare solo alla missione specifica dei laici dimenticando che essi sono allo stesso tempo dei fedeli: sarebbe come concepire un ramo frondoso e fiorito che non appartenesse a nessun albero. Viceversa, dimenticare ciò che è specifico, proprio e peculiare dei laici, o non comprendere adeguatamente le caratteristiche del loro lavoro apostolico secolare e il suo valore ecclesiale, sarebbe come immaginare l’albero frondoso della Chiesa ridotto alla figura mostruosa di un semplice tronco.
Da tanti anni lei dice e scrive che la vocazione dei laici consiste in queste tre cose: “Santificare il lavoro, santificarsi nel lavoro e santificare gli altri con il lavoro”. Potrebbe precisare ora che cosa intende esattamente quando dice “santificare il lavoro”?
È difficile spiegarlo con poche parole, perché in questa espressione sono impliciti concetti fondamentali propri della teologia della creazione. Quel che ho sempre insegnato – da quarant’anni a questa parte – è che ogni lavoro umano onesto, sia intellettuale che manuale, deve essere realizzato dal cristiano con la massima perfezione possibile: vale a dire con perfezione umana (competenza professionale) e con perfezione cristiana (per amore della volontà di Dio e al servizio degli uomini).
Infatti, svolto in questo modo, quel lavoro umano, anche quando può sembrare umile e insignificante, contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà temporali – manifestando la loro dimensione divina – e viene assunto e incorporato nell’opera mirabile della Creazione e della Redenzione del mondo. In tal modo il lavoro viene elevato all’ordine della grazia e si santifica: diventa opera di Dio, operatio Dei, opus Dei.
Ricordando ai cristiani le parole meravigliose del libro della Genesi – dove si dice che Dio creò l’uomo perché lavorasse -, abbiamo fatto attenzione all’esempio di Cristo, che trascorse quasi tutta la sua esistenza terrena nel lavoro di artigiano, in un villaggio. Noi amiamo questo lavoro umano che Egli adottò come condizione di vita, che coltivò e santificò.
Noi vediamo nel lavoro, nella nobile fatica creatrice degli uomini, non solo uno dei valori umani più elevati, lo strumento indispensabile per il progresso della società e il più equo assetto dei rapporti fra gli uomini, ma anche un segno dell’amore di Dio per le sue creature e dell’amore degli uomini fra di loro e per Iddio: un mezzo di perfezione, un cammino di santità.
Per questo, l’unico scopo dell’Opus Dei è sempre stato quello di contribuire a far sì che nel mondo, in mezzo alle realtà e alle aspirazioni temporali, ci siano uomini e donne di ogni razza e condizione sociale intenti ad amare e servire Dio e gli uomini nel lavoro quotidiano e per mezzo di questo lavoro.
Il decreto Apostolicam actuositatem (n. 5) ha affermato chiaramente che l’animazione cristiana dell’ordine temporale è compito di tutta la Chiesa. È pertanto un lavoro che spetta a tutti: alla Gerarchia, al clero, ai religiosi e ai laici. Potrebbe dirci quali sono, secondo lei, il ruolo e le modalità d’azione di ciascuno di questi settori ecclesiali nell’unica missione comune?
In realtà, la risposta la troviamo negli stessi testi conciliari. Alla Gerarchia spetta il compito di indicare, come parte del suo Magistero, i princìpi dottrinali che devono presiedere e illuminare lo svolgimento di questa impresa apostolica (cfr cost. Lumen gentium, n. 28; cost. Gaudium et spes, n. 43; decr. Apostolicam actuositatem, n. 24).
Ai laici, che lavorano immersi in tutte le situazioni e in tutte le strutture proprie della vita secolare, corrisponde in modo specifico l’opera “immediata” e “diretta” di ordinare le realtà temporali secondo i princìpi dottrinali enunciati dal Magistero; allo stesso tempo, però, essi svolgono questo compito con una necessaria autonomia personale rispetto alle decisioni particolari che devono adottare nelle circostanze concrete della vita sociale, famigliare, politica, culturale e così via (cfr cost. Lumen gentium, n. 31; cost. Gaudium et spes, n. 43; decr. Apostolicam actuositatem, n. 7).
Quanto ai religiosi, i quali si separano dalle realtà e attività secolari adottando uno stato di vita peculiare, la loro missione consiste nel dare una testimonianza escatologica pubblica, che sia di aiuto agli altri fedeli del Popolo di Dio perché ricordino che non hanno su questa terra una dimora permanente (cfr cost. Lumen gentium, n. 44; decr. Perfectae caritatis, n. 5).
Non va dimenticato però il grande contributo fornito all’animazione cristiana dell’ordine temporale dalle numerose opere di beneficenza, di carità e di assistenza sociale promosse con abnegazione e spirito di sacrifìcio da tanti religiosi e religiose.
Una caratteristica di qualsiasi vita cristiana – prescindendo dalle circostanze in cui si realizza – è la “dignità e libertà dei figli di Dio”. A che cosa si riferisce lei quando difende, come ha fatto con tanta insistenza nel corso dei suoi insegnamenti, la libertà dei laici?
Mi riferisco appunto alla libertà personale che hanno i laici per prendere, alla luce dei princìpi enunciati dal Magistero della Chiesa, le decisioni concrete, teoriche o pratiche, che ciascuno reputi in coscienza più opportune e più confacenti alle proprie convinzioni e inclinazioni: per esempio, per quanto riguarda le diverse opinioni fìlosofiche, di scienza economica o di politica; oppure per quanto riguarda le correnti artistiche e culturali o i problemi concreti della loro vita professionale e sociale, ecc.
Questo necessario àmbito di autonomia, di cui il laico cattolico ha bisogno per non soffrire una diminutio capitis nei confronti degli altri laici e per poter svolgere con efficacia la sua specifica attività apostolica in mezzo alle realtà temporali, va sempre accuratamente rispettato da tutti coloro che nella Chiesa esercitano il ministero sacerdotale.
Se ciò non avvenisse, se cioè si volesse “strumentalizzare” il laico per fini che oltrepassano quelli propri del ministero gerarchico, allora si cadrebbe in un “clericalismo” sorpassato e deplorevole. Si verrebbe a limitare enormemente il campo di attività apostolica del laicato e lo si condannerebbe a una perpetua immaturità; ma soprattutto si metterebbe in pericolo (oggi come non mai) il concetto stesso di autorità e di unità nella Chiesa.
Non dobbiamo dimenticare che l’esistenza di un autentico pluralismo di criteri e di opinioni, anche fra i cattolici, nell’ambito di ciò che il Signore ha lasciato alla libera discussione degli uomini, non solo non è di ostacolo all’ordinamento gerarchico e alla necessaria unità del Popolo di Dio, ma anzi rafforza questi valori e li protegge da eventuali inquinamenti.
La vocazione del laico e quella del religioso sono assai diverse nell’attuazione pratica anche se hanno in comune entrambe, com’è logico, la vocazione cristiana. Com’è dunque possibile che i religiosi, nelle loro attività di istruzione, ecc. riescano a dare un’adeguata formazione ai normali cristiani, avviandoli a una vita veramente laicale?
Ciò sarà possibile nella misura in cui i religiosi – di cui ammiro sinceramente l’opera benemerita al servizio della Chiesa – si sforzeranno di comprendere veramente quali sono le caratteristiche e le esigenze della vocazione laicale alla santità e all’apostolato nel mondo, per amarle e saperle insegnare ai loro alunni.
Troppo spesso, quando si parla dei laici, ci si dimentica della presenza della donna nel mondo, e si finisce per lasciare nel vago il suo ruolo nella Chiesa. Allo stesso modo, quando si parla della “promozione sociale della donna”, si intende quasi sempre solo la presenza della donna nella sfera pubblica. Qual è il suo punto di vista sulla missione della donna nella Chiesa e nel mondo?
Innanzitutto, non mi pare che ci sia davvero nessun motivo per adottare un criterio di distinzione e di discriminazione nei confronti della donna quando si parla del laicato, del suo compito apostolico, dei suoi diritti e dei suoi doveri, ecc.
Tutti i battezzati, sia uomini che donne, partecipano in eguale misura al patrimonio comune di dignità, libertà e responsabilità dei figli di Dio. Nella Chiesa vi è questa radicale unità di base che già san Paolo insegnava ai primi cristiani: “Quicumque enim in Christo baptizati estis, Christum induistis. Non est Iudaeus, neque Graecus; non est servus, neque liber; non est masculus, neque femina” (Gal 3, 27-28); non c’è più differenza fra ebreo e greco, fra schiavo e libero, e nemmeno fra uomo e donna.
Se prescindiamo dalla diversa capacità giuridica di ricevere gli ordini sacri – differenza che per molti motivi, anche di diritto divino positivo, ritengo che debba essere mantenuta -, alla donna vanno riconosciuti pienamente nella legislazione della Chiesa, nella sua vita interna e nella sua azione apostolica, gli stessi diritti e gli stessi doveri degli uomini.
Per esempio: il diritto di apostolato, di fondare e dirigere associazioni, di manifestare responsabilmente la propria opinione su tutto ciò che riguarda il bene comune della Chiesa, e così via. So bene che tutto questo, pur essendo teoricamente pacifico (considerate le chiare ragioni teologiche su cui poggia), trova di fatto la resistenza di certe mentalità.
Ricordo ancora la sorpresa e addirittura la critica con cui alcune persone – che ora invece tendono a imitare questo e altri aspetti – commentarono il fatto che nell’Opus Dei anche le donne appartenenti alla sezione femminile della nostra istituzione ottenessero i gradi accademici nelle scienze sacre.
Penso, comunque, che queste resistenze e reticenze cadranno a poco a poco. In fondo, non è che un problema di comprensione ecclesiologica: che si capisca cioè che la Chiesa non è formata soltanto dai chierici e dai religiosi, perché i laici, sia uomini che donne, sono anch’essi Popolo di Dio, e per diritto divino hanno una loro missione e una loro responsabilità.
Vorrei però aggiungere che, a mio avviso, l’uguaglianza essenziale fra l’uomo e la donna richiede anche una chiara coscienza del ruolo complementare che l’uno e l’altra sono chiamati a svolgere nell’edificazione della Chiesa e nel progresso della società civile: perché non senza motivo Dio li ha creati uomo e donna.
Questa diversità non va intesa in senso “patriarcale”, ma in tutta la sua profondità, così ricca di sfumature e di conseguenze, che libera l’uomo dalla tentazione di “mascolinizzare” la Chiesa e la società; e la donna dalla tentazione di intendere la sua missione nel Popolo di Dio e nel mondo come mera rivendicazione del diritto di accedere ad attività che fino ad ora ha svolto solo l’uomo, ma che la donna è in grado di svolgere altrettanto bene.
Sono convinto, perciò, che sia l’uomo che la donna devono giustamente sentirsi protagonisti della storia della salvezza, ma in modo reciprocamente complementare.
Alcuni hanno fatto notare che Cammino, uscito nella sua prima versione nel 1934, conteneva molte idee che a taluni allora parevano “eretiche” e che oggi invece sono state riprese nel Concilio Vaticano II. Ci potrebbe dire qualcosa a questo riguardo? Quali sono queste idee?
In merito a questa questione, se me lo consente, preferirei parlare con calma un’altra volta, fra un po’ di tempo. Per ora le dico soltanto che ringrazio molto il Signore che si è servito anche delle edizioni di Cammino, in tante lingue e in tante copie (oramai hanno superato i due milioni e mezzo), per far penetrare nella mente e nella vita di gente di ogni razza e lingua quelle verità cristiane che poi dovevano essere confermate dal Concilio Vaticano II, portando pace e gioia a milioni di cristiani e non cristiani.
Sappiamo che da molti anni lei ha nutrito una preoccupazione tutta speciale per la cura spirituale e umana dei sacerdoti, e in particolare di quelli appartenenti al clero diocesano, come dimostra, fra l’altro, l’intenso lavoro di predicazione e di direzione spirituale da lei condotto, finché le fu possibile, con queste persone. Un’altra prova è la possibilità che ha offerto anche ai sacerdoti diocesani – che rimangono pienamente diocesani, con la medesima dipendenza dal loro Ordinario – di entrare a far parte dell’Opus Dei, se si sentono chiamati.
Ci interesserebbe sapere quali furono le circostanze della vita della Chiesa che, almeno in parte, le ispirarono questa speciale preoccupazione. Gradiremmo anche che ci dicesse in che modo questa attività ha contribuito e può contribuire a risolvere certi problemi del clero diocesano o della vita ecclesiastica.
Le circostanze della vita della Chiesa che ispirarono e che ispirano questa mia preoccupazione e questa attività – ora istituzionalizzata – dell’Opus Dei, non sono accidentali o transitorie: sono esigenze permanenti di ordine spirituale e umano intimamente unite alla vita e al lavoro del sacerdote diocesano.
Penso soprattutto alla necessità che ha il sacerdote di essere aiutato – con una spiritualità e con dei mezzi che lascino intatta la sua condizione diocesana – a ricercare la santità personale nell’esercizio del suo ministero, per corrispondere così, con animo sempre giovane e con generosità sempre maggiore, alla grazia della vocazione divina che gli è stata data, e per sapersi premunire con prudenza e prontezza dalle eventuali crisi spirituali e umane che possono essere facilmente provocate da diversi fattori: la solitudine, le difficoltà dell’ambiente, l’indifferenza, l’apparente inutilità del proprio lavoro, la monotonia, la stanchezza, il disinteresse nel conservare e perfezionare la propria formazione intellettuale, o addirittura – ed è questa la radice profonda delle crisi di obbedienza e di unità – la scarsa visione soprannaturale con cui sono impostati i rapporti con il proprio Ordinario e anche con i confratelli sacerdoti.
I sacerdoti diocesani che – facendo legittimo uso del diritto di associazione – aderiscono alla Società Sacerdotale della Santa Croce (Opus Dei) lo fanno per un solo e unico motivo: perché desiderano ricevere questo aiuto spirituale personale in modo pienamente compatibile con i doveri del loro stato e del loro ministero. Se così non fosse, questo aiuto non sarebbe un aiuto ma una complicazione, un impedimento e un disordine.
La spiritualità dell’Opus Dei, infatti, ha come caratteristica essenziale quella di non togliere nessuno dal posto che occupa – unusquisque, in qua vocatione vocatus est, in ea permaneat (1 Cor 7, 20) -; essa esige, anzi, che ciascuno assolva ai compiti e ai doveri del proprio stato, della propria missione nella Chiesa e nella società civile, con la massima perfezione possibile.
Per questo motivo, quando un sacerdote aderisce all’Opus Dei, non abbandona né modifica minimamente la sua vocazione diocesana, cioè la dedicazione al servizio della Chiesa locale a cui è incardinato, la piena dipendenza dal proprio Ordinario, la spiritualità secolare, l’unione con gli altri sacerdoti, e così via; ma anzi si impegna a vivere la sua vocazione con la maggior pienezza, perché sa che deve tendere alla perfezione nell’adempimento dei suoi obblighi sacerdotali proprio come sacerdote diocesano.
Questo principio ha nell’Opus Dei tutta una serie di applicazioni pratiche di carattere giuridico e ascetico che sarebbe lungo specificare. Basterà, a titolo di esempio, che le faccia notare che, a differenza di quanto avviene in certe associazioni, in cui si richiede un voto o una promessa di ubbidienza ai superiori interni, la dipendenza dei sacerdoti diocesani che aderiscono all’Opus Dei non è una dipendenza gerarchica giacché non vi è per loro una gerarchia interna, né quindi il pericolo di un doppio vincolo di obbedienza: vi è piuttosto un rapporto volontario di aiuto e di assistenza spirituale.
Ciò che essi trovano nell’Opus Dei è soprattutto l’aiuto ascetico continuativo che desiderano ricevere secondo una spiritualità secolare e diocesana, indipendente dai cambiamenti di persone e di circostanze che si possono verificare nel governo della rispettiva Chiesa locale.
In tal modo essi aggiungono alla direzione spirituale collettiva che dà il Vescovo (con la sua predicazione, le sue pastorali, le sue conversazioni, le sue istruzioni disciplinari, ecc.), anche una direzione spirituale personale, sollecita e ininterrotta, dovunque si trovino, che viene a completare, rispettandola sempre come un dovere grave, la direzione comune impartita dal Vescovo.
Mediante questa direzione spirituale personale, che tanto hanno raccomandato il Concilio Vaticano II e il Magistero ordinario, si fomenta nel sacerdote la vita di pietà, la carità pastorale, la non interrotta formazione dottrinale, lo zelo per le opere d’apostolato della diocesi, l’affetto e l’obbedienza che lo devono legare all’Ordinario, la preoccupazione per le vocazioni sacerdotali e il seminario, ecc.
I frutti di questo lavoro? Sono per le Chiese locali, al cui servizio sono dediti questi sacerdoti. E di ciò si rallegra il mio cuore di sacerdote diocesano, che ha avuto oltretutto il conforto di vedere, molte volte, con quale affetto il Papa e i Vescovi benedicono, auspicano e incoraggiano questo lavoro.
Parecchie volte, riferendosi agli inizi dell’Opus Dei, lei ha detto che non aveva altro che “gioventù, grazia di Dio e buon umore”. D’altra parte, negli anni ’20, la dottrina sul laicato non aveva raggiunto lo sviluppo che notiamo oggi. Malgrado questo, l’Opus Dei è un fenomeno di rilievo nella vita della Chiesa. Ci potrebbe spiegare come ha potuto, essendo un giovane sacerdote, avere una visione così ampia da permettere un’impresa del genere?
La mia unica preoccupazione è stata ed è sempre quella di compiere la volontà di Dio. Mi consenta di non precisare altri particolari sugli inizi dell’Opera (che l’Amore di Dio mi faceva presentire fin dal 1917), perché formano un tutt’uno con la storia della mia anima e appartengono alla mia vita interiore. La sola cosa che le posso dire è che ho sempre agito con il permesso e l’affettuosa benedizione del carissimo Vescovo di Madrid, la città in cui nacque l’Opus Dei, il 2 ottobre 1928.
Poi, in seguito, ho agito sempre con l’approvazione e l’incoraggiamento della Santa Sede, e con quello, per ogni caso, degli Ordinari dei luoghi in cui si svolge il nostro lavoro.
Qualcuno, osservando la presenza di membri dell’Opus Dei in posti di rilievo della vita pubblica spagnola, parla dell’influenza dell’Opus Dei in Spagna. Ci potrebbe spiegare qual è questa influenza?
Mi infastidisce tutto ciò che può avere la parvenza di autoincensazione. Ma mi pare che non sarebbe vera umiltà, bensì cecità e ingratitudine verso Dio, che con tanta generosità benedice il nostro lavoro, non riconoscere che l’Opus Dei influisce effettivamente nella società spagnola.
Nell’ambiente dei Paesi in cui l’Opera lavora già da diversi anni, è naturale che il suo influsso abbia ormai una notevole ripercussione sociale, in proporzione al progressivo sviluppo delle attività; in Spagna, in particolare, l’Opus Dei opera da trentanove anni, perché è qui che il Signore volle che la nostra istituzione nascesse nel seno della Chiesa.
Qual è la natura di questa influenza? È evidente che, dal momento che l’Opus Dei ha fini spirituali, d’apostolato, la natura del suo influsso – sia in Spagna che nelle altre nazioni dei cinque continenti in cui lavoriamo – non può che essere di quel genere: un’influenza spirituale, apostolica.
Come quello della Chiesa intera, anima del mondo, l’influsso dell’Opus Dei sulla società civile non è di carattere temporale – e cioè sociale, politico, economico, e così via -, benché indubbiamente incida sugli aspetti etici di tutte le attività umane; esso è sempre un influsso di ordine diverso e superiore, che si esprime con un verbo ben preciso: “santificare”.
E con questo arriviamo al discorso sulle persone dell’Opus Dei che lei definisce influenti. Per un’associazione il cui scopo sia una determinata azione politica, saranno “influenti” quei soci che hanno un seggio al parlamento o al governo.
Se si tratta di una associazione culturale, si considerano “influenti” quei soci che siano dei filosofi di chiara fama, che abbiano avuto un premio letterario di rilievo, ecc.
Se invece lo scopo che si propone l’istituzione è – come nel caso dell’Opus Dei – la santificazione del lavoro quotidiano degli uomini, tanto quello manuale come quello intellettuale, è evidente che dovranno considerarsi influenti tutti i suoi soci: perché tutti lavorano (il dovere di lavorare, comune a tutti, ha nell’Opus Dei speciali conseguenze di ordine normativo e ascetico), e perché tutti cercano di compiere il loro lavoro, qualunque esso sia, in modo santo, in modo cristiano, con impegno di perfezione. Per questo motivo, io considero tanto “influente” – tanto importante e necessaria – la testimonianza di un mio figliolo minatore in mezzo ai suoi compagni di lavoro, quanto quella di un rettore di università in mezzo ai professori del senato accademico.
Da dove viene, quindi, l’influenza dell’Opus Dei? La risposta sta nella semplice considerazione di questa realtà sociologica: all’Opera appartengono persone di tutte le condizioni sociali, di tutte le professioni, di tutte le età e di tutti gli stati di vita; uomini e donne, sacerdoti e laici, vecchi e giovani, celibi e coniugati, studenti e operai, contadini e impiegati, liberi professionisti e funzionari di enti pubblici…
Ha mai pensato al potere di irradiazione cristiana rappresentato da una gamma di persone così vasta e varia, tanto più che sono decine di migliaia e tutte animate dal medesimo spirito apostolico, dal medesimo anelito di santificare la propria professione o il proprio mestiere – qualunque sia l’ambiente sociale in cui operano -, di santificarsi nel lavoro, e con il lavoro santificare gli altri?
A queste attività apostoliche personali bisogna aggiungere lo sviluppo delle nostre opere proprie di apostolato: collegi universitari, case per ritiri spirituali, l’Università di Navarra, centri di qualificazione per operai e contadini, istituti tecnici, scuole secondarie, istituti professionali femminili, ecc.
Queste attività sono state e sono indubbiamente centri di irradiazione di spirito cristiano. Promosse da laici, gestite come lavoro professionale da cittadini laici, del tutto uguali ai colleghi che svolgono la stessa attività o mestiere, e aperte a persone di ogni ceto e condizione, queste attività hanno sensibilizzato vasti strati della società sulla necessità di dare una risposta cristiana ai problemi posti a ciascuno dall’esercizio della propria professione o del proprio impiego.
Tutto questo è ciò che da rilievo e importanza sociale all’Opus Dei. Non la circostanza che qualcuno dei suoi soci occupi dei posti di “influenza umana” – la qual cosa non ci interessa per nulla, ed è lasciata alla libera decisione e responsabilità di ognuno – bensì il fatto che tutti (e la bontà di Dio fa che siano molti) svolgano un lavoro – anche il mestiere più umile – divinamente influente.
E questo è logico: chi potrebbe pensare che l'”influenza” della Chiesa negli Stati Uniti sia cominciata il giorno in cui fu eletto presidente il cattolico John Kennedy?
In qualche occasione, parlando della realtà dell’Opus Dei, lei ha affermato che si tratta di una “disorganizzazione organizzata”. Potrebbe spiegare ai nostri lettori il significato di questa espressione?
Intendo dire che noi attribuiamo un’importanza primaria e fondamentale alla “spontaneità apostolica della persona”, alla sua libera e responsabile iniziativa, sotto la guida dello Spirito; e non alle strutture organizzative, agli ordini, alle tattiche, e ai programmi imposti dall’alto, in sede di governo.
Un minimo di organizzazione esiste, logicamente: c’è un organo direttivo centrale, che funziona sempre collegialmente e ha la sede a Roma, e ci sono degli organi regionali, anch’essi collegiali, presieduti da un Consigliere.
Ma tutto il lavoro di questi organismi tende essenzialmente a una sola meta: fornire ai soci l’assistenza spirituale necessaria per la loro vita di pietà, e una adeguata preparazione spirituale, dottrinale e umana. Poi, ciascuno impari a nuotare! Agisca cioè come vero cristiano per santificare le vie degli uomini, perché tutte hanno il profumo del passaggio di Dio.
Arrivato dunque a questo limite, l’Opus Dei come tale ha esaurito il suo compito – quello stesso per cui i soci si sono associati -, e non ha più nessun’altra indicazione da dare: non può e non deve farlo. Da quel momento comincia la libera e responsabile azione personale di ciascuno dei soci.
Ognuno – con spontaneità apostolica, agendo con piena libertà e formandosi con autonomia la propria coscienza di fronte alle decisioni concrete che deve prendere – ognuno, dico, si sforza di tendere alla perfezione cristiana e di dare una testimonianza cristiana nel proprio ambiente, santificando il proprio lavoro manuale o intellettuale.
Naturalmente dal momento che ciascuno prende con autonomia queste decisioni nella sua vita secolare, nelle realtà temporali in cui agisce, si osservano spesso opzioni, criteri e modi di agire diversi: in altri termini, si produce questa benedetta “disorganizzazione”, questo giusto e necessario pluralismo che è una caratteristica essenziale del buono spirito dell’Opus Dei, e che a me è sembrato sempre l’unico modo retto e giusto di concepire l’apostolato dei laici.
Le dirò di più: questa “disorganizzazione organizzata” appare anche nelle stesse opere d’apostolato che l’Opus Dei promuove come tale, nell’intento di contribuire – anche sul piano associativo – a risolvere cristianamente i problemi che si pongono alle comunità umane dei diversi Paesi.
Queste attività e iniziative dell’Opera hanno, sempre, un carattere direttamente apostolico: sono cioè opere educative, assistenziali o di beneficenza.
Ma dato che è proprio del nostro spirito stimolare lo scaturire di iniziative “dalla base”, e dato anche che le circostanze, i bisogni e le possibilità di ogni nazione o gruppo sociale sono peculiari e generalmente assai diversi da un caso all’altro, la direzione centrale dell’Opus Dei lascia alle direzioni regionali (che godono di un’autonomia pressoché totale) la responsabilità di determinare, promuovere e organizzare le attività apostoliche che ritengono più opportune: può trattarsi di un centro d’istruzione superiore o di un collegio universitario, come pure di un ambulatorio medico o di una scuola agraria.
Come logico risultato, disponiamo di un molteplice e variopinto mosaico di attività: un mosaico “organizzatamente disorganizzato”.
In base a quanto ha detto, come si inserisce, secondo lei, la realtà ecclesiale dell’Opus Dei nell’azione pastorale di tutta la Chiesa? E come nell’ecumenismo?
Mi pare opportuno anzitutto un chiarimento. L’Opus Dei non è, né può essere considerato, un fenomeno relativo al processo evolutivo dello “stato di perfezione” nella Chiesa; non è una forma moderna o “aggiornata” di questo stato.
In effetti la spiritualità e il fine apostolico che Dio ha voluto per la nostra Opera non hanno nulla a che fare con la concezione teologica dello status perfectionis (che san Tommaso, Suàrez e altri autori hanno configurato dottrinariamente in termini definitivi), né con le diverse concretizzazioni giuridiche che sono o possono essere derivate da questo concetto teologico. Una completa esposizione dottrinale in materia sarebbe lunga; ma basti considerare che all’Opus Dei non interessano per i suoi soci, né voti, né promesse, né alcuna forma di consacrazione che non sia quella che tutti hanno già ricevuto con il Battesimo.
L’Opus Dei non pretende in nessun modo che i soci cambino di stato, cioè che passino dalla condizione di semplici fedeli (uguali a tutti gli altri) alla speciale condizione dello status perfectionis. È vero il contrario: ciò che l’Opera desidera e promuove è che ciascuno svolga l’apostolato e si santifichi nel proprio stato, nello stesso posto e nella stessa condizione che ha nella Chiesa e nella società civile. Non spostiamo nessuno da dove si trova, non allontaniamo nessuno dal suo lavoro, dai suoi impegni, dai suoi legittimi legami di ordine temporale.
La realtà sociale dell’Opus Dei, la sua spiritualità e la sua azione si inseriscono quindi in un filone della vita della Chiesa ben diverso, e cioè nel processo teologico e vitale che sta conducendo il laicato alla piena assunzione delle sue responsabilità ecclesiali, al modo che gli è proprio di prendere parte alla missione di Cristo e della sua Chiesa. È stata e rimane questa, nei quasi quarant’anni di vita dell’Opus Dei, la preoccupazione costante, serena ma forte, con cui Dio ha voluto orientare, nella mia anima e in quella dei miei figli, il desiderio di servirlo.
Qual è il contributo dell’Opus Dei a questo processo? Forse non è questo il momento storico più adeguato per una valutazione globale di tale genere. Benché si tratti di problemi di cui molto si è occupato il Concilio Vaticano II (con grande gioia per il mio spirito), e benché il Magistero abbia confermato e illuminato a sufficienza non pochi concetti e non poche situazioni relative alla vita e alla missione del laicato, resta però un notevole nucleo di questioni che rappresentano tuttora, per la generalità della dottrina, dei veri problemi limite della teologia.
A noi, nell’ambito della spiritualità che Dio ha dato all’Opus Dei e che ci sforziamo di praticare fedelmente (malgrado le nostre personali imperfezioni), sembra già divinamente risolta la maggior parte di tali questioni in discussione, ma non pretendiamo di presentare queste soluzioni come “le uniche” possibili.
Ci sono poi altri aspetti dello stesso processo di sviluppo ecclesiologico che rappresentano mirabili conquiste dottrinali, alle quali Dio ha voluto, indubbiamente, che contribuisse – e in misura notevole, direi – la testimonianza offerta dalla spiritualità e dalla vita dell’Opus Dei, assieme a quella, non meno benemerita, di altre iniziative e istituzioni apostoliche. Ma queste conquiste dottrinali dovranno forse attendere parecchio tempo prima di diventare parte integrante della vita “totale” del Popolo di Dio.
Lei stesso accennava, nelle domande precedenti, ad alcuni di questi aspetti: lo sviluppo di un’autentica spiritualità laicale; la comprensione del peculiare ruolo ecclesiale – non “ecclesiastico” o ufficiale – proprio del laico; la chiarificazione dei diritti e dei doveri che il laico ha in quanto laico; i rapporti fra Gerarchia e laicato; la pari dignità e la complementarità di funzioni dell’uomo e della donna nella Chiesa; il bisogno di un’ordinata opinione pubblica nel Popolo di Dio, e così via.
Tutto ciò rappresenta evidentemente una realtà molto fluida, e talvolta non esente da paradossi. La stessa cosa che, detta quarant’anni fa, faceva scandalizzare tutti o quasi tutti, oggi non fa meraviglia a nessuno: però sono ancora ben pochi a comprenderla a fondo e a praticarla rettamente.
Mi spiegherò meglio con un esempio.
Nel 1932, commentando ai miei figli dell’Opus Dei alcuni degli aspetti e delle conseguenze della peculiare dignità e della responsabilità che il Battesimo conferisce alle persone, scrivevo loro in un documento: “Va respinto il pregiudizio secondo cui i comuni fedeli non possono far altro che prestare il proprio aiuto al clero, in attività ecclesiastiche.
Non si comprende perché l’apostolato dei laici debba sempre limitarsi a una semplice partecipazione all’apostolato gerarchico. Essi stessi hanno il dovere di esercitare l’apostolato. E non perché ricevano una missione canonica, ma perché sono parte della Chiesa; la loro missione […] la assolvono attraverso la professione, il mestiere, la famiglia, i colleghi e gli amici “.
Oggi, dopo i solenni insegnamenti del Vaticano II, nessuno nella Chiesa metterà in discussione, immagino, l’ortodossia di questa dottrina. Ma quanti hanno abbandonato davvero quell’unico concetto dell’apostolato dei laici come di una attività pastorale “organizzata dall’alto”? Quanti hanno superato la vecchia concezione “monolitica” dell’apostolato laicale e capiscono che esso può e anzi deve realizzarsi anche senza bisogno di rigide strutture centralizzate, di missioni canoniche e di mandati gerarchici?
E quanti definiscono il laicato la longa manus Ecclesiae, non stanno forse confondendo il concetto della Chiesa come Popolo di Dio con il concetto più ristretto di Gerarchia? O ancora, quanti laici riescono a capire bene che solo rimanendo in stretta comunione con la Gerarchia hanno diritto a rivendicare il loro legittimo àmbito di autonomia apostolica?
Considerazioni dello stesso genere potrebbero farsi a proposito di altre questioni, perché è davvero molto, anzi moltissimo ciò che resta ancora da fare, sia nella necessaria esposizione dottrinale che nell’educazione delle coscienze e nella stessa riforma della legislazione ecclesiastica.
Io prego insistentemente il Signore – la preghiera è sempre stata la mia forza – che lo Spirito Santo assista il suo Popolo, e specialmente la Gerarchia, nella realizzazione di questi compiti. E prego pure perché continui a servirsi dell’Opus Dei, in modo da poter contribuire anche noi, per quanto possiamo, a questo difficile ma meraviglioso processo di sviluppo e di crescita della Chiesa.
Lei mi domandava anche “come si inserisce l’Opus Dei nell’ecumenismo”. Già l’anno scorso ebbi a raccontare a un giornalista francese – e so che l’aneddoto ha avuto una certa eco, anche in pubblicazioni dei nostri fratelli separati – quello che dissi una volta al Santo Padre Giovanni XXIII, incoraggiato dal fascino affabile e paterno della sua persona: “Padre Santo, nella nostra Opera tutti gli uomini, siano o no cattolici, hanno trovato sempre accoglienza: non ho imparato l’ecumenismo da Vostra Santità”.
Egli rise commosso, perché sapeva che, fin dal 1950, la Santa Sede aveva autorizzato l’Opus Dei ad accogliere come associati cooperatori i non cattolici e perfino i non cristiani.
E in effetti sono parecchi – né mancano fra di loro dei pastori e addirittura dei vescovi delle rispettive confessioni – i fratelli separati che si sentono attratti dallo spirito dell’Opus Dei e collaborano ai nostri apostolati.
E sono ogni giorno più frequenti – man mano che si intensificano i contatti – le manifestazioni di simpatia e di intesa cordiale che nascono dal fatto che i soci dell’Opus Dei hanno come cardine della loro spiritualità il semplice proposito di dare responsabile attuazione agli impegni e alle esigenze battesimali del cristiano.
Il desiderio di tendere alla santità cristiana e di praticare l’apostolato, procurando la santificazione del proprio lavoro professionale; il vivere immersi nella realtà secolari rispettando la loro autonomia, ma trattandole con lo spirito e l’amore delle anime contemplative; il primato che nell’organizzazione delle nostre attività diamo alla persona, all’azione dello Spirito nelle anime, al rispetto della dignità e della libertà che nascono dalla filiazione divina del cristiano; la difesa – contro la concezione monolitica e istituzionalistica dell’apostolato dei laici – della legittima capacità di iniziativa, nel necessario rispetto del bene comune: questi e altri aspetti del nostro modo di essere e di lavorare sono punti di facile incontro, dove i fratelli separati scoprono – in forma vissuta e con la conferma degli anni – gran parte dei presupposti dottrinali sui quali sia loro che noi cattolici abbiamo posto tante fondate speranze ecumeniche.
Cambiando discorso, ci interesserebbe conoscere la sua opinione sull’attuale momento della Chiesa. In particolare, come lo definirebbe lei? Qual è il ruolo che, a suo giudizio, possono svolgere nel momento attuale le tendenze che in modo generale sono state designate con i termini di “progressista’ e “integrista”?
A mio avviso, l’attuale momento dottrinale della Chiesa può definirsi positivo, e allo stesso tempo delicato, come ogni crisi di sviluppo. È positivo, senza alcun dubbio, perché le ricchezze dottrinali del Concilio Vaticano II hanno collocato la Chiesa intera – tutto il Popolo sacerdotale di Dio – di fronte a una nuova tappa, immensamente ricca di speranze, di rinnovata fedeltà al disegno divino di salvezza che le è stato affidato.
Ed è anche un momento delicato, perché le conclusioni teologiche cui si è giunti non sono di tipo, per così dire, astratto o teorico, ma costituiscono una teologia estremamente “viva”, ossia dotata di immediate e dirette applicazioni di ordine pastorale, ascetico e normativo, che toccano nel più intimo la vita interna ed esterna della comunità cristiana – liturgia, strutture organizzative della Gerarchia, forme di apostolato, Magistero, dialogo con il mondo, ecumenismo, ecc. – e pertanto toccano anche la vita cristiana e la coscienza stessa dei fedeli.
Sia l’uno che l’altro aspetto reclamano delle istanze che la nostra anima deve riconoscere: l’ottimismo cristiano – la lieta certezza che lo Spirito Santo renderà feconda di frutti la dottrina con cui ha arricchito la Sposa di Cristo -, e contemporaneamente la prudenza da parte di chi si dedica alla ricerca teologica o detiene l’autorità, perché dei danni incalcolabili potrebbero essere arrecati, ora più che mai, dalla mancanza di serenità e di misura nello studio dei problemi.
Per quanto riguarda le tendenze che lei definisce “progressiste” e “integriste”, mi riesce difficile esprimere un’opinione sul ruolo che possono svolgere in questo momento, perché sempre mi sono rifiutato di ammettere l’opportunità e addirittura la possibilità di fare delle catalogazioni o semplificazioni di questo genere.
Questa ripartizione – che alle volte viene spinta fino a estremi di vero parossismo, o che si cerca di perpetuare, come se i teologi e i fedeli in genere fossero destinati a un continuo “orientamento bipolare” – ho l’impressione che in fondo nasca dalla convinzione che il progresso dottrinale e vitale del Popolo di Dio sia il risultato di una perpetua tensione dialettica. Io invece preferisco credere – con tutta l’anima – all’azione dello Spinto Santo, che spira dove vuole e su chi vuole.
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