La virtù della povertà in san Josemaría
Nostro Padre apprese dall’esempio dei genitori a vivere signorilmente la povertà: dopo il fallimento della ditta paterna, infatti, la famiglia Escrivá, a Logrono, dovette ridurre notevolmente il proprio tenore di vita. Questo non andò a scapito del decoro e del buonumore, e il fondatore ne trasse insegnamento per i suoi figli spirituali.
Sin da quando lo conobbi notai che egli spesso si riferiva alla virtù della povertà con un’espressione molto sintomatica: «La povertà, mia gran signora». Mi risulta che la chiamò così dall’età di trentuno o trentadue anni fino alla fine della sua vita. Non semplice privazione, dunque, ma vero tesoro che conduce all’effettiva unione personale con Cristo, nella nudità di Betlemme e del Calvario, ed è condizione di efficacia nell’apostolato. Sicché nessuno di noi si stupiva dinanzi all’insistenza con cui il nostro fondatore, nel raccomandarci la pratica della povertà, ne illustrava in modo assai esigente le applicazioni più concrete: «Non tenere nulla come proprietà personale; non tenere nulla di superfluo; non lamentarsi quando manca il necessario; quando si può scegliere, prendere per sé la cosa più povera, meno simpatica; non maltrattare gli oggetti che usiamo; fare buon uso del tempo».
La povertà accompagnò l’Opera sin dai suoi primi passi, e sarà sempre così. Uno dei primi a chiedere l’ammissione fu Luis Gordon che godeva di un’ottima posizione economica: il nostro fondatore mi raccontò più d’una volta di aver pensato che Luis sarebbe stato un valido appoggio, dal punto di vista umano, per le iniziative apostoliche. Ma il Signore dispose altrimenti: Luis si ammalò e morì ancora molto giovane. Nel parlarmene, il Padre osservava: «La morte di Luis fu provvidenziale, perché così l’Opus Dei continuò a crescere nella più grande povertà: se non fosse morto, avremmo avuto dei mezzi materiali, dei mezzi temporali, che forse avrebbero potuto nuocerci. Era necessario che l’Opera di Dio nascesse povera, proprio come nacque Gesù a Betlemme». Questo assoluto distacco da ogni sicurezza umana sottolinea il primato della speranza teologale nell’atteggiamento del Padre verso i beni terreni.
Quand’era a Burgos, durante la Guerra civile spagnola, venne a sapere che era morto uno dei membri dell’Opera, José Isasa, studente d’architettura. Gliene diede notizia la famiglia, che era molto buona e, come avviene per tutte le famiglie dei membri dell’Opus Dei, era perfettamente al corrente della vocazione del figlio. Prima di morire, il ragazzo aveva espresso la volontà che tutto ciò che aveva venisse devoluto all’Opera. Ma il fondatore non volle reclamare nulla, benché stesse patendo così gravi disagi economici e la famiglia del defunto fosse molto ben disposta. Egli preterì agire in questo modo, poiché pensava che il Signore avrebbe gradito di più la sua perseveranza nella povertà.
Fu proprio in quei momenti di estrema penuria che il Padre decise di rinunciare agli stipendi delle Messe. Come mi raccontò più d’una volta, già quando stava in seminario aveva pensato di non accettare alcuno stipendio per il suo ministero sacerdotale. Era un pensiero che gli ritornava costantemente in mente. Ma decise di metterlo definitivamente in pratica proprio nel 1938. Un giorno, dopo aver fatto l’orazione mentale meditando sulle parole dello Spirito Santo: «Iacta super Dominum curam tuam et ipse te enutriet» (Sal 54, 23), offrì al Signore la rinuncia a ricevere qualsiasi emolumento per la propria attività sacerdotale ed effettivamente da allora in poi non accettò più alcuna elemosina, a nessun titolo. Col passare degli anni, e dopo averlo meditato alla presenza di Dio, decise che anche i suoi figli sacerdoti Numerari avrebbero rinunciato a ogni compenso per il loro ministero sacerdotale. Così nel 1944, quando vennero ordinati i tre primi sacerdoti, essi seguirono questa stessa norma, che si vive tuttora.
Dopo aver preso questa decisione, il 27 gennaio 1938 scrisse al vicario della diocesi di Madrid, mons. Francisco Morán: «Sabato prossimo parto per Bilbao, Leon… e non so se S. Sebastián. Poi… Saragozza e forse Siviglia. E tutto, Padre, senza un centesimo: ho fatto il proposito serio — una pazzia? Ebbene, sì: una pazzia — di non ricevere più gli stipendi per le Messe, che erano fino ad ora l’unica entrata economica che potevo avere. Così posso celebrare, spesso, per il mio Vescovo, e per il mio don Francisco, e per questi figli della mia anima…, e per me, Sacerdote peccatore». Mi sembra utile precisare che in quello stesso periodo egli si adoperò per procurare degli stipendi di Messe per i sacerdoti bisognosi, come risulta anche dalla corrispondenza con il vescovo di Avila.
Il fondatore collocava anche i problemi economici in prospettiva soprannaturale. In una lettera indirizzata al suo caro amico don Eliodoro Gil e datata 19 gennaio 1935, scriveva: «Sai che san Nicola di Bari è… niente di meno che l’Amministratore generale dell’Opera di Dio? Che peso gli è piombato addosso!». Pochi giorni prima, infatti, trovandosi in una situazione economica molto difficile, il Padre aveva avuto l’ispirazione di nominare il santo vescovo di Bari come intercessore dell’Opus Dei per le questioni economiche. In un primo momento aveva pensato di condizionare la nomina alla soluzione del problema che lo assillava; ma poi, con una reazione profondamente soprannaturale, rettificò l’atteggiamento iniziale e, rivolgendosi al santo, esclamò: «Ti nomino intercessore fin d’adesso, anche se non mi risolvi questo problema».
Il fondatore ha sempre fatto appello alla generosità dei benefattori, e in primo luogo dei Cooperatori dell’Opera, come si fa tuttora. Quando si accinse ad allestire la prima Residenza universitaria, quella di via Ferraz, di particolare importanza fu il contributo offerto dalla contessa de Humanes, che il Padre andò a trovare personalmente dopo aver pregato molto per il buon esito dell’incontro. Era una donna molto buona e comprese subito i motivi esposti dal nostro fondatore. Si commosse e, dal momento che non aveva a disposizione denaro contante — viveva infatti in rigorosa povertà pur essendo molto facoltosa e non facendo mancare nulla alle persone che lavoravano per lei —, aprì la cassaforte dove custodiva i gioielli e li donò al fondatore. Proprio a questo episodio si riferisce il punto n. 638 di Cammino: «Quante sante risorse ha la povertà! — Ricordi? Tu gli donasti, in momenti di gravi ristrettezze economiche per quell’impresa apostolica, fin l’ultimo centesimo di cui disponevi.
— E ti disse — Sacerdote di Dio — : “Anch’io ti darò tutto quello che ho”. — Tu, in ginocchio. E… “La benedizione di Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, discenda su di te e con te rimanga sempre”, si udì.
— Dura ancora in te la persuasione d’essere stato ben pagato».
In precedenza, era stata ancora la contessa de Humanes a regalare il primo orologio per l’Accademia di via Luchana. Dopo molti sforzi e umiliazioni, il Padre era riuscito per tre volte a raggranellare il poco denaro necessario all’acquisto dell’orologio, ma ogni volta si presentava una necessità economica più impellente che assorbiva quei soldi. Finalmente la contessa, accortasi della situazione, regalò l’orologio. Era a cassa quadrata, semplice e modesto; ma il Padre e i ragazzi che già frequentavano il Centro ne furono così contenti, che gli scattarono una fotografia, tuttora custodita nel nostro archivio.
Ancora all’epoca di Burgos risale un episodio che denota da un lato la povertà in cui vivevano e dall’altro la generosità del fondatore. Ogni tanto lo andava a trovare un docente della Scuola di architettura di Madrid, il prof. Francisco Navarro Borrás, che era un matematico molto noto. Un giorno il nostro fondatore ricevette in regalo un sigaro e sapendo che il professor Navarro Borrás fumava molto, pensò di metterlo da parte per offrirglielo. Anche i due membri dell’Opera che abitavano con lui fumavano, ma non avevano neppure un centesimo per comprare il tabacco, sicché pensarono di ritagliarne un po’ da una punta del sigaro; dopo pochi giorni assottigliarono l’altra estremità, e così poco a poco… Quando venne il professor Navarro, il Padre gli disse: «Voglio offrirle un sigaro»; lo chiese ai suoi figli e gli passarono quel che era rimasto: un pezzetto minuscolo. Il professore ne fu colpito e il Padre si commosse per quella ragazzata.
Nella prima Residenza, nonostante le ristrettezze, non mancava mai il buonumore. Il personale di servizio era costituito unicamente da una cuoca e da un inserviente. I residenti chiamavano la cuoca la «signora Cupis», perché dicevano che aveva la concupiscenza della carne: infatti era solita portarsi a casa per la sua famiglia una parte della carne che veniva comprata per i residenti. L’inserviente stava attento alla porta e serviva a tavola. Sicché era il Padre a occuparsi della pulizia delle stanze e a rifare i letti per gli oltre venti studenti che vi abitavano; lo aiutava qualcuno di noi, soprattutto Ricardo Fernández Vallespin, che era il direttore della Residenza e faceva l’architetto. Per portare a termine questi mestieri domestici approfittava delle ore in cui i residenti si trovavano all’università: il Padre prestava con grande gioia questo servizio agli altri.
D’altra parte, la sua generosità era sconfinata. Nel 1942 morì il padre di uno studente di architettura, che viveva nella Residenza DYA sin dall’anno accademico 1935/36. La famiglia si trovò ad affrontare una situazione economica difficile. Il Padre disse a questo studente e al fratello di non preoccuparsi: potevano rimanere in Residenza fino al termine del corso di laurea senza pagare nulla.
Il Padre si adoperava con particolare impegno affinchè questi aiuti venissero prestati con la massima discrezione, per evitare la benché minima umiliazione agli interessati. Perciò, per esempio, dietro esplicita indicazione del fondatore, nelle opere apostoliche dell’Opus Dei gli alunni che per mancanza di mezzi economici non pagano la retta, godono degli stessi diritti, trattamento e considerazione degli altri compagni; anzi, non è possibile distinguere gli uni dagli altri.
Un altro segno del suo spirito di povertà era la cura delle cose materiali al fine di evitare spese superflue. Ci insegnava con l’esempio a prestare attenzione a moltissimi particolari: dalla conservazione degli edifici fino al buon funzionamento del più piccolo strumento di lavoro. Il Padre ripeteva che ogni oggetto va adoperato per lo scopo per cui e stato costruito, altrimenti si rovina e bisogna sostituirlo: così, per esempio, non si possono utilizzare un coltello o delle forbici per aprire una scatoletta, né un cacciavite come scalpello. Quando venne ultimata l’Aula Magna di Villa Tevere, la nostra Sede Centrale, suggerì ai suoi figli la piccola mortificazione di non appoggiare le mani sui braccioli delle poltroncine in modo da non macchiare o consumare la tappezzeria.
Un giorno, nel 1959, il Padre stava visitando il cantiere di Villa Tevere, come faceva spesso, per dare impulso ali’andamento dei lavori e seguire da vicino anche i più piccoli particolari. Mentre ci spostavamo da una zona all’altra, Jesùs Alvarez Gazapo, l’architetto che dirigeva i lavori, accendeva e spegneva le luci. Il nostro fondatore notò che nessuno di noi lo aiutava, forse perché non sapevamo dove si trovavano gli interruttori. In seguito non mancò di riprenderci: spiegò che avremmo dovuto aiutare quel nostro fratello, poiché la vera carità doveva impedirci di lasciarci servire. E aggiunse: «Questo è lo spirito dell’Opera: non fare il “signorino”, non consentire agli altri di lavorare per noi. Io compirò fra poco quasi sessant’anni, ma ho davvero voglia di correre accanto a lui e di aiutarlo».
In un’altra occasione, sempre durante i lavori a Villa Tevere, scomparvero le antiche guarnizioni metalliche della porta del vestibolo d’ingresso. In quella zona stavano lavorando diversi operai ed erano gli unici a potervi accedere. Il Padre li riunì e con tono pacato disse loro che siccome lì non entrava nessun altro, tutto faceva pensare che fosse stato uno di loro a prenderle. Li invitò a non scusarsi e a considerare che anche lui era povero: dalla vendita di quelle borchie ci avrebbero guadagnato ben poco, lui invece avrebbe dovuto affrontare una spesa non indifferente per rimpiazzarle e non aveva i soldi. Ribadì di averli già perdonati, pertanto non dovevano restituire nulla; aggiunse poi che se qualcuno si fosse trovato in difficoltà economiche, poteva ricorrere schiettamente a lui e, nella misura del possibile, sarebbe stato aiutato. Poi, alla mia presenza, volle dimostrare a tutti il suo affetto e il suo perdono e li abbracciò uno per uno.
Nel vestiario e negli oggetti di uso personale, era di una sobrietà estrema. Come norme concrete di spirito di povertà egli impose a sé stesso le seguenti regole:
— non tenere mai nulla come proprietà personale; così, per esempio, non scrisse mai il suo nome sui libri che usava abitualmente e non permetteva che chiamassimo «il suo oratorio» la cappella in cui celebrava la Messa ogni giorno;
— non tenere nulla di superfluo, fino al punto che, per esempio, negli ultimi anni cedette l’orologio che aveva, perché si lasciava organizzare la giornata dai suoi Custodes, cioè da don Javier Echevarría e da me;
— non lamentarsi quando manca il necessario: in quest’aspetto giunse a un eroismo estremo. Non ricordo, nei quarant’anni trascorsi accanto a lui, nessuna lamentela; non solo per povertà, ma anche perché evitava di parlare di sé stesso. Si lamentava piuttosto del contrario: del fatto che ci preoccupavamo di lui, che cercavamo di non fargli mancare l’imprescindibile, ecc.;
— quando si può scegliere, prendere per sé la cosa peggiore: questo è stato il suo modo abituale di comportarsi anche quando si serviva il cibo a tavola, e in ogni altra occasione;
— non crearsi necessità; ricordo che dovemmo insistere molto per convincerlo a usare gli occhiali da sole d’estate, anche perché soffriva di disturbi alla vista: gli sembrava che si trattasse di una falsa necessità, fino a quando li provò e si rese conto che avevamo ragione; ce ne fu immensamente grato;
— non portare mai soldi in tasca; così visse nei suoi ultimi trent’anni: da quando arrivò in Italia, non portò mai in tasca neppure una lira.
Un altro aspetto del suo spirito di povertà era il trarre il massimo profitto da ogni cosa, come gli strumenti di lavoro o gli oggetti di uso personale. Per esempio il Padre usava sempre dei fogli già usati da un lato per scrivervi sul retro appunti o minute; diceva scherzando che se fosse stato possibile, avrebbe scritto perfino sul bordo. Ecco un altro esempio: nel 1940 dovette comprarsi un paio di occhiali nuovi e riuscì a farseli durare fino al 1970.
Questi esempi dimostrano che la povertà era vissuta da nostro Padre non solo materialmente, ma anche come distacco inferiore.
Arrivava a estremi veramente eroici. Quand’era seminarista a Saragozza e nel contempo studiava all’università, aveva annotato in un quaderno, accanto agli appunti delle lezioni, parecchie massime pronunciate dal professore di Diritto canonico, don Elías Ger. Infatti gli risultavano utili per trame applicazioni pratiche e spunti per l’attività pastorale. Un giorno, nel 1926, in un momento in cui aveva bisogno di una determinata grazia, pensò di offrire a Dio quel quaderno: «Signore, se mi concedi questo, io brucio quel quaderno. Era una reazione — osservava il fondatore dell’Opera — propria di un ragazzo giovane. Ma subito sopraggiunse il pensiero che ero poco generoso, che mi ero attaccato troppo a quelle pagine e bruciai immediatamente tutti gli appunti».
Era di criterio molto severo anche per quanto riguarda i regali: non solo non accettava ciò che un povero non avrebbe potuto permettersi, ma rifiutava gli oggetti superflui, anche se erano regalati. E insegnò anche a noi a non cedere in questo campo, ma a disporre solo del necessario. Con una frase assai espressiva spiegava: «Se ci regalano un elefante bianco, non lo metteremo in casa». Il criterio era chiaro: vendere i regali superflui e destinare il ricavato all’apostolato.
Il suo distacco era propriamente interiore. Nel dicembre del 1959 il Padre aveva fatto eseguire una copia, un po’ più grande dell’originale, della statuetta del Gesù Bambino che ancora si conserva presso la comunità delle Agostiniane recollette del «Patronato de Santa Isabel» a Madrid, di cui egli era stato cappellano dal 1931 e rettore dal 1934: è un oggetto legato a tanti ricordi intimi della sua vita spirituale, a lavori e a grazie stupende. Le buone suore lo chiamano ancor oggi «il Bambino di don Josemaría», e suor San José, che allora era la sagrestana, raccontava di aver visto spesso che, quando il Bambino, durante il tempo natalizio, si trovava nella sagrestia della chiesa, don Josemaría gli parlava, cantava per lui e gli sorrideva come se si fosse trattato di un bambino vero. Ebbene, tre giorni prima del Natale 1959 egli si recò nello studio di architettura di Villa Tevere. Il nostro fondatore si sedette, stanco e insolitamente silenzioso: era completamente immerso in Dio. Nel frattempo venne un artista, il prof. Manuel Caballero, che aveva modellato in creta la statuetta di quel Bambino, perché ne venisse eseguita la copia in legno. La portava in un pacco. Si sedette accanto al Padre e, con premeditata lentezza, cominciò a scartarlo. Non appena il nostro fondatore vide che si trattava del Bambinello, lo prese in braccio, lo strinse al petto e poco dopo, visibilmente emozionato, uscì dalla stanza.
Poco tempo dopo mi disse: «Alvaro, ho pensato di regalare questo Bambino Gesù al Collegio Romano della Santa Croce: sarà la prima pietra della sua sede definitiva». In questo modo il Padre, appena notata l’emozione che provava dinanzi a quella effigie così amata, aveva immediatamente reciso un possibile attaccamento: non si volle concedere neppure questa gioia, che sarebbe stata più che legittima.
Anche nella direzione spirituale evitava in tutti i modi che le anime restassero legate alla sua persona. Voleva condurle al Signore, aiutarle ad assumere le proprie responsabilità dinanzi a Lui, ma desiderava restare in secondo piano, scomparire affinchè risaltasse che l’efficacia sacerdotale si basa in persona Christi. Perciò sin da quando lo conobbi mi risulta che talvolta consigliava a coloro che si dirigevano con lui: «Oggi va’ a confessarti con un altro».
Il suo distacco giungeva anche alla cosa più «sua», l’Opus Dei. In due occasioni, particolarmente importanti, si notò un diretto intervento divino. Ecco due documenti che mi riempiono di commozione: il primo è un appunto manoscritto che si riferisce a un avvenimento del 22 giugno 1933:
«Giovedì scorso, vigilia del Sacro Cuore, per la prima e unica volta da quando conosco la Volontà di Dio, sentii la prova atroce preannunciatami tempo fa dal p. Postius: Ero solo, in una tribuna della chiesa del Perpetuo Soccorso, e stavo cercando di fare orazione dinanzi a Gesù Sacramentato esposto nell’ostensorio, quando, per un istante e senza riuscire a individuare alcuna ragione che lo potesse spiegare — non ve ne sono —, mi venne in mente questo pensiero amarissimo: “E se tutto questo è falso, un’illusione tua, e stai perdendo il tempo…. e — peggio ancora — lo stai facendo perdere a tanti altri?”. Fu una cosa di pochi secondi, ma quanto si soffre!
«Allora mi rivolsi a Gesù e gli dissi: “Signore, se non è tua, distruggila; se lo è, confermami”. Immediatamente non solo mi sentii confermato sulla verità della sua Volontà riguardo all’Opera, ma vidi con chiarezza un aspetto organizzativo che fino ad allora non sapevo risolvere in alcun modo».
Un’altra volta, il 25 settembre 1941, accadde qualcosa che gli fornì l’occasione per rinnovare quell’atto supremo di distacco. L’Opera e la persona del fondatore erano oggetto di una serie incredibile di calunnie e di grossolane menzogne; aspri ostacoli venivano opposti al normale svolgimento degli apostolati. Era una prova permessa dal Signore, ma non pochi ritenevano che venisse posta in pericolo la stessa sopravvivenza dell’Opus Dei. Quel giorno stesso mi scrisse una lettera — ed è il secondo documento —, in cui raccontò l’accaduto:
«Gesù ti protegga, Alvaro.
«Pioviggina e ci siamo rifugiati nell’albergo. Questa vita di comodità mi dà veramente fastidio.
«Ciò nonostante, sono sicuro che in alcuni momenti è molto feconda: ieri ho celebrato la santa Messa per l’Ordinario del luogo, e oggi ho offerto il santo Sacrificio e tutta la giornata per il Sovrano Pontefice, per la sua Persona e le sue intenzioni. A proposito, dopo la Consacrazione sentii l’impulso interiore (sicurissimo, allo stesso tempo, che l’Opera sarà molto amata dal Papa) di fare una cosa che mi è costata lacrime: e, con delle lacrime che mi bruciavano gli occhi, guardando Gesù Eucaristico che stava sul corporale, con il cuore gli ho detto davvero: “Signore, se tu lo volessi, accetto l’ingiustizia”. L’ingiustizia ti immagini certamente qual è: la distruzione di tutto il lavoro di Dio.
«So che lo ha gradito. Come mi sarei potuto rifiutare di fare quest’atto di unione con la sua Volontà, se lo chiedeva Lui? Già un’altra volta, nel 1933 o 1934, feci altrettanto, e soffrii Lui solo sa quanto.
«Figlio mio, che bella messe ci sta preparando il Signore per quando il nostro Santo Padre ci avrà conosciuto sul serio (non attraverso le calunnie) e saprà che gli siamo realmente fedelissimi e ci benedirà!
«Mi verrebbe voglia di gridare, senza preoccuparmi di ciò che diranno gli altri, quel sospiro che a volte mi sfugge quando predico per voi la meditazione: Ah, Gesù, che campo di frumento!
«Caro Alvaro, prega molto e fa’ pregare molto per tuo Padre: guarda che Gesù permette che il nemico mi faccia vedere la spropositata enormità di questa campagna di menzogne incredibili e di calunnie pazzesche; e l’animalis homo, spinto dall’impulso umano, si ribella. Con la grazia di Dio respingo sempre queste reazioni naturali che sembrano e forse sono piene di rettitudine e di giustizia; e lascio sgorgare un “fiat” gioioso e filiale (di filiazione divina: sono figlio di Dio!), che mi colma di pace e di allegria, e dimentico tutto».
Ottimo servizio. Le sue reliquie arrivarono a Bari alcuni secoli dopo.