La donna nella vita sociale e nella Chiesa
Intervista raccolta da P. Salcedo, pubblicata in “Telva” (Madrid) il 01/02/1968
Monsignore, la presenza della donna nella vita sociale sta diventando sempre più ampia, anche aldilà dell’àmbito famigliare in cui essa si è mossa quasi esclusivamente fino a ora: Che cosa pensa di questa evoluzione? E quali sono, secondo lei, le caratteristiche di base che la donna deve possedere per il compimento della missione che le è assegnata?
Innanzitutto, mi sembra opportuno non contrapporre i due àmbiti a cui ha accennato. Come nella vita dell’uomo, anche in quella della donna, ma con caratteristiche molto peculiari, il focolare e la famiglia occuperanno sempre un posto preminente: è evidente che il dedicarsi ai compiti famigliari costituisce una grande funzione umana e cristiana.
Tuttavia questo non esclude la possibilità di svolgere altre attività professionali – anche quella domestica è un’attività professionale – in una qualunque delle mansioni e degli impieghi dignitosi esistenti nella società in cui si vive. È facile capire che cosa si intende impostando così il problema; penso però che se si insiste troppo sulla contrapposizione sistematica tra casa ed attività esterne, e ci si limita a spostare l’accento da un termine all’altro, si potrebbe giungere, da un punto di vista sociale, a un errore maggiore di quello che si cerca di correggere, giacché sarebbe senz’altro più grave che la donna abbandonasse il lavoro di casa.
Nemmeno sul piano personale si può affermare, in modo unilaterale, che la donna può raggiungere la propria perfezione solo al di fuori della famiglia: come se il tempo che essa dedica alla famiglia fosse tempo rubato allo sviluppo ed alla maturità della sua personalità.
Il focolare – qualunque esso sia, poiché anche la donna non sposata deve avere un focolare – è un àmbito particolarmente propizio per lo sviluppo della personalità. Il maggior motivo di dignità della donna sarà sempre costituito dalle cura prestate alla famiglia; con la sollecitudine verso il marito e i figli o, per parlare in termini più generali, con il proprio impegno per creare intorno a sé un ambiente accogliente e formativo, la donna realizza l’aspetto più insostituibile della sua missione, e in conseguenza può raggiungere proprio lì la sua personale perfezione.
Come ho già detto, questo non si oppone ad altri aspetti della vita sociale, compresa la politica, per esempio. Anche in questi settori, la donna – come persona, e con le caratteristiche proprie della sua femminilità – può apportare un valido contributo; e ci riesce nella misura in cui è preparata da un punto di vista umano e professionale. Tanto la famiglia, infatti, quanto la società, hanno bisogno del suo speciale contributo, che non è affatto secondario.
Sviluppo, maturità, emancipazione della donna non devono significare una pretesa di uguaglianza – di uniformità – nei riguardi dell’uomo, una “imitazione” dei modelli maschili: ciò per la donna non sarebbe una conquista, ma piuttosto una perdita, e non perché essa valga di più o di meno dell’uomo, ma perché è diversa.
Sotto il profilo essenziale – che deve avere un riconoscimento giuridico sia civile che ecclesiastico – si può certamente parlare di “uguaglianza di diritti”, perché la donna ha allo stesso modo dell’uomo la dignità di persona e di figlia di Dio. Ma da questa base di uguaglianza fondamentale, ognuno deve mirare a ciò che gli è proprio; l’emancipazione viene quindi a significare per la donna la possibilità reale di sviluppare pienamente le proprie virtualità: quelle che essa possiede nella sua singolarità, e quelle che ha in quanto donna.
L’uguaglianza di fronte al diritto, la parità davanti alla legge, non sopprimono ma anzi presuppongono e promuovono tale diversità, che è poi ricchezza per tutti.
La donna è chiamata ad apportare alla famiglia, alla società civile, alla Chiesa, qualche cosa di caratteristico che le è proprio e che solo lei può dare: la sua delicata tenerezza, la sua instancabile generosità, il suo amore per la concretezza, il suo estro, la sua capacità di intuizione, la sua pietà profonda e semplice, la sua tenacia… La femminilità non è autentica se non sa cogliere la bellezza di questo insostituibile apporto e non ne fa vita della propria vita.
Per compiere questa missione la donna deve sviluppare la propria personalità, senza lasciarsi trasportare da un ingenuo spirito di imitazione che finirebbe quasi sempre per collocarla in una situazione di inferiorità e mortificherebbe le sue possibilità più originali.
Se si forma bene, con autonomia personale, con autenticità, essa realizzerà efficacemente la sua opera, la missione a cui si sente chiamata, qualunque essa sia: la sua vita, il suo lavoro, saranno veramente costruttivi e fecondi, ricchi di significato, sia che trascorra le proprie giornate dedita al marito e ai figli, sia che, avendo rinunciato al matrimonio per nobili motivi, essa abbia deciso di dedicarsi interamente ad altri compiti.
Ciascuna per la propria strada, fedele alla sua vocazione umana e divina, può realizzare, come di fatto avviene, la personalità femminile in tutta la sua pienezza. Non dimentichiamo che la Madonna, Madre di Dio e Madre degli uomini, non solo è un modello, ma anche la prova del valore trascendentale che può assumere una vita apparentemente irrilevante.
Talvolta, però, la donna non si sente certa di trovarsi veramente al posto che le spetta, al posto cui è chiamata. Molto spesso, quando lavora fuori, pesano su di lei le esigenze della casa; quando invece si dedica completamente alla famiglia, avverte una limitazione delle proprie possibilità. Lei che cosa direbbe alle donne che provano tali contraddizioni?
Tale sensazione – molto reale – deriva spesso, più che da vere e proprie limitazioni – che tutti abbiamo, perché siamo esseri umani – dalla mancanza di ideali ben determinati, tali da dar senso a una vita intera, o anche da inconsapevole superbia: a volte vorremmo essere i migliori in tutti i campi e a tutti i livelli.
E siccome ciò non è possibile, nasce uno stato di ansietà e di disorientamento o addirittura di tedio e di scoraggiamento: non si riesce a badare a tutto; non si sa a che dedicarsi e si finisce per non concludere nulla. In una simile situazione, l’anima rimane esposta all’invidia, l’immaginazione facilmente si sbriglia e cerca rifugio nella fantasticheria, che allontana dalla realtà e finisce con l’addormentare la volontà.
È ciò che spesso ho chiamato mistica del magari, fatta di vani sogni e di falsi idealismi: magari non mi fossi sposato, magari avessi un altro lavoro, magari avessi una salute migliore, o meno anni, o più tempo a disposizione!
Il rimedio (costoso, come qualsiasi cosa di valore) sta nel cercare il vero centro della vita umana, ciò che a tutto può dare il giusto posto, un ordine e un senso: il rapporto con Dio attraverso un’autentica vita interiore. Se vivendo in Cristo abbiamo in Lui il nostro centro, scopriamo il senso della missione affidataci, abbiamo un ideale umano che diviene divino, nuovi orizzonti e nuove speranze ci si aprono dinanzi, e arriviamo sino a sacrificare con gioia non già questo o quell’aspetto della nostra attività, ma la vita intera, dandole così, paradossalmente, il compimento più profondo.
Il problema che lei riscontra nella donna, non le è esclusivo: pur con circostanze diverse, molti uomini sperimentano talvolta una situazione analoga. La radice di solito è la stessa: mancanza di un profondo ideale, che si arriva a scoprire solo alla luce di Dio.
Comunque, occorre mettere in pratica anche dei piccoli rimedi, che sembrano banali, ma non lo sono affatto: se si hanno molte cose da fare, bisogna stabilire un ordine, organizzarsi. Molte delle difficoltà nascono dalla mancanza di ordine, dal non aver acquistato questa dote.
Ci sono donne che fanno mille cose, e tutte bene, perché hanno saputo organizzarsi, imponendo con energia un ordine all’abbondanza dei compiti. Hanno saputo badare in ogni occasione a ciò che dovevano fare in quel momento, senza frastornarsi col pensiero di ciò che sarebbe venuto poi o di ciò che forse avrebbero potuto fare prima. Altre invece si lasciano opprimere dal molto da fare, e così non fanno nulla.
Certo, ci saranno sempre molte donne che non avranno altra occupazione che quella di portare avanti la propria casa. Ebbene, vi dico che si tratta di una magnifica occupazione, e vale la pena dedicarvisi. Attraverso tale professione – perché lo è: vera e nobile – esercitano un positivo influsso non solo sulla famiglia, ma anche su moltissimi amici e conoscenti, su tante persone con cui in un modo o nell’altro vengono in contatto: esercitano un’influenza a volte molto più estesa di quella di altre professioni.
Non parliamo poi di quando pongono la loro esperienza e la loro scienza al servizio di centinaia di persone, in centri destinati alla formazione della donna, del tipo di quelli che dirigono le mie figlie dell’Opus Dei in tutti i Paesi del mondo. Allora diventano maestre della casa, con un’efficacia educativa, direi, superiore, a quella di molti docenti universitari.
Mi scusi, ma vorrei insistere sullo stesso tema. Da lettere che ci arrivano in redazione, sappiamo che alcune madri di famiglia numerose si lamentano di vedersi ridotte al compito di mettere figli al mondo, e sentono un’insoddisfazione molto grande perché non possono dedicarsi nella loro vita ad altre cose: lavoro professionale, cultura, impegno sociale. Che cosa consiglierebbe a queste persone?
Vediamo un po’. Che cosa è la dimensione sociale se non darsi agli altri, con senso di dedizione e di servizio, per contribuire con efficacia al bene di tutti? Il lavoro della donna nella propria casa non solo è di per sé una funzione sociale, ma può essere addirittura la funzione sociale di maggior rilievo.
Pensate a una famiglia numerosa: in essa l’importanza del lavoro di una madre può essere ben paragonata a quella degli educatori di professione, e sovente il confronto è a vantaggio delle donne. Un insegnante, durante una vita intera, riesce a formare così così un certo numero di ragazzi o di ragazze. Una madre invece può formare i suoi figli in profondità, negli aspetti più basilari, e può farli diventare, a loro volta, educatori, in modo da creare un’ininterrotta catena di responsabilità e di virtù.
Anche in questi temi è facile lasciarsi sedurre da un criterio meramente quantitativo, fino a pensare che è preferibile il lavoro dell’insegnante, per le cui aule passano migliaia di persone, o quello dello scrittore che si dirige a migliaia di lettori. In realtà, quello scrittore o quell’insegnante, quante persone formano realmente? Una madre si cura di tre, cinque, dieci o più figli; e può fare di loro una vera e propria opera d’arte, una meraviglia di educazione, di equilibrio, di comprensione, di senso cristiano della vita, in modo che siano felici e possano essere realmente utili agli altri.
D’altronde trovo naturale che i figli e le figlie aiutino nei lavori della casa: una madre che sappia preparare bene i figli, riesce a farsi aiutare, e così potrà disporre di più occasioni e di più tempo per coltivare – se ben utilizzato – interessi e talenti personali e arricchire la propria cultura.
Per fortuna oggi – come ben sapete – non mancano mezzi tecnici che risparmiano molto lavoro, se sono bene impiegati e si sa ricavarne il miglior profitto. Qui, come in tutte le cose, sono determinanti le condizioni personali: ci sono donne che hanno una lavatrice ultimo modello, eppure a lavare impiegano più tempo e lo fanno peggio di quando lo facevano a mano. Gli strumenti sono utili quando si sa adoperarli.
So di molte donne sposate e con parecchi figli, che governano ottimamente il loro focolare, e in più trovano il tempo per collaborare ad altre attività apostoliche, come quella coppia di sposi della cristianità primitiva, Aquila e Priscilla, che lavoravano sia in casa che nel loro mestiere, e furono inoltre degli splendidi collaboratori di san Paolo; con la loro parola e con l’esempio attrassero Apollo alla fede di Cristo, ed egli divenne poi un grande predicatore della Chiesa nascente.
Come ho già detto, buona parte dei limiti si possono superare senza trascurare nessun dovere, se davvero si vuole. In fondo c’è tempo per fare molte cose: per governare la casa con senso professionale, per dedicarsi costantemente agli altri, per elevare la propria cultura e arricchire quella altrui, per svolgere tanti compiti pieni di efficacia.
Lei ha accennato alla presenza della donna nella vita pubblica, nella politica. In questo campo si sono fatti in questi ultimi tempi dei notevoli passi avanti. A suo avviso, qual è il ruolo specifico che spetta alla donna in questo terreno?
La presenza della donna nel complesso della vita sociale è un fenomeno logico e completamente positivo, che fa parte del processo più ampio a cui mi riferivo prima. Una società moderna, democratica, deve riconoscere alla donna il diritto di prendere parte attiva alla vita politica, e deve creare le condizioni atte a favorire l’esercizio di questo diritto da parte di tutte coloro che desiderino farlo.
La donna che vuole dedicarsi attivamente alla gestione della cosa pubblica è tenuta a prepararsi come si deve, in modo che il suo operato nella vita della comunità sia responsabile e positivo. Qualsiasi lavoro professionale richiede una formazione previa e lo sforzo costante per elevare il livello di questa preparazione e per aggiornarla in rapporto alle circostanze sempre nuove.
Questa esigenza rappresenta un dovere del tutto speciale per coloro che aspirano a posti direttivi della società: essi infatti sono chiamati a svolgere un servizio della massima importanza, dal quale dipende il bene di tutti.
Una donna dotata della necessaria preparazione deve poter trovare aperti tutti gli sbocchi alla vita politica, a tutti i livelli. In questo senso, non si possono indicare alcune attività specifiche riservate solo alle donne.
Come dicevo prima, in questo terreno l’apporto specifico della donna non consiste tanto nell’attività o nel posto in sé, quanto nel modo di svolgere questa funzione, cioè nelle sfumature che la sua natura di donna saprà dare alle soluzioni dei problemi che si trova ad affrontare, e anche nel saper individuare e impostare in un certo modo questi problemi.
Grazie alle sue doti naturali, la donna può arricchire notevolmente la vita civile. Questa è una cosa evidente, soprattutto se pensiamo al vasto campo della legislazione famigliare e sociale. Le doti femminili costituiranno la migliore garanzia che saranno rispettati gli autentici valori umani e cristiani al momento di prendere delle misure che interessano in qualche modo la vita della famiglia, l’ambiente educativo, l’avvenire dei giovani.
Ho accennato al ruolo dei valori cristiani nella soluzione dei problemi sociali e famigliari: vorrei ora sottolineare la loro importanza in tutta la vita pubblica. Quando una donna deve occuparsi di questioni politiche, la fede cristiana dà a lei come all’uomo la responsabilità di realizzare un autentico apostolato, cioè un servizio cristiano a tutta la società.
Non si tratta di rappresentare ufficialmente o ufficiosamente la Chiesa nella vita pubblica, e meno ancora di servirsi della Chiesa a vantaggio della propria carriera o per interessi di parte. Si tratta invece di formarsi liberamente un’opinione su tutti i problemi temporali nei quali i cristiani sono liberi, e di assumersi personalmente la responsabilità del proprio pensiero e del proprio operato, che dovranno comunque essere sempre coerenti con la fede che si professa.
Nell’omelia pronunziata a Pamplona lo scorso mese di ottobre, durante la santa Messa celebrata per l’assemblea degli Amici dell’Università di Navarra, lei parlò dell’amore umano con parole commoventi. Molte lettrici ci hanno scritto dell’emozione che provarono nel sentirla parlare così. Ci direbbe ora quali sono i valori più importanti del matrimonio cristiano?
È materia che conosco bene, per mia diretta esperienza sacerdotale di molti anni e in molti Paesi. La maggioranza dei soci dell’Opus Dei vive nello stato matrimoniale; per loro l’amore umano e i doveri coniugali sono parte della vocazione divina. L’Opus Dei ha fatto del matrimonio un cammino divino, una vocazione, e ciò comporta molte conseguenze riguardanti la santificazione personale e l’apostolato.
Da quasi quarant’anni predico il significato vocazionale del matrimonio. Quante volte ho visto illuminarsi il volto di tanti, uomini e donne, che credendo inconciliabili nella loro vita la dedizione a Dio e un amore umano nobile e puro, mi sentivano dire che il matrimonio è una strada divina sulla terra!
Il matrimonio è fatto perché quelli che lo contraggono vi si santifichino e santifichino gli altri per mezzo di esso: perciò i coniugi hanno una grazia speciale, che viene conferita dal sacramento istituito da Gesù Cristo. Chi è chiamato allo stato matrimoniale, trova in esso, con la grazia di Dio, tutti i mezzi necessari per essere santo, per identificarsi ogni giorno di più con Gesù e per condurre verso il Signore le persone con cui vive.
È per questo che penso sempre con speranza e affetto ai focolari cristiani, a tutte le famiglie sbocciate dal sacramento del matrimonio, che sono luminose testimonianze del grande mistero divino – sacramentum magnum (Ef 5, 32), sacramento grande – dell’unione e dell’amore fra Cristo e la sua Chiesa.
Dobbiamo adoperarci perché queste cellule cristiane della società nascano e crescano con desiderio di santità, coscienti che il sacramento iniziale – il Battesimo – conferisce già a tutti i cristiani una missione divina, che ciascuno deve portare a compimento lungo il suo cammino.
Gli sposi cristiani devono avere la consapevolezza di essere chiamati a santificarsi santificando, cioè a essere apostoli; e che il loro primo apostolato si deve realizzare nella loro casa. Devono capire l’opera soprannaturale che è insita nella creazione di una famiglia, nell’educazione dei figli, nell’irradiazione cristiana nella società. Dalla consapevolezza della propria missione dipende gran parte dell’efficacia e del successo della loro vita: la loro felicità.
Non devono però dimenticare che il segreto della felicità coniugale è racchiuso nelle cose quotidiane, e non in fantasticherie. Consiste nello scoprire la gioia intima del ritorno al focolare, nell’incontro affettuoso coi figli; nel lavoro di ogni giorno a cui collabora tutta la famiglia; nel buon umore dinanzi alle difficoltà, che vanno affrontate con spirito sportivo; e anche nel saper approfittare di tutti i progressi offertici dalla civiltà per rendere la casa accogliente, la vita più semplice, la formazione più efficace.
Ripeto insistentemente a quanti sono stati chiamati da Dio a formare una famiglia di amarsi sempre; di amarsi con l’amore appassionato di quand’erano fidanzati. Ha un povero concetto del matrimonio – che è un sacramento, un ideale e una vocazione – colui che pensa che l’amore finisca quando iniziano le pene e i contrattempi che la vita porta sempre con sé.
È proprio allora che il legame d’affetto si rafforza. La piena delle tribolazioni e delle contrarietà non è capace di spegnere il vero amore: il sacrificio generosamente condiviso rafforza l’unione. Come dice la Bibbia, aquae multae – le molte difficoltà, fisiche e morali – non potuerunt extinguere caritatem (Ct 8, 7), non hanno potuto spegnere l’amore.
Sappiamo che la sua dottrina sul matrimonio come cammino di santità non è nuova nella sua predicazione. Già dal 1934, in Consideraciones espirituales, lei insisteva sulla necessità di vedere il matrimonio come una vocazione. Però, sia in questo libro che in Cammino, lei scrisse anche che il matrimonio è per “i soldati” e non per lo “stato maggiore” di Cristo. Ci spiegherebbe come si conciliano i due aspetti?
Nello spirito e nella vita dell’Opus Dei non c’è mai stata nessuna difficoltà per conciliare questi due aspetti. D’altronde, è bene ricordare che la maggiore eccellenza del celibato – quello fondato su motivi spirituali – non è una mia opinione teologica, bensì dottrina di fede della Chiesa.
Quando verso gli anni trenta scrivevo quelle frasi, nell’ambiente cattolico – nella vita pastorale concreta – si tendeva a promuovere la ricerca della perfezione cristiana nella gioventù facendo apprezzare solo il valore soprannaturale della verginità, e lasciando in ombra il valore del matrimonio cristiano come cammino di santità.
Normalmente nelle scuole cattoliche non si era soliti formare i giovani ad apprezzare adeguatamente la dignità del matrimonio. Anche oggi è frequente che negli esercizi spirituali che si danno agli alunni degli ultimi anni, vengano proposti molti più elementi per considerare una possibile vocazione religiosa, piuttosto che quelli dell’altrettanto possibile orientamento al matrimonio.
E non mancano coloro – in numero, fortunatamente, sempre minore – che screditano la vita coniugale, presentandola ai giovani come qualcosa che la Chiesa si limita a tollerare, come se la formazione di una famiglia non permettesse di aspirare seriamente alla santità.
Nell’Opus Dei ci siamo sempre comportati in un altro modo, e – mettendo ben in chiaro la ragion d’essere e l’eccellenza del celibato apostolico – abbiamo indicato il matrimonio come un cammino divino sulla terra.
Non mi spaventa l’amore umano, l’amore santo dei miei genitori, di cui il Signore si valse per darmi la vita. Quell’amore io lo benedico con tutte e due le mani. I coniugi sono i ministri e la materia stessa del sacramento del matrimonio, come il pane e il vino sono la materia dell’Eucaristia.
Per questo mi piacciono tutte le canzoni che parlano dell’amore puro degli uomini: per me sono canti d’amore umano che innalzano al divino. Allo stesso tempo, dico sempre che quelli che seguono la vocazione al celibato apostolico non sono degli scapoloni che non comprendono e non apprezzano l’amore, tutt’altro: la spiegazione della loro vita sta nella realtà di quell’Amore divino – mi piace scriverlo con la maiuscola – che è l’essenza stessa di ogni vocazione cristiana.
Non c’è nessuna contraddizione fra apprezzare la vocazione matrimoniale e comprendere la maggior eccellenza della vocazione al celibato propter regnum coelorum (Mt 19, 12). Sono convinto che qualsiasi cristiano capisce perfettamente che queste due cose sono compatibili, se fa in modo di conoscere, accettare e amare l’insegnamento della Chiesa, e se cerca anche di conoscere, accettare e amare la propria vocazione personale. Vale a dire: se ha fede e vive i fede.
Quando scrivevo che il matrimonio è per i soldati non facevo altro che descrivere ciò che è sempre stato nella Chiesa. Sapete che i Vescovi – che formano il Collegio Episcopale, che hanno il Papa come capo e governano con lui tutta la Chiesa – sono scelti fra coloro che vivono il celibato; questo vale anche per le Chiese orientali, dove sono ammessi i presbiteri sposati. Inoltre è facile capire e verificare che i celibi godono di fatto una maggior libertà di cuore e di movimento per dedicarsi stabilmente a dirigere e sostenere attività apostoliche, e questo è vero anche nell’apostolato dei laici.
Ciò non vuol dire che gli altri laici non possano svolgere o non svolgano di fatto un apostolato meraviglioso e di primaria importanza: vuole solo dire che esistono diverse funzioni, diversi compiti in posti di diversa responsabilità.
In battaglia – il mio paragone voleva significare solo questo – i soldati non sono meno necessari dello stato maggiore, e possono essere più eroici e meritare più gloria. Insomma: ci sono compiti diversi, e tutti sono importanti e nobili. Quello che importa è soprattutto la corrispondenza di ciascuno alla propria vocazione: per ognuno ciò che è più perfetto è – sempre e solo – compiere la volontà di Dio.
Quindi, un cristiano che si impegna per santificarsi nello stato matrimoniale ed è consapevole della grandezza della propria vocazione, sente spontaneamente una particolare venerazione e un profondo affetto verso quanti sono chiamati al celibato apostolico; e quando, per grazia di Dio, qualcuno dei suoi figli intraprende questo cammino, egli ne prova sincera gioia. E giunge ad amare ancora di più la propria vocazione matrimoniale, che gli ha permesso di offrire a Cristo – il grande Amore di tutti, celibi o sposati – i frutti dell’amore umano.
Molti coniugi si sentono disorientati dai consigli che ricevono, perfino da alcuni sacerdoti, in rapporto al numero dei figli. Che cosa consiglierebbe lei a questi sposi, di fronte a tanta confusione?
Quanti confondono in questo modo le coscienze, dimenticano che la vita è sacra, e si rendono meritevoli dei duri rimproveri del Signore contro i ciechi che guidano altri ciechi, contro quelli che non vogliono entrare nel Regno dei cieli e non vi lasciano entrare nemmeno gli altri.
Non giudico le loro intenzioni; anzi, sono convinto che molti danno simili consigli spinti dalla compassione e dal desiderio di risolvere situazioni difficili: ma non posso nascondere che mi causa profondo dolore l’opera distruttrice – diabolica, in molti casi – di quanti non solo non trasmettono la buona dottrina, ma addirittura la corrompono.
Gli sposi, quando ricevono consigli e raccomandazioni in materia, non dimentichino che l’importante è di conoscere quello che vuole Dio.
Quando vi è sincerità – rettitudine – e un minimo di formazione cristiana, la coscienza sa scoprire la volontà di Dio, qui come in tutte le altre cose. Può infatti succedere che si stia cercando un consiglio che favorisca il proprio egoismo, che metta a tacere, con la forza di una presunta autorità, la voce della propria anima; e addirittura che si vada passando da un consigliere all’altro fino a trovare il più “benevolo”. Questo, fra l’altro è un atteggiamento farisaico indegno di un figlio di Dio.
Il consiglio di un altro cristiano e in particolare nei problemi di morale o di fede, il consiglio del sacerdote, sono un valido aiuto per riconoscere quello che Dio ci chiede in una determinata circostanza; ma il consiglio non elimina la responsabilità personale: siamo noi, singolarmente, a dover decidere, e dovremo rendere personalmente conto a Dio delle nostre decisioni.
Al di sopra dei consigli privati c’è la legge di Dio, contenuta nella Sacra Scrittura, e che il Magistero della Chiesa custodisce e propone con l’assistenza dello Spirito Santo. Quando i consigli di una persona contraddicono la Parola di Dio, quale viene insegnata nel Magistero, bisogna scostarsi con decisione da quei pareri erronei.
Dio aiuterà con la sua grazia colui che agisce con una simile rettitudine, ispirandogli quello che deve fare e, qualora ne abbia bisogno, facendogli trovare un sacerdote capace di condurre la sua anima attraverso sentieri retti e puliti, anche se spesso difficili.
Non bisogna impostare la direzione spirituale dedicandosi a fabbricare delle creature prive del proprio giudizio e che si limitano a eseguire materialmente ciò che un altro dice loro; la direzione spirituale invece deve tendere a formare persone di criterio. E il criterio implica maturità, fermezza nelle proprie convinzioni, sufficiente conoscenza della dottrina, delicatezza di spirito, educazione della volontà.
È importante che gli sposi acquistino un chiaro senso della dignità della loro vocazione; che sappiano di esser stati chiamati da Dio a raggiungere l’amore divino attraverso l’amore umano; che sono stati scelti, fin dall’eternità, per cooperare con il potere creatore di Dio nella procreazione e poi nell’educazione dei figli; che il Signore chiede che facciano della loro casa e della loro vita di famiglia una testimonianza di tutte le virtù cristiane.
Il matrimonio – non mi stancherò mai di ripeterlo – è un cammino divino, grande e meraviglioso; e come tutto ciò che abbiamo di divino in noi, ha manifestazioni concrete di corrispondenza alla grazia, di generosità, di donazione, di servizio. L’egoismo in ciascuna delle sue forme, si oppone all’amore di Dio che deve dominare nella nostra vita. Questo è un punto fondamentale, che dev’essere tenuto ben presente a proposito del matrimonio e del numero dei figli.
Ci sono donne che, avendo già un certo numero di figli, non osano comunicare ai parenti e agli amici l’arrivo di un altro bambino. Temono le critiche di quelli che pensano che, dal momento che esiste la “pillola”, la famiglia numerosa è sorpassata. È chiaro che oggigiorno può essere difficile tirar su una famiglia con parecchi figli. Che cosa ci può dire al riguardo?
Io benedico quei genitori che, ricevendo con gioia la missione che Dio ha loro affidata, hanno molti figli. E invito gli sposi a non inaridire le sorgenti della vita, ad aver senso soprannaturale e coraggio per far crescere una famiglia numerosa, se Dio la concede.
Quando esalto la famiglia numerosa, non mi riferisco a quella che è conseguenza di mere relazioni fisiologiche; mi riferisco alla famiglia che nasce dall’esercizio delle virtù cristiane, che ha un senso elevato della dignità della persona e sa che dare figli a Dio non vuol dire soltanto metterli al mondo, ma richiede anche tutto un lungo lavoro di educazione: dar loro la vita è la prima cosa, ma non è tutto.
Ci possono essere dei casi concreti in cui è volontà di Dio – manifestata attraverso mezzi ordinari – che una famiglia sia piccola. Ma sono criminali, anticristiane e infraumane tutte le teorie che fanno della limitazione delle nascite un ideale o un dovere universale o semplicemente generale.
Non è altro che contraffare e pervertire la dottrina cristiana far leva su di un preteso spirito post-conciliare per attaccare la famiglia numerosa. Il Concilio Vaticano II ha proclamato che “tra i coniugi che soddisfano alla missione loro affidata da Dio, sono da ricordare in modo particolare quelli che, con decisione prudente e di comune accordo, accettano con grande animo anche un più gran numero di figli da educare convenientemente” (Cost. past. Gaudium et spes, n. 50).
Paolo VI, poi, in un’allocuzione del 12 febbraio 1966, commentava: “Che il Concilio Vaticano II appena concluso diffonda tra gli sposi cristiani questo spirito di generosità per dilatare il nuovo Popolo di Dio… Ricordiamo sempre che la dilatazione del Regno di Dio e la possibilità di penetrazione della Chiesa nell’umanità, per la sua salvezza eterna e terrena, è affidata anche alla loro generosità”.
In sé, il numero dei figli non è decisivo: averne molti o pochi non basta perché una famiglia sia più o meno cristiana. Ciò che conta è la rettitudine con cui si vive la vita matrimoniale. Il vero amore reciproco trascende la comunione di vita tra marito e moglie, e si estende ai suoi frutti naturali, i figli.
Invece l’egoismo finisce per degradare questo amore al livello della semplice soddisfazione dell’istinto, e distrugge il rapporto che unisce genitori e figli. È difficile sentirsi buon figlio – vero figlio – dei propri genitori quando si possa pensare di essere venuto al mondo contro la loro volontà, cioè di essere nato non da un amore degno di questo nome, ma da un imprevisto o da un errore di calcolo.
Dicevo che in sé il numero dei figli non è determinante. Tuttavia vedo con chiarezza che gli attacchi alle famiglie numerose provengono dalla mancanza di fede: sono il prodotto di un ambiente sociale incapace di comprendere la generosità, e che pretende di nascondere il proprio egoismo e certe pratiche inconfessabili con motivazioni apparentemente altruiste.
E così, paradossalmente, i Paesi dove si fa più propaganda del controllo delle nascite, e dai quali tale pratica viene imposta ad altri Paesi, sono proprio quelli che hanno raggiunto un più alto tenore di vita. Si potrebbero forse considerare seriamente i loro argomenti di natura economica e sociale, qualora tali argomenti li muovessero a rinunziare a una parte dei beni opulenti di cui godono, a favore dei bisognosi.
Ma finché questo non avviene, è difficile non pensare che in realtà i veri moventi di tali argomentazioni sono l’edonismo e l’ambizione di dominio politico, il neocolonialismo demografico.
Non ignoro i grandi problemi che tormentano l’umanità, né le concrete difficoltà in cui può imbattersi una determinata famiglia; vi penso anzi con frequenza, e mi si riempie di pietà quel cuore di padre che come cristiano e come sacerdote sono obbligato ad avere. Ma non è lecito cercare la soluzione per simili vie.
Non capisco come possano esserci cattolici – o addirittura sacerdoti – che da anni consigliano, con coscienza tranquilla, l’uso della pillola per evitare la concezione. Non si possono ignorare gli insegnamenti pontifici con tanta leggerezza. Né si può addurre a pretesto – come fanno costoro, con incredibile superficialità – che il Papa quando non parla ex cathedra è un semplice “dottore privato” soggetto all’errore. Ci vuole proprio una smisurata arroganza per pensare che il Papa si sbagli e loro no!
Oltretutto, costoro dimenticano che il Romano Pontefice non è solo un dottore – infallibile, quando espressamente lo dice -, ma anche il supremo legislatore. E nel caso in questione, ciò che in termini inequivocabili ha deciso l’attuale pontefice Paolo VI è che si devono seguire obbligatoriamente, in questo campo così delicato, tutte le disposizioni del santo pontefice Pio XII, di venerata memoria, perché continuano ad essere vigenti; e Pio XII si limitò a permettere certi accorgimenti naturali – non una pillola – per evitare la concezione in casi isolati e ardui. Consigliare il contrario è dunque una disobbedienza grave al Santo Padre, e in materia grave.
Potrei scrivere un grosso libro sulle tristi conseguenze che l’uso dell’uno o dell’altro dei vari anticoncettivi comporta in ogni campo: distruzione dell’amore coniugale – marito e moglie non si guardano come sposi, ma come complici -, infelicità, infedeltà, squilibri spirituali e mentali, innumerevoli danni per i figli, perdita della pace del matrimonio…
Ma non lo ritengo necessario: preferisco limitarmi a obbedire al Papa. Se un giorno il Sommo Pontefice decidesse che per evitare la concezione è lecito l’uso di una certa medicina, io agirei in conformità alle parole del Santo Padre: attenendomi alle norme pontificie e a quelle della teologia morale, prenderei in considerazione, caso per caso, gli evidenti pericoli cui accennavo, e darei a ciascuno in coscienza il mio consiglio.
In ogni modo terrei sempre conto che questo nostro mondo di oggi lo salveranno non coloro che pretendono di narcotizzare la vita dello spirito e ridurre tutto a questioni economiche o di benessere materiale; ma quelli che sanno che la norma morale è in funzione del destino eterno dell’uomo: quelli cioè che hanno fede in Dio e ne accettano generosamente le esigenze, diffondendo in coloro che li circondano il senso trascendente della nostra vita sulla terra.
Questa certezza di fede porta non già a incoraggiare l’evasione, ma a procurare efficacemente che tutti abbiano i necessari mezzi materiali, che per tutti ci sia lavoro, che nessuno si veda ingiustamente limitato nella propria vita famigliare e sociale.
L’infecondità matrimoniale, per la frustrazione che può provocare, talvolta è fonte di discordia e di incomprensione. A suo giudizio, qual è il senso che devono dare alla loro unione gli sposi cristiani che non hanno prole?
In primo luogo direi loro che non devono darsi per vinti con troppa facilità: per prima cosa, bisogna che implorino Dio di concedere loro discendenza, di benedirli – se questa è la sua volontà – come benedisse i Patriarchi del Vecchio Testamento; e poi è bene ricorrere a un buon medico, sia lei che lui.
Se, nonostante tutto, il Signore non dà loro dei figli, non devono vedere in questo alcuna frustrazione: devono essere contenti di scoprire in questo stesso fatto la volontà di Dio nei loro confronti. Molte volte il Signore non dà figli perché “chiede di più”. Chiede che lo stesso sforzo e la stessa delicata dedizione vengano posti al servizio del nostro prossimo, senza la legittima soddisfazione umana d’aver avuto figli: non c’è quindi motivo per sentirsi falliti e tristi.
Se i coniugi hanno vita interiore, comprenderanno che Dio li spinge a fare della loro vita un generoso servizio cristiano, un apostolato che è diverso da quello che realizzerebbero coi loro figli, ma altrettanto meraviglioso.
Si guardino intorno: scopriranno immediatamente persone che hanno bisogno di aiuto, di carità e di affetto. E poi ci sono mille iniziative apostoliche in cui possono lavorare. Se sono capaci di dedicarsi con tutto il cuore a questo compito, donandosi agli altri con generosità e dimenticando sé stessi, avranno una splendida fecondità, una paternità spirituale che colmerà la loro anima di autentica pace.
Le soluzioni concrete saranno diverse in ogni singolo caso, ma in fondo tutte si riducono a occuparsi degli altri con desiderio di servizio, con amore. Dio premia sempre con una gioia profonda la generosa umiltà di chi sa non pensare a sé stesso.
Ci sono casi in cui la moglie – per una ragione o per l’altra – è separata dal marito, in situazioni degradanti ed insostenibili. Sono casi in cui è difficile accettare l’indissolubilità del vincolo coniugale. Queste donne separate dal marito si lamentano che si neghi loro la possibilità di costruirsi un nuovo focolare. Qual è la sua risposta in casi del genere?
Direi loro, con piena comprensione della loro sofferenza, che anche in questa situazione esse possono vedere la volontà di Dio, che non è mai crudele, perché Dio è un Padre amoroso. Può darsi che per un certo tempo la situazione sia particolarmente dura, ma, se ricorrono al Signore e alla sua Madre benedetta, non mancherà l’aiuto della grazia.
L’indissolubilità del matrimonio non è un capriccio della Chiesa, e neppure una semplice legge ecclesiastica positiva: è un precetto della legge naturale e del diritto divino, e risponde perfettamente alla nostra natura e all’ordine soprannaturale della grazia.
Per questo, nella stragrande maggioranza dei casi, l’indissolubilità è condizione indispensabile per la felicità dei coniugi e per la sicurezza anche spirituale dei figli. In ogni caso – pure quando si diano le circostanze dolorose di cui parliamo -, la docile accettazione della Volontà di Dio porta con sé una soddisfazione profonda, insostituibile. Non si tratta di una specie di ripiego, di una ricerca di consolazione: è la stessa essenza della vita cristiana.
Se queste donne hanno dei figli a loro carico, devono vedere in questo fatto una continua richiesta di amorosa e materna dedizione, più che mai necessaria per sopperire in queste creature alle deficienze di un focolare diviso. Devono anche capire, con generosità, che quella stessa indissolubilità che per loro comporta un sacrificio, è per la maggior parte delle famiglie la salvaguardia della loro integrità, un qualcosa che nobilita l’amore degli sposi e impedisce che i figli si trovino nell’abbandono.
Lo stupore di fronte all’apparente durezza del precetto cristiano dell’indissolubilità non è una novità: gli stessi Apostoli si meravigliarono quando Gesù ne diede loro conferma. Può apparire un peso, un giogo; ma proprio Cristo ha detto che il suo giogo è soave e il suo peso è leggero.
D’altronde, pur riconoscendo l’inevitabile durezza di parecchie situazioni – che in non pochi casi si sarebbero potute e dovute evitare -, non bisogna drammatizzare eccessivamente. La vita di una donna in queste condizioni è veramente più dura di quella di una donna maltrattata, o di quella di chi deve sopportare qualcuna delle grandi sofferenze fisiche o morali che la vita comporta?
Ciò che veramente rende infelice una persona – o un’intera società – è l’affannosa ricerca del benessere, la pretesa di eliminare a ogni costo qualsiasi contrarietà. La vita presenta mille aspetti diversi, situazioni svariatissime, difficili alcune, altre facili forse solo in apparenza.
Ciascuna di esse porta con sé un seme di grazia, una chiamata di Dio unica: sono occasioni irripetibili di operare e di offrire la testimonianza divina della carità. A chi sente il peso di una situazione difficile, io consiglierei anche di provare a dimenticare un po’ i suoi problemi e preoccuparsi di quelli degli altri: così,facendo avrà più pace e, soprattutto, si santificherà.
Uno dei beni fondamentali della famiglia consiste in una stabile pace domestica. Purtroppo però non è raro che motivi di carattere politico o sociale seminino la divisione in una famiglia. Come pensa che si possano superare questi conflitti?
La mia risposta non può essere che una: convivere, comprendere, scusare. Il fatto che uno la pensi in maniera diversa dalla mia – specie quando si tratta di cose che sono oggetto di libera opinione – non può assolutamente giustificare un contegno ostile, e neppure freddo o indifferente. La mia fede cristiana mi dice che la carità va vissuta con tutti, anche con coloro che non hanno la grazia di credere in Gesù Cristo.
Figuratevi dunque se non si deve vivere la carità quando, uniti da un medesimo sangue e da una medesima fede, si diverge in cose opinabili! Dirò di più: dato che in questo terreno nessuno può pretendere di essere in possesso della verità assoluta, un reciproco rapporto affettuoso è un buon sistema per imparare dagli altri quello che essi ci possono insegnare; e per fare sì che gli altri, se vogliono, imparino a loro volta qualcosa da quanti vivono con loro. E sempre c’è un “qualcosa”.
Non è cristiano e neppure umano che una famiglia si divida per questioni del genere. Quando si capisce fino in fondo il valore della libertà, quando si ama appassionatamente questo dono divino, si ama il pluralismo che la libertà necessariamente comporta.
Posso addurre l’esempio di ciò che avviene nell’Opus Dei, che è una grande famiglia di persone unite da un medesimo fine spirituale. In tutto ciò che non è di fede, ognuno pensa e agisce come vuole, con pienissima libertà e con pienissima responsabilità personale.
Il pluralismo, che è la conseguenza logica e sociologica di questo fatto, non costituisce in modo alcuno un problema per l’Opera: anzi, tale pluralismo è una manifestazione di buono spirito. Appunto perché il pluralismo non è temuto, ma amato come legittima conseguenza della libertà personale, le diverse opinioni dei soci non impediscono nell’Opus Dei la massima carità nei rapporti reciproci e la mutua comprensione. Libertà e carità: non è per caso che il discorso ci riporta sempre a questi due princìpi. Si tratta infatti di due condizioni essenziali: vivere con la libertà che Cristo ci ha conquistato, e vivere la carità che Egli ci ha dato come comandamento nuovo.
Lei ha accennato al grande valore dell’unità famigliare, e questo mi dà lo spunto per un’altra domanda: come mai l’Opus Dei non organizza attività di formazione spirituale in cui partecipino insieme marito e moglie?
In questa come in tante altre cose, noi cristiani abbiamo la possibilità di scegliere fra soluzioni diverse, secondo le preferenze e i criteri di ciascuno; nessuno può pretendere di imporci un metodo unico. Bisogna rifuggire, come dalla peste, da certi modi di impostare la pastorale e in generale l’apostolato, che sembrano una nuova edizione, riveduta e accresciuta, del partito unico nella vita religiosa.
So dell’esistenza di gruppi cattolici che organizzano ritiri, spirituali e altre attività di formazione per coppie di sposi. Benissimo: usando della loro libertà, facciano quello che ritengono più opportuno; e vadano pure a queste riunioni quanti trovano in esse un mezzo che li aiuta a vivere meglio la loro vocazione cristiana. Ma ritengo che questa non sia l’unica possibilità, e neppure è cosa scontata che si tratti della migliore.
Ci sono molti aspetti della vita ecclesiale che gli sposi, o anche tutta la famiglia, possono e a volte devono vivere insieme, come per esempio la partecipazione al sacrificio eucaristico e ad altri atti di culto.
Penso però che certe attività di formazione spirituale riescono più efficaci quando marito e moglie vi assistono separatamente; da un lato, si sottolinea meglio il carattere essenzialmente personale della santificazione, della lotta ascetica, dell’unione con Dio, cose tutte che riverberano sugli altri, ma in cui la coscienza di ciascuno non può essere sostituita; dall’altro lato è più facile adattare la formazione alle esigenze e alle necessità personali di ciascuno e anche alle diverse psicologie.
Ciò non vuol dire che in queste attività si prescinda dallo stato matrimoniale dei partecipanti: niente di più lontano dallo spirito dell’Opus Dei.
Sono ormai quarant’anni che a voce e per iscritto, dico che ogni uomo, ogni donna, deve santificarsi nella sua vita ordinaria, nelle condizioni concrete della sua esistenza quotidiana; e che pertanto gli sposi devono santificarsi vivendo con perfezione i loro obblighi famigliari. Nei ritiri spirituali e nelle altre attività di formazione organizzate dall’Opus Dei a cui prendono parte persone sposate, si cerca sempre di fare in modo che esse prendano coscienza della dignità della propria vocazione matrimoniale, e si preparino, con l’aiuto di Dio, a viverla meglio.
In molti aspetti, le esigenze e le manifestazioni pratiche dell’amore coniugale sono diverse per l’uomo e per la donna. Con mezzi di formazione specifici li si può aiutare efficacemente a scoprire tali aspetti nella realtà della loro vita. La separazione per alcune ore o per qualche giorno li induce quindi a essere più uniti e ad amarsi di più e meglio per tutto il resto del tempo: con un amore pieno anche di rispetto.
Torno a ripetere che non abbiamo la pretesa che il nostro modo di agire sia l’unico valido e che tutti lo debbano adottare. Mi pare solo che dia ottimi risultati e che ci siano ragioni solide – oltre a una lunga esperienza – che consigliano di fare cosi; ma non mi oppongo all’opinione contraria.
D’altronde se nell’Opus Dei si segue questo criterio per determinate iniziative di formazione spirituale, per altre e svariate attività le coppie di sposi partecipano e collaborano assieme. Si pensi, per esempio, all’apostolato che si fa con i genitori degli alunni delle scuole dirette da soci del- l’Opus Dei; o alle riunioni, conferenze, tridui, ecc. dedicati in particolare ai genitori degli studenti ospiti nelle Residenze dirette dall’Opera.
Come vede, quando il carattere dell’iniziativa lo richiede, marito e moglie vi partecipano assieme. Ma questo tipo di attività è diverso da quello che mira direttamente alla formazione spirituale personale.
Continuando il discorso sulla vita famigliare, vorrei ora farle una domanda sull’educazione dei figli e i rapporti fra genitori e figli. Il mutamento della situazione famigliare ai nostri giorni conduce, a volte, a sperimentare una certa difficoltà nel comprendersi, e può addirittura nascere l’incomprensione, verificandosi così il cosiddetto “conflitto di generazioni”. Come lo si può superare?
Il problema è vecchio, anche se oggi lo si costata forse con maggiore frequenza o in modo più acuto, dato il rapido ritmo di evoluzione che caratterizza la società attuale. È perfettamente comprensibile e naturale che i giovani e gli adulti vedano le cose in maniera diversa: è successo sempre così. Ci sarebbe da meravigliarsi, semmai, che un adolescente ragioni come un adulto.
Tutti abbiamo provato moti di ribellione nei riguardi degli adulti, quando cominciavamo a formarci autonomamente un criterio; e tutti, man mano che passavano gli anni, abbiamo anche capito che i nostri genitori avevano ragione in tante cose, frutto della loro esperienza e del loro affetto. Spetta pertanto innanzitutto ai genitori – che hanno già attraversato l’età difficile – favorire la comprensione, con flessibilità, con prontezza di spirito, evitando con un amore intelligente ogni possibile conflitto.
Consiglio sempre i genitori di cercare di farsi amici dei loro figli. Si può sempre armonizzare l’autorità paterna, necessaria all’educazione, con un sentimento di amicizia che porta a mettersi in qualche modo allo stesso livello dei figli.
I ragazzi – anche quelli che sembrano meno docili e affezionati – desiderano sempre in cuor loro questa vicinanza, questa fraternità con i genitori. Il segreto del successo è sempre la fiducia: che i genitori sappiano educare in un clima di famigliarità, senza mai dare un’impressione di sfiducia; sappiano concedere la giusta libertà e insegnino ad amministrarla con responsabile autonomia.
È preferibile che qualche volta si lascino ingannare: la fiducia data ai figli fa sì che essi stessi provino vergogna di averne abusato e si correggano; se invece non hanno libertà, se vedono che non c’è fiducia in loro, si sentiranno spinti ad agire sempre con sotterfugi.
L’amicizia di cui parlo – il sapersi mettere allo stesso livello dei figli ed aiutarli a parlare fiduciosamente dei loro piccoli problemi – rende possibile una cosa che ritengo di vitale importanza: che siano i genitori a far conoscere ai figli l’origine della vita, in modo graduale, adattandosi alla loro mentalità e alla loro capacità di capire, prevenendo un po’ la loro naturale curiosità; bisogna evitare che i ragazzi avvolgano di malizia questa materia, e che apprendano cose – in sé nobili e sante – attraverso le malevoli confidenze dei compagni.
Tutto ciò costituisce di solito un passo importante nel consolidamento dell’amicizia tra genitori e figli perché impedisce che si crei una frattura nel momento stesso in cui comincia a destarsi la vita morale.
D’altra parte, i genitori devono cercare di conservare giovane il loro cuore, per riuscire così ad accogliere con simpatia le giuste aspirazioni dei figli e perfino le loro stravaganze.
La vita cambia e ci sono parecchie cose nuove che magari a noi non piacciono – è pure possibile che oggettivamente non siano migliori delle vecchie -, ma che non sono cattive: si tratta semplicemente di modi diversi di vivere; ed è tutto qui. In più di un caso i conflitti sorgono perché si dà importanza a piccolezze su cui invece, con un po’ di prospettiva e di senso dell’umorismo, si può transigere.
Non tutto , però, dipende dai genitori. Anche i figli devono contribuire con qualche cosa. I giovani hanno sempre avuto una grande capacità di entusiasmo per le cose nobili, per gli ideali più alti, per tutto ciò che è autentico.
È bene aiutarli a capire la bellezza semplice – a volte molto silenziosa, e sempre rivestita di naturalezza – che c’è nella vita dei loro genitori. Bisogna aiutarli a rendersi conto (senza farglielo pesare) dei sacrifici compiuti per loro, dell’abnegazione – spesso eroica -con cui hanno tirato avanti la famiglia.
È bene che anche i figli imparino a non drammatizzare, a non fare la parte degli incompresi. Non dimentichino che saranno sempre in debito verso i genitori, e che la loro corrispondenza – non potranno mai pagare quello che devono – deve essere fatta di venerazione, di affetto grato, filiale.
D’altronde, siamo sinceri: la famiglia unita è la cosa normale. Ci sono screzi, differenze, ma sono cose scontate e che, in un certo senso, contribuiscono a dare sapore alle nostre giornate.
Sono cose senza importanza, che il tempo fa superare; rimane, invece, solo ciò che è stabile, cioè l’amore, l’amore vero, fatto di sacrificio, non di finzione, che porta a preoccuparsi gli uni degli altri, a intuire i piccoli problemi trovando con delicatezza la soluzione. E siccome è normale che le cose vadano così, la stragrande maggioranza delle persone mi ha capito molto bene quando, sin dagli anni venti, mi ha sentito chiamare “dolcissimo precetto” il quarto comandamento del Decalogo.
Reagendo forse a un’educazione religiosa coercitiva, basata talvolta solo su poche pratiche abitudinarie ed esteriori, parte della gioventù odierna si è allontanata quasi totalmente dalla pietà cristiana, considerandola null’altro che bigotteria. Come si può risolvere questo problema, a suo parere?
La soluzione è implicitamente contenuta nella domanda: si deve insegnare (prima con l’esempio, poi con la parola) in che cosa consiste la vera pietà. La bigotteria non è che una desolante caricatura pseudo-spirituale, frutto quasi sempre di mancanza di dottrina e anche di una certa deformazione umana: è logico che risulti ripugnante a chi ama l’autenticità e la sincerità.
Con gioia costato che la pietà cristiana attecchisce nel cuore dei giovani – quelli di oggi come quelli di quarant’anni fa – quando la vedono incarnata come vita sincera;
– quando capiscono che pregare è parlare con il Signore come si parla con un padre, con un amico: non nell’anonimato, bensì con un rapporto personale, in una conversazione a tu per tu;
– quando si riesce a far echeggiare nelle loro anime quelle parole di Gesù, che sono un invito all’incontro fiducioso: Vos autem dixi amicos (Gv 15, 15), vi ho chiamati amici;
– quando si rivolge un deciso appello alla loro fede, affinché vedano che il Signore è lo stesso “ieri, oggi e sempre” (Eb 13, 8).
D’altra parte è necessario che si rendano conto che questa pietà semplice e sincera esige anche l’esercizio delle virtù umane, e che pertanto non può ridursi a qualche pratica di devozione settimanale o quotidiana: essa deve impregnare tutta la vita, deve dare un senso al lavoro e al riposo, all’amicizia, allo svago, a tutto.
Non possiamo essere figli di Dio solo di quando in quando, anche se ci devono essere alcuni momenti particolarmente riservati a considerare e approfondire la realtà e il senso della filiazione divina, che è il nocciolo della pietà.
Ho detto prima che i giovani capiscono bene tutto questo. Ora aggiungo che chi cerca di vivere tutto ciò, si sente sempre giovane. Il cristiano, anche di ottant’anni, quando vive in unione con Cristo. può veramente assaporare le parole che si pronunciano ai piedi dell’altare: “Salirò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza” (Sal 42,4).
Lei quindi crede che sia importante educare fin da piccoli i bambini alla vita di pietà? Pensa che sia bene fare in famiglia alcune pratiche di pietà?
Penso che sia proprio questo il cammino migliore per dare ai figli un’autentica formazione cristiana. La Sacra Scrittura ci parla delle famiglie dei primi cristiani – la “Chiesa domestica”, dice San Paolo (1 Cor 16, 19) – alle quali la luce del Vangelo dava un nuovo slancio, una nuova vita.
In tutti gli ambienti cristiani si sa per esperienza quali buoni risultati dia questa naturale e soprannaturale iniziazione alla vita di pietà, fatta nel calore del focolare. Il bambino apprende a situare il Signore tra i primi e più fondamentali affetti; impara a trattare Dio come Padre, la Madonna come Madre; impara a pregare seguendo l’esempio dei genitori. Quando tutto ciò si comprende, appare evidente il grande compito apostolico che i genitori sono chiamati a svolgere; e il loro dovere di vivere sinceramente la vita di pietà, per poterla trasmettere – più che insegnare – ai figli.
I mezzi? Ci sono delle pratiche di pietà – poche, brevi e abituali – che le famiglie cristiane hanno sempre adottato, e che per me sono meravigliose: la benedizione a tavola, il rosario recitato tutti assieme – anche se oggi non manca chi attacca questa solidissima devozione mariana -, le preghiere personali al mattino e alla sera. Si tratterà di consuetudini che possono variare a seconda dei luoghi; ma credo che si debba sempre promuovere qualche pratica di pietà da vivere insieme, in famiglia, in modo semplice e naturale, senza bigotteria.
In tal modo otterremo che Dio non venga considerato come un estraneo che si va a visitare una volta alla settimana, la domenica, in chiesa; che invece lo si veda e lo si tratti come è nella realtà: anche in famiglia, perché, come ha detto il Signore, “dove sono due o tre riuniti in nome mio, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).
È con gratitudine e orgoglio di figlio che vi dico che continuo a recitare ad alta voce mattina e sera, le preghiere che ho imparato da bambino dalle labbra di mia madre. Mi conducono a Dio e mi fanno sentire l’affetto con cui mi si insegnò a fare i primi passi sulla strada della vita cristiana; così, offrendo al Signore il giorno che comincia, o ringraziandolo per quello che finisce, chiedo a Dio di aumentare in Cielo la felicità di coloro che amo di più, e di tenerci poi sempre uniti insieme nella gloria.
Se permette, continuiamo a parlare dei giovani. Per mezzo della rubrica Giovani della nostra rivista, ci giungono molti dei loro problemi. Uno dei più frequenti si riferisce al fatto che a volte i genitori impongono loro il proprio parere in scelte decisive.
Questo avviene tanto nella scelta dell’indirizzo degli studi o della professione, quanto nella scelta del fidanzato, e più ancora quando si tratta di seguire la chiamata di Dio per dedicarsi al servizio delle anime. Un simile atteggiamento da parte dei genitori ammette giustificazioni? Non è piuttosto una violazione della libertà necessaria per giungere alla maturità personale?
È chiaro che le scelte che decidono il corso di una vita vanno prese personalmente da ciascuno, con libertà, senza nessun tipo di coercizione o di pressione.
Questo non vuol dire che non sia di solito necessario l’intervento di altre persone. Proprio perché si tratta di passi decisivi che riguardano tutta la vita e dato che la felicità dipende in gran parte dal modo in cui si compiono, è necessario agire con serenità evitare la precipitazione, procedere con senso di responsabilità e prudenza.
Gran parte della prudenza consiste appunto nel chiedere consiglio: sarebbe presunzione – che di solito si paga cara – ritenersi in grado di decidere senza la grazia di Dio e senza il calore e la luce che altre persone, soprattutto i nostri genitori, ci possono dare.
I genitori possono e devono fornire ai figli un aiuto prezioso, aprendo loro nuovi orizzonti, comunicando la propria esperienza, facendoli riflettere, in modo che non si lascino trasportare da stati d’animo passeggeri, e avviandoli a una valutazione realistica delle cose. Quest’aiuto verrà fornito dai genitori personalmente, con i loro consigli, oppure invitando i figli a rivolgersi a persone competenti: a un amico leale e sincero, a un sacerdote preparato e zelante, a un esperto di orientamento professionale.
Il consiglio non toglie però la libertà, ma fornisce elementi di giudizio e quindi allarga le possibilità di scelta, evitando l’influenza di fattori irrazionali nella decisione. Dopo aver prestato ascolto al parere degli altri, e aver ponderato ogni cosa, arriva il momento della scelta, e allora nessuno ha il diritto di far violenza alla libertà. I genitori devono fare attenzione a non cedere alla tentazione di proiettarsi indebitamente nei propri figli – di costruirli secondo i propri gusti -, perché devono rispettare le inclinazioni e le capacità che Dio dà a ciascuno.
Di solito quando esiste vero amore, tutto questo non è difficile. E anche nel caso estremo in cui il figlio prende una decisione che i genitori ritengono a ragione errata e prevedibile fonte di infelicità, nemmeno allora la soluzione sta nella violenza, ma nel comprendere e – più di una volta – nel saper rimanere al suo fianco per aiutarlo a superare le difficoltà e trarre eventualmente da quel male tutto il bene possibile.
I genitori che amano davvero i loro figli e cercano sinceramente il loro bene, dopo aver offerto i loro consigli e le loro riflessioni, devono farsi da parte delicatamente, in modo che nulla si opponga alla libertà, a questo grande bene che rende l’uomo capace di amare e di servire Dio. Devono tener presente che Dio stesso ha voluto essere amato e servito in libertà, e rispetta sempre le nostre decisioni personali: “Dio lasciò l’uomo – dice la Bibbia – arbitro di sé stesso” (Sir 15, 14).
Ancora qualche parola per rispondere esplicitamente all’ultima parte della domanda: la decisione di dedicarsi al servizio della Chiesa e delle anime. Quando dei genitori cattolici non comprendono tale vocazione, ritengo che abbiano fallito nella loro missione di formare una famiglia cristiana, e che non si siano nemmeno resi conto della dignità che il cristianesimo conferisce alla loro vocazione matrimoniale.
Comunque, la mia esperienza nell’Opus Dei è molto positiva. Sono solito dire ai soci dell’Opera che il novanta per cento della loro vocazione lo devono ai genitori che li hanno saputi educare insegnando loro a essere generosi. Posso dirvi che, nella stragrande maggioranza dei casi – per non dire sempre -, i genitori non solo rispettano, ma amano la decisione dei figli e vedono subito nell’Opera un ampliamento della loro famiglia. Questa è una delle mie gioie più grandi, ed è un’altra prova che per essere molto divini bisogna essere anche molto umani.
Oggi c’è chi sostiene la teoria che l’amore giustifica tutto, e conclude che il fidanzamento è una specie di “matrimonio di prova”. Pensano che sia una cosa inautentica e retrograda non seguire le cosiddette “esigenze dell’amore”. Che cosa pensa di questo atteggiamento?
Penso quello che deve pensare una persona onesta specialmente un cristiano: e cioè che si tratta di un atteggiamento indegno dell’uomo e che avvilisce l’amore umano confondendolo con l’egoismo e con il piacere.
Chiamano retrogrado chi non fa o non pensa così? Retrogrado è piuttosto chi retrocede ai tempi della giungla e non riconosce altro impulso che l’istinto. Il fidanzamento dev’essere un’occasione per approfondire l’affetto e la conoscenza reciproca, e, come ogni scuola di amore, dev’essere ispirato non dall’ansia di possesso, ma dallo spirito di dedizione, di comprensione, di rispetto, di delicatezza.
Proprio per questo volli regalare all’Università di Navarra, poco più di un anno fa, una statua della Madonna, Madre del Bell’Amore, affinché i ragazzi e le ragazze che studiano in quell’ateneo imparassero da Lei la nobiltà dell’amore, anche dell’amore umano.
Matrimonio di prova? Come conosce poco l’amore chi parla cosi! L’amore è una realtà ben più sicura, più vera, più umana. Non lo si può trattare come un prodotto commerciale, di cui si fa la prova e poi si tiene o si butta via, a seconda del capriccio, della comodità o dell’interesse.
Questa mancanza di criterio è così deplorevole che non c’è nemmeno bisogno di condannare chi pensa o agisce in questo modo, perché si condanna da sé all’infecondità, alla tristezza, all’isolamento desolante nel giro di pochi anni.
Non posso che pregare molto per costoro, amarli con tutta l’anima e cercare di far loro capire che hanno sempre aperta davanti a sé la strada del ritorno a Gesù; se ci mettono impegno, potranno essere santi, cristiani coerenti, perché non mancherà loro né il perdono né la grazia del Signore. Solo allora capiranno veramente che cos’è l’amore: conosceranno l’Amore divino e la nobiltà dell’amore umano; proveranno che cos’è la pace, la gioia, la fecondità.
Un grave problema femminile è quello delle donne nubili; ci riferiamo a quelle che, pur avendo vocazione matrimoniale, non giungono a sposarsi. Allora si domandano: che cosa ci stiamo a fare al mondo? Lei che risposta darebbe?
Che cosa stiamo a fare al mondo? Ci stiamo per amare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, e per far sì che questo amore arrivi a tutte le creature. Vi pare poco? Dio non abbandona nessun’anima a un destino cieco: per tutte ha un progetto, una chiamata, una vocazione personalissima, intrasferibile.
Il matrimonio è un cammino divino, una vocazione. Ma non è l’unico cammino, non è la sola vocazione. I piani di Dio su ogni donna non sono legati necessariamente al matrimonio. Hanno la vocazione al matrimonio e non arrivano a sposarsi?
Qualche volta sarà vero, e forse allora sarà stato 1’egoismo o l’amor proprio a impedire che si compisse la chiamata di Dio; ma altre volte – forse la maggioranza dei casi – queste circostanze possono essere segno che il Signore non ha dato loro una vera vocazione matrimoniale. Sì: amano i bambini; sentono di poter essere delle buone madri, capaci di donare tutto il cuore, fedelmente, al marito e ai figli.
Ma questo è quello che sentono tutte le donne, anche quelle che per vocazione divina non si sposano, pur potendolo fare, per dedicarsi al servizio di Dio e delle anime.
Non si sono sposate: ebbene, continuino ad amare la Volontà del Signore, cercando l’intimità con il Cuore amabilissimo di Gesù, che non abbandona nessuno, che è sempre fedele, che si prende cura di noi durante tutta la vita e ci offre in dono se stesso, già ora, e per sempre.
Inoltre la donna può compiere la sua missione – come donna, con tutte le caratteristiche femminili, comprese quelle affettive della maternità – in àmbiti diversi da quello della propria famiglia: in altre famiglie, nella scuola, in opere assistenziali, in mille posti.
A volte la società è molto dura – molto ingiusta – nei confronti delle donne che chiama zitelle. Ci sono invece donne nubili che diffondono intorno a sé gioia, pace, efficacia: donne capaci di dedicarsi a un nobile servizio degli altri e di essere madri, nella profondità del proprio spirito, in modo più reale che non molte altre, che sono madri solo fisiologicamente.
Le domande precedenti riguardavano il fidanzamento; ora vorrei che ci soffermassimo sul matrimonio: che consigli darebbe alla donna sposata affinché, con il passare degli anni, la sua vita matrimoniale continui a essere felice senza cadere nella monotonia? Forse la cosa può sembrare poco importante, ma a noi scrivono molte lettrici interessate all’argomento.
A me sembra senz’altro una questione importante; ritengo quindi importanti anche le possibili soluzioni, benché possano avere un’apparenza modesta.
Perché il matrimonio conservi sempre lo slancio e la freschezza iniziali, la moglie deve cercare di conquistare il marito ogni giorno; e lo stesso si dovrebbe dire del marito rispetto alla moglie. L’amore va recuperato ogni giorno; e l’amore si conquista con il sacrificio, con il sorriso e anche con un po’ di furbizia.
Se il marito torna a casa dal lavoro stanco e la moglie si mette a parlare senza misura, raccontando tutto quello che secondo lei va male, è forse strano che il marito finisca per perdere la pazienza? Gli argomenti meno gradevoli si possono lasciare per un momento più opportuno, quando lui sia più disteso e meglio disposto.
Un altro particolare: la cura della propria persona. Se un altro sacerdote vi dicesse il contrario, penso che sarebbe un cattivo consigliere. Una persona che deve vivere nel mondo, quanti più anni ha, tanto più è necessario che si sforzi di migliorare non solo la vita interiore, ma – appunto per questo – anche l’impegno per “essere presentabile”, d’accordo, naturalmente, con l’età e le circostanze.
Spesso, scherzando, dico che le vecchie facciate sono quelle che hanno più bisogno di un buon restauro. È un consiglio di sacerdote. C’è un vecchio proverbio che dice: “Quando la moglie non si trascura, il marito non cerca l’avventura”.
Proprio per questo oserei dire che l’ottanta per cento della colpa delle infedeltà dei mariti è delle mogli, che non sanno riconquistarli ogni giorno, non sanno essere premurose, affettuose, delicate. L’attenzione della donna sposata deve concentrarsi sul marito e sui figli. E quella del marito deve concentrarsi sulla moglie e sui figli. Ciò richiede tempo e impegno, per sapere quello che va fatto e farlo bene. Tutto ciò che rende impossibile il compimento di questo dovere, non è cosa buona e non va bene.
Non ci sono scuse per non compiere questo amabile dovere. Non è certo una scusa il lavoro extradomestico, e neppure le pratiche religiose che, se non sono compatibili con i doveri di tutti i giorni, non sono buone, e Dio non le accetta. La donna sposata si deve occupare prima di tutto della casa. C’è un canto popolare della mia terra che dice: La mujer que, por la iglesia, / deja el puchero quemar / tiene la mitad de angel / de diablo la otra mitad (La donna che, per stare in chiesa, / lascia bruciare il pranzo, / è per metà angelo, / e diavolo per l’altra metà). Io direi che è diavolo del tutto.
Oltre alle difficoltà che possono esserci tra genitori e figli, non sono rari i litigi tra marito e moglie, che talvolta arrivano sul serio a compromettere la pace famigliare. Che cosa consiglierebbe agli sposi?
Di volersi bene. E di rendersi conto che durante la vita ci saranno screzi e difficoltà, che però, se risolte con naturalezza, contribuiranno a render ancor più profondo l’affetto.
Ciascuno di noi ha il suo temperamento, i suoi gusti personali, il suo carattere – un caratteraccio, a volte -, i suoi difetti. Ognuno ha anche i lati piacevoli della sua personalità, e per questo – e per molte altre ragioni – gli si può voler bene.
La convivenza è possibile quando tutti si sforzano di correggere i propri difetti e cercano di passar sopra alle manchevolezza degli altri; quando cioè vi è amore, che supera e annulla tutto quanto potrebbe falsamente sembrare motivo di separazione e di divergenza. Se invece si drammatizzano i piccoli contrasti e ci si comincia a rinfacciare mutuamente i difetti e gli sbagli, la pace è finita e si corre il pericolo di far morire l’affetto.
Gli sposi hanno grazia di stato – la grazia del sacramento – per praticare tutte le virtù umane e cristiane della convivenza: la comprensione, il buon umore, la pazienza, il perdono, la delicatezza nel rapporto reciproco. L’importante è non lasciarsi andare, non lasciarsi dominare dal nervosismo, dall’orgoglio o dalle manie personali.
Per riuscirci, marito e moglie devono sviluppare la propria vita interiore e apprendere dalla Sacra Famiglia a vivere con finezza – per un motivo che è allo stesso tempo umano e soprannaturale – le virtù del focolare cristiano. Lo ripeto ancora: la grazia di Dio ce l’hanno.
Quando uno dice che non può sopportare questo o quello e che gli è impossibile tacere, sta esagerando per giustificare se stesso. Bisogna chiedere a Dio la forza di dominare il proprio umore, la grazia per conservare il dominio di sé.
Perché i pericoli di un’arrabbiatura sono proprio questi: si perde il controllo, le parole si riempiono di amarezza, arrivano a offendere e, forse involontariamente, a ferire, a far male.
Occorre imparare a tacere, ad attendere, a dire le cose in modo positivo, con ottimismo. Quando è lui a perdere la calma, è il momento in cui lei deve essere particolarmente paziente, finché la serenità torna di nuovo; e viceversa. Quando l’affetto è sincero e ci si sforza di farlo crescere è ben difficile che tutti e due si lascino dominare dal malumore nello stesso momento…
Un’altra cosa molto importante: abituarsi a pensare che non abbiamo mai tutta la ragione. Si può addirittura dire che, in questioni di solito tanto discutibili quanto più siamo sicuri di avere tutta la ragione, tanto più è certo che abbiamo torto.
Se si ragiona in questo modo, riesce semplice alla fine rettificare e, se occorre, chiedere scusa, che è il modo migliore di concludere un’arrabbiatura; e così si assicurano la pace e l’affetto. Non voglio incoraggiare a bisticciare; ma è comprensibile che bisticciamo qualche volta con quelli che amiamo di più, perché sono quelli che vivono abitualmente assieme a noi.
Non si bisticcia di certo con lo zio d’America! Pertanto, queste piccole tempeste fra gli sposi, se non sono frequenti – e bisogna fare in modo che non lo siano -, non sono indice di poco amore, anzi, possono contribuire ad aumentarlo.
Infine un ultimo consiglio: non litigare mai davanti ai figli. Per evitarlo, basterà che marito e moglie si intendano con una parola, con uno sguardo, con un gesto. Litigheranno dopo, con più serenità, se proprio non sono capaci di farne a meno.
La pace coniugale dev’essere l’ambiente della famiglia, perché è la condizione indispensabile per un’educazione profonda ed efficace. I piccoli devono vedere nei genitori un esempio di dedizione, di amore sincero, di mutuo aiuto, di comprensione; le piccole difficoltà di ogni giorno non devono nascondere la realtà di un affetto capace di superare tutto.
A volte ci prendiamo troppo sul serio. Tutti ci arrabbiamo di quando in quando, a volte perché è necessario, altre volte perché ci manca spirito di mortificazione. L’importante è dimostrare che queste arrabbiature non incrinano l’affetto, sapendo ristabilire l’intimità famigliare con un sorriso. Insomma, marito e moglie devono vivere amandosi l’un l’altra e amando i propri figli, perché è così che amano Dio.
Mi riferisco ora a un fatto più concreto: recentemente è stata annunciata a Madrid l’apertura di una Scuola diretta da socie dell’Opus Dei, con il fine di creare un clima di famiglia e di dare alle lavoratrici domestiche una formazione completa e una qualificazione professionale. Che incidenza crede che possa avere nella società questo tipo di attività?
Quest’opera apostolica – ce ne sono molte altre del genere dirette da socie dell’Opus Dei, che vi lavorano insieme ad altre persone che non appartengono alla nostra istituzione – ha come fine principale quello di nobilitare il mestiere delle impiegate domestiche in modo che possano realizzare il proprio lavoro con competenza tecnica. Dico competenza tecnica perché bisogna che il lavoro domestico venga condotto per quello che è: una vera professione.
Non dimentichiamo che si è preteso di presentare questo lavoro come una cosa umiliante. Ma non è vero; umilianti erano senza dubbio le condizioni in cui molte volte si svolgeva questo lavoro. E umilianti continuano a esserlo in vari casi anche oggi: quando chi vi si dedica deve adattarsi ai capricci di persone irriguardose e deve lavorare senza garanzie legali, con scarsa retribuzione, senza affetto.
Bisogna esigere il rispetto di un contratto di lavoro adeguato, che dia garanzie chiare e precise, e stabilisca bene i diritti e i doveri di ciascuna delle parti.
Oltre a queste garanzie legali, occorre che la persona che presta il servizio sia qualificata, professionalmente preparata. Ho detto servizio – anche se oggi la parola non piace – perché ogni attività sociale ben compiuta è appunto questo, un bellissimo servizio: e lo è tanto l’attività di una lavoratrice domestica quanto quella di un docente o di un giudice. L’unica attività che non è servizio è quella di chi subordina tutto al proprio interesse.
Il lavoro domestico è una cosa di primaria importanza. Del resto, tutti i lavori possono avere la stessa qualità soprannaturale: non ci sono compiti grandi o piccoli; tutti sono grandi se si fanno per amore.
Le funzioni che tutti ritengono elevate, diventano meschine appena si perde il senso cristiano della vita. Invece ci sono cose piccole all’apparenza, che possono essere molto grandi per le effettive conseguenze che hanno.
Per me, il lavoro di una figlia mia dell’Opus Dei che è collaboratrice domestica, ha la stessa importanza di quello di un’altra mia figlia che abbia un titolo nobiliare. In entrambi i casi, a me interessa solo che il loro lavoro sia mezzo e occasione di santificazione propria e altrui: e sarà alla fine più importante il lavoro della persona che nella propria occupazione e nel proprio stato cresce di più in santità e compie con più amore la missione ricevuta da Dio.
Dinanzi a Dio, una docente universitaria non è più importante di una commessa di negozio, o di una segretaria, di un’operaia, o di una contadina: tutte le anime sono uguali. Solo che spesso sono più belle le anime delle persone più semplici; e, in ogni caso, sono più accette al Signore quelle che entrano più intimamente in rapporto con Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo.
Con la scuola aperta a Madrid si può fare molto: si può dare un autentico ed efficace aiuto alla società in un’importante funzione, e al tempo stesso svolgere un lavoro cristiano nelle famiglie, portando nelle case la gioia, la pace, la comprensione.
Parlerei per ore intere su questo argomento; ma quanto ho detto è sufficiente per capire che vedo il lavoro domestico come un mestiere di particolare importanza, perché con esso si può fare molto bene – o molto male – nel cuore stesso delle famiglie. Speriamo che sia molto il bene: non mancheranno persone di buona stoffa umana, competenti e con slancio apostolico, che faranno di questa professione un lavoro pieno di gioia e di incalcolabile efficacia in tante famiglie del mondo.
Da circostanze di indole molto diversa, come anche da esortazioni e insegnamenti della Chiesa, è nata e si è sviluppata una profonda sensibilità sociale. Si fa un gran parlare della virtù della povertà come testimonianza. Come può viverla una donna di casa, che deve offrire un giusto benessere alla propria famiglia?
Nella Sacra Scrittura, proprio come uno dei segni che manifestano l’arrivo del Regno di Dio, leggiamo che “il Vangelo è annunciato ai poveri” (Mt 11, 6). Non ha lo spirito di Cristo chi non ama e non vive la virtù della povertà; e ciò vale per tutti, tanto per l’anacoreta che si ritira nel deserto, quanto per il comune cristiano che vive nel mezzo della società umana, fornito delle risorse di questo mondo o privo di molte di esse.
Su questo tema vorrei soffermarmi un po’, perché oggi non sempre si predica la povertà in modo che il suo messaggio giunga a farsi vita. Con buona volontà senza dubbio, ma senza aver afferrato a fondo il senso dei tempi, c’è chi predica una povertà che è frutto di mera elucubrazione intellettuale, che porta con sé vistosi segni esteriori e al tempo stesso enormi deficienze interiori, quando non anche esterne.
Facendo eco a un’espressione del profeta Isaia – discite benefacere (1, 17) – mi piace dire che “le virtù bisogna imparare a viverle”, e questo vale forse in modo speciale per la povertà.
Bisogna imparare a viverla perché non si riduca a un ideale sul quale si può scrivere molto, ma che nessuno mette seriamente in pratica. Occorre far vedere che la povertà è un invito che il Signore rivolge a ogni cristiano, e che pertanto è una chiamata concreta che deve dar forma a tutta la vita dell’umanità.
Povertà non è miseria, e meno che mai sporcizia. La prima ragione è che ciò che definisce il cristiano non sono le condizioni esterne della sua vita, ma piuttosto gli atteggiamenti del suo cuore.
Ma poi vi è una seconda ragione (e qui tocchiamo un punto assai importante, dal quale dipende un’esatta comprensione della vocazione laicale): ed è che la povertà non viene definita dalla pura e semplice rinuncia.
In certe occasioni particolari, la testimonianza di povertà richiesta ai cristiani può essere l’abbandono di tutto, la contestazione di un ambiente che non ha orizzonti aldilà del benessere materiale, proclamando così, con un gesto spettacolare, che nessuna cosa è buona se viene preferita a Dio. Ma è forse questa la testimonianza che oggi la Chiesa chiede a tutti? Non è vero forse che essa esige anche una testimonianza esplicita di amore al mondo, di solidarietà con gli uomini?
A volte, chi riflette sulla povertà cristiana prende come punto di riferimento principale i religiosi, cui è proprio dare sempre e ovunque una testimonianza pubblica, ufficiale; e così si corre il rischio di non scorgere il carattere specifico di una testimonianza laicale, che viene data dall’interno, con la semplicità delle cose di tutti i giorni.
Un cristiano qualsiasi deve rendere compatibili, nella propria vita, due aspetti che possono sembrare a prima vista contraddittori. Povertà reale, anzitutto: una povertà che si noti, che si possa toccare con mano perché fatta di cose concrete, che sia una professione di fede in Dio, una testimonianza che il cuore non si soddisfa con le cose create, ma aspira al Creatore e anela colmarsi d’amor di Dio per poi comunicare a tutti questo stesso amore.
E, nello stesso tempo, essere uno dei tanti in mezzo agli uomini nostri fratelli, condividendone la vita, le gioie, le ansie, e collaborando nelle stesse attività; amando il mondo e tutte le cose buone che vi sono, utilizzando tutte le cose create per risolvere i problemi della vita umana, e per costruire l’ambiente materiale e spirituale propizio allo sviluppo delle persone e delle comunità.
Raggiungere la sintesi di questi due aspetti è – in buona parte – una questione personale, una questione di vita interiore, per saper giudicare momento per momento e scoprire caso per caso che cosa Dio ci chiede. Non voglio dunque dare regole fisse, ma solo delle linee generali di orientamento, riferendomi specialmente alle madri di famiglia.
Sacrificio: ecco in che cosa consiste, in gran parte, la povertà reale. Si tratta di saper prescindere dal superfluo, misurato non tanto con regole teoriche, quanto con l’ascolto della voce interiore che ci avverte che l’egoismo o la comodità ingiusta si stanno inoltrando nella nostra vita. Il benessere, inteso in senso positivo, non significa lusso, né corsa al piacere, ma quanto serve a rendere la vita gradevole alla propria famiglia e agli altri, perché tutti possano servire meglio Dio.
La povertà consiste nel raggiungere sul serio il distacco dalle cose terrene; nel sopportare lietamente le scomodità, quando ci sono, o la mancanza di mezzi.
Chi è povero sa poi avere tutto il giorno “preso” da un orario elastico, che deve prevedere fra le cose importanti – oltre alle pratiche giornaliere di pietà – il necessario riposo, il tempo per star assieme ai propri cari, un po’ di lettura, i momenti da dedicare a un hobby di arte o di letteratura, o ad altra distrazione onesta; e così sa riempire le ore con un’attività utile, cerca di fare le cose nel migliore dei modi, e cura i particolari di ordine, di puntualità, di buon umore.
In una parola, sa trovar posto per servire gli altri e per sé stesso: senza dimenticare che tutti gli uomini e tutte le donne – e non solo quelli materialmente poveri – hanno l’obbligo di lavorare; la ricchezza o una situazione economica agiata non sono che un segno del fatto che si è maggiormente obbligati a sentire la responsabilità dell’intera società.
È l’amore che dà senso al sacrificio. Ogni madre sa bene che cos’è il sacrificio per i figli: non si tratta solo di dedicare loro alcune ore, ma di spendere per il loro bene tutta la vita. Vivere dunque pensando agli altri, usare i beni in modo tale che non manchi qualcosa da offrire agli altri: ecco le dimensioni della povertà, che garantiscono un effettivo distacco.
Per una madre, è importante non solo vivere cosi, ma anche insegnare ai figli a vivere così. Si tratta di educarli promuovendo in loro la fede, l’ottimismo della speranza e la carità; si tratta di insegnare loro a superare l’egoismo e a usare parte del proprio tempo generosamente al servizio delle persone meno fortunate, partecipando a lavori (adeguati alla loro età) in cui si manifesti una vera preoccupazione di solidarietà umana e divina.
In poche parole: ciascuno deve vivere la propria vocazione. Per me il miglior modello di povertà sono sempre stati quei padri e quelle madri di famiglie numerose e povere, che non vivono che per i propri figli, e che con il loro sforzo e con la loro costanza – spesso senza voce per manifestare agli altri le loro ristrettezze – sanno mandare avanti la casa, creando un focolare pieno di gioia, in cui tutti imparano ad amare, a servire, a lavorare.
Nel corso dell’intervista, lei ci ha commentato vari e importanti aspetti della vita umana e in particolare della vita della donna, e ci ha fatto notare in che modo li valuta lo spirito dell’Opus Dei. Potrebbe dirci, per terminare, come pensa che si debba promuovere il ruolo della donna nella vita della Chiesa?
Non nascondo che di fronte a una domanda di questo tipo, sento, contrariamente alla mia abitudine, la tentazione di rispondere in modo polemico, perché ci sono persone che adoperano questa terminologia in maniera clericale, usando la parola Chiesa come sinonimo di qualcosa che appartiene al clero, alla Gerarchia ecclesiastica.
Così, per partecipazione alla vita della Chiesa intendono solo o principalmente l’aiuto prestato alla vita parrocchiale, la collaborazione ad associazioni “con mandato” della Gerarchia, l’assistenza attiva alle funzioni liturgiche, e cose del genere.
Coloro che pensano così dimenticano all’atto pratico – anche se forse lo proclamano in teoria – che la Chiesa è la totalità del popolo di Dio, l’assieme di tutti i cristiani; e che pertanto, ovunque un cristiano si sforza di vivere in nome di Gesù Cristo, là è presente la Chiesa.
Con ciò non intendo minimizzare l’importanza della collaborazione che la donna può prestare alla vita della struttura ecclesiastica. La considero anzi imprescindibile. Ho dedicato tutta la vita a difendere la pienezza della vocazione cristiana dei laici (cioè degli uomini e delle donne comuni, che vivono in mezzo al mondo) e a promuovere, pertanto, il pieno riconoscimento teologico e giuridico della loro missione nella Chiesa e nel mondo.
Voglio solo far notare che c’è chi vorrebbe imporre una riduzione ingiustificata di tale collaborazione; e mi preme rilevare che il comune cristiano, sia uomo o donna, può svolgere la propria missione specifica, anche quella che gli spetta all’interno della struttura ecclesiale, solo a condizione di non clericalizzarsi, di continuare cioè ad essere secolare, ad essere persona che con normalità vive nel mondo e partecipa alle vicende del mondo.
Ai milioni di cristiani, uomini e donne, che riempiono la terra, spetta il compito di condurre a Cristo tutte le attività umane, annunciando con la propria vita che Dio ama tutti e tutti vuole salvare. Pertanto, il modo migliore di partecipare alla vita della Chiesa – il più importante, e quello che in ogni caso dev’essere il fondamento di tutti gli altri – è essere integralmente cristiani nel posto assegnato dalla vita, nel posto in cui la vocazione umana ci ha condotti.
Mi commuove pensare a tanti cristiani e a tante cristiane che, forse senza proporselo in modo esplicito, vivono con semplicità la vita ordinaria, cercando di incarnare in essa la Volontà di Dio. Renderli consapevoli di quanto sia eccelsa la loro vita; rivelare loro che ciò che sembra privo di importanza ha un valore di eternità; insegnare ad ascoltare più attentamente la voce di Dio che parla loro attraverso fatti e situazioni, è qualcosa di cui oggi ha urgente necessità la Chiesa, perché a questo la sta spingendo Dio.
Cristianizzare dal di dentro il mondo intero, dimostrando che Gesù ha redento tutta l’umanità: ecco la missione del cristiano. E la donna vi parteciperà nel modo che le è proprio, sia nella casa che nelle varie occupazioni ove realizza le sue capacità peculiari.
La cosa essenziale è dunque che si viva, come Maria Santissima – donna, Vergine e Madre -, al cospetto di Dio, pronunciando quel fiat mihi secundum verbum tuum (Lc 1, 38) da cui dipende la fedeltà alla vocazione personale, sempre unica e intrasferibile, e che ci rende cooperatori dell’opera di salvezza che Dio realizza in noi e nel mondo intero.
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