Le omelie – Amici di Dio
È il secondo volume di omelie ad ampio respiro, pronunciate fra il 1941 e il 1968, quindi in gran parte anteriori alle precedenti, ma pubblicate postume nel 1977 (30). Mentre È Gesù che passa, centrato sui misteri principali della fede, insisteva su considerazioni teologico-mistiche, Amici di Dio considera l’aspetto spirituale-pratico dell’economia delle virtù naturali e soprannaturali nella vita quotidiana del cristiano. Come là emergevano i pilastri della vita e formazione teologica interiore, così qui scorrono nella loro intima connessione le tappe della vita apostolica di conquista delle anime a Cristo. D’altra parte svariati temi principali sono comuni ad ambedue e attestano il carisma creativo della spiritualità dell’autore.
Leggiamo i titoli:
1. Grandezza della vita quotidiana (Omelia pronunciata l’11 marzo 1960).
2. La libertà, dono di Dio (10 aprile 1956).
3. Il tesoro del tempo (9 gennaio 1956).
4. Lavoro di Dio (6 febbraio 1960).
5. Le virtù umane (6 settembre 1941).
6. Umiltà (6 aprile 1965).
7. Distacco (4 aprile 1955, Lunedì Santo).
8. Sulle orme del Signore (3 aprile 1955).
9. Il rapporto con Dio (5 aprile 1964, Domenica in albis).
10. Vivere al cospetto di Dio e al cospetto degli uomini (3 novembre 1963, Domenica XXII dopo Pentecoste).
11. Perche vedranno Dio (12 marzo 1954).
12. Vita di fede (12 ottobre 1947).
13. La speranza del cristiano (8 giugno 1968, sabato delle tempora di Pentecoste).
14. Con la forza dell’amore (6 aprile 1967).
15. Vita d’orazione (4 aprile 1955).
16. Perché tutti siano salvati (16 aprile 1954).
17. Madre di Dio, Madre nostra (11 ottobre 1964, festa della Maternità della Madonna).
18. Verso la santità (26 novembre 1967).
Come per il volume precedente, anche in questo è la santità personale il tema dominante. Esso – sia detto subito, perché traspare a ogni pagina – è la santità comune nel senso più forte e trascinante, ossia la santità che è offerta a tutti, la santità che conviene a ogni professione e tipo di vita: è l’idea che brillò fin dal lontano 1928 al giovane sacerdote e crebbe con lui in pratica come per un patto d’amore. Già altri, prima di lui – si pensi al Terz’Ordine di san Francesco – avevano progettato nella linea del Vangelo la santità (ovvero la vocazione alla perfezione) dei laici, immersi nei compiti e nelle preoccupazioni della vita quotidiana. Qui l’ideale, che può bastare da solo per trasformare la vita della Chiesa in una Pentecoste, è calato nel mondo di oggi al di sopra e oltre – se è lecito così esprimersi – i modelli del passato.
Oggi le classi sociali si arrovellano ovunque per trovare una formula di composizione, trascinate da passioni politiche e da capacità di forze storiche e tecniche sconosciute al passato. Non è possibile limitarsi a ripetere o aggiornare gli schemi del passato; tocca ricominciare daccapo: Escrivá l’ha fatto, ritornando, come Francesco, al Vangelo sine glossa. Per questo una prima lettura scorre tutta in letizia di fulgori evangelici.
Colpisce anzitutto la sua insistenza sulla libertà dei figli di Dio di cui si è parlato altrove (31). È il suo tema preferito – e, a nostro avviso, l’aspetto più geniale e nuovo del suo itinerario della santità – e sembra che egli si compiaccia ad acuirne la paradossalità: la libertà è la tensione suprema dello spirito che ci chiama, e sospinge ognuno alla sua dedizione totale a Dio; l’oggetto, il motivo, la sostanza è la santità nella “verità che libera a libertà”. Senza dubbio è un obiettivo elevato e arduo: “Ma non dimenticate che santi non si nasce: il santo si forgia nel continuo gioco della grazia divina e della corrispondenza umana” (n. 7). E perciò, con uno stile che è forse unico nell’agiografia cristiana, proclama: “In quanto cristiani, voi godete della più completa libertà, con la conseguente responsabilità personale, per intervenire come più vi piaccia nelle questioni di carattere politico, sociale, culturale eccetera, senza limiti oltre quelli indicati dal Magistero della Chiesa” (n. 11).
Se ben comprendiamo, non si tratta di una libertà di ripetizione o anche di pura imitazione, ma di un impegno creativo che va attinto di volta in volta alle sorgenti della fede. È un programma di apertura e non di chiusura, è un compito di creatività negli impegni eterni del Vangelo, da additare con gesto sicuro e concreto all’uomo contemporaneo affinchè realizzi, nella Chiesa e con la sua guida, la “contemporaneità con Cristo”. E gli piace subito dichiarare di mantenere un “sacrosanto rispetto per le vostre scelte” (ibidem): un’espressione audace e assolutamente nuova, a mio avviso, nella tradizione della spiritualità cristiana, ma altrettanto schietta e autentica, che apre lo spirito a tutto osare per la causa del bene. E questo è più facile, direi anche unicamente possibile, in un’istituzione di tipo secolare che abbraccia e può abbracciare tutte le condizioni e situazioni dell’uomo.
Non siamo al livellamento dell’azione, ma ai suoi antipodi: integrazione armoniosa di natura e grazia, di virtù naturale e soprannaturale, del primo grado della creazione, quando Deus fecit hominem rectum, e del secondo, nel quale Cristo, perfectus Deus et perfectus homo (secondo la formula dell’ortodossia atanasiana che ritorna spesso sotto la penna di Escrivá), con la sua grazia non solo ripara le ferite del peccato ma innalza l’uomo nella pienezza della vita divina alla dignità di figlio adottivo e amico di Dio. Sintesi sempre in elevazione. Riferendosi alla polemica del secolo sulla “filosofia cristiana”, ossia ad una Weltanschauung d’ispirazione rivelata come volevano i Padri antichi, essa secondo Escrivá suppone e completa, purifica ed estende le linee già tracciate dalla mente umana nel mondo classico, essendo anche la ragione naturale opera di Dio, secondo Paolo e nella traduzione più robusta della Tradizione cristiana definita dal Concilio Vaticano I, che è qui esplicitamente ricordato.
Riconoscimento quindi pieno dell’originalità creativa dello spirito umano in lumine fidei, cioè in quella luce che contiene e insieme dilata, all’interno dello spirito, la verità che salva.
Non stupisce allora che Escrivá abbia dedicato tutta una sua meditazione alla virtù dell’umiltà. Anch’essa ancora nel suo stile inconfondibile, cioè in salendo, nel senso elevante d’impegno e di conforto, non di abbattimento di fronte al cumulo crescente delle nostre miserie! Allora “ricorriamo alla preghiera e diciamo a Dio nostro Padre: Signore, alla mia povertà, alla mia fragilità, ai cocci di questo vaso rotto, metti qualche punto, e io – con il mio dolore e il tuo perdono – sarò più forte e più bello di prima”. È una preghiera consolante – osserva sviluppando l’immagine potente e tenera insieme del povero coccio – “da ripetere ogni volta che si rompe la povera terracotta di cui siamo fatti” (n. 95). E la conclusione deliziosa nell’invocazione alla Madre di Dio: “Maria, proclamandosi serva del Signore, diviene Madre del Verbo divino, e si riempie di letizia. Che la sua gioia di Madre buona metta radici in noi tutti; cerchiamo, come figli, di assomigliarle, e così assomiglieremo di più a Cristo” (n. 109).
Mi sembra stupenda un’espressione che trovo più avanti sotto il titolo simpatico: Il collirio della propria fragilità, di schietto sapore evangelico: “Anche voi, come me, vi scoprirete quotidianamente pieni di errori, se vi esaminate con coraggio alla presenza di Dio [corsivo nostro]. Quando, con l’aiuto di Dio, si lotta per estirparli, gli errori non hanno più un’importanza decisiva, e si finisce per superarli, anche se sembra di non riuscire mai a sradicarli del tutto” (n. 162). Una milizia come quella auspicata e voluta da Escrivá, sulla base dell’umiltà, tinge di rosa e di luce una nuova aurora per la Chiesa del futuro.
La vita del cristiano deve quindi comporsi in un’armonia delle virtù umane-naturali e cristiane-soprannaturali, non per un accollamento posticcio e artificioso ma secondo un’elevazione che è effetto di abnegazione e di generosità. Si può dire che il capitolo sulle “virtù umane” sta al centro del libro. Esso si apre (n. 73) con la scena delicata dell’unzione dei piedi a Gesù da parte della peccatrice di fronte al contegno arcigno e sprezzante del capo fariseo, un gesto di delicatezza umana, trasfigurata dalla grazia, in contrasto con la taccagneria altezzosa. Di qui il motto di monsignor Escrivá che il cristiano deve essere “universale”: non solo nel senso che il suo ideale di perfezione deve abbracciare tutte le classi sociali, dall’operaio all’alto funzionario, ma perché questo gli offre la possibilità di praticare tutte le virtù in tutto il loro festoso corteo di virtù morali e teologali; si tratta che il cristiano dev’essere “un uomo completo” (nn. 74 ss.).
A questo mira, perché è il fondamento dell’intuizione teologico-mistica dell’autore, il mistero centrale dell’Incarnazione. Piace e conforta l’ottimismo di questa spiritualità: “La mia esperienza di uomo, di cristiano e di sacerdote m’insegna che non esiste cuore, per quanto avviluppato dal peccato, che non nasconda come brace tra la cenere un barlume di nobiltà.
Tutte le volte che ho bussato ad un cuore, a tu per tu e con la parola di Cristo, ho avuto sempre risposta”. E dichiara, lieto come di una scoperta ch’egli espone con franco realismo di luce soprannaturale: “Sulla terra sono molti coloro che non hanno rapporto con Dio; forse sono creature che non hanno avuto l’occasione di ascoltare la parola divina, o anche l’hanno dimenticata. Ma sovente le loro disposizioni sono umanamente sincere, leali, compassionevoli, oneste. Oso affermare che chi riunisce in sé tali condizioni non è lontano dall’essere generoso con Dio, perché le virtù umane sono il fondamento delle virtù soprannaturali” (n. 74; corsivo nostro).
Questa pagina vale un trattato di ascetica e mistica, ed esprime, a mio avviso, l’originalità evangelica dell’Opus Dei, la quale non punta su categorie astratte ma sull’impegno della persona, che è un tutto in tensione: così che, se anche fosse lontana ora dal rapporto con Dio, basta un soffio e un aiuto della grazia per risvegliarla a quella vocazione divina ch’è stata deposta in lei come immagine di Dio nella creazione, e trasfigurata nella Passione e Morte di Cristo con la grazia santificante. In questa prima sfera, non direi tappa, della vita cristiana, ciò che deve contare è la lealtà con Dio e con gli uomini: Escrivá enumerando le virtù umane si sofferma sulla fortezza, la serenità, la pazienza e la magnanimità – che è anche una virtù dell’Etica Nicomachea – per concludere (nn. 81 ss.) con la laboriosità e la diligenza: “Fin dal 1928 vado predicando che il lavoro non è una maledizione, non è un castigo del peccato. Nel libro della Genesi si parla di questa realtà già prima della ribellione di Adamo contro Dio”: un’osservazione, quanto semplice altrettanto geniale, pari a quella che segue che “il tempo non è solo denaro, è gloria di Dio” (n. 81). Il tutto con veracità e giustizia: bisogna sfatare la convinzione diffusa che “nessuno dice la verità, che tutti ricorrono alla simulazione e alla bugia”. Non è vero, incalza: “Ci sono persone, cristiani e non cristiani, che sacrificano la loro fama e il loro onore per la verità. Sono coloro che, per amore della sincerità, sanno rettificare quando scoprono di essersi sbagliati” (n. 82).
E sono questi che Dio sceglie e prepara alla vita e alla pratica delle virtù soprannaturali: la fede in Dio, la speranza nella vita eterna e l’amore di Dio e del prossimo. Le virtù soprannaturali sono quelle proprie del cristiano, e realizzano quel seme divino che è la grazia come “partecipazione della natura divina”; sono pertanto la vita della filiazione divina in noi. È il momento più denso del magistero di Escrivá, che vuole unire in un unico corteo, in cammino verso la santità, laici e religiosi, in santa emulazione per la vita della Chiesa e la conquista delle anime a Dio nell’ora che passa… A quei laici che, con una specifica vocazione divina, cercano la santità nella vita quotidiana, egli addita la vita interiore fondata sull’umiltà, sulla presenza di Dio e sulla mortificazione dei sensi e dello spirito; la trasformazione del lavoro in preghiera, il profumo della purezza… e tutto il corteo delle virtù cristiane chiamate ad abbellire l’anima del credente per la propria santificazione e per l’apostolato con i fratelli.
Si tratta di un programma che attinge un arco infinito, alzato fra la laboriosità della giornata a tempo pieno nel mondo e gli impulsi alla vocazione della vita mistica con i doni dello Spirito Santo. Un tratto importante, e forse il fiore più delicato di questa spiritualità, è la dottrina classica del “santo abbandono” dell’anima in Dio (tanto cara anche al mio fondatore, san Gaspare Bertoni), che racchiude in sé il segreto dell’anima con Dio: “L’esperienza sacerdotale” – dichiara Escrivà – “mi conferma che l’abbandono nelle mani di Dio spinge le anime ad acquistare una pietà forte, profonda e serena, che incoraggia a lavorare sempre con rettitudine d’intenzione” (n. 143). Di qui il passaggio allo “spirito d’infanzia”, che è una luce discreta diffusa in ogni pagina di questa iniziazione alla santità evangelica e che avvicina queste mirabili Omelie ai testi classici della mistica
cristiana: “Cerca riposo nella filiazione divina. Dio è padre pieno di tenerezza, di infinito amore. Chiamalo padre molte volte al giorno e digli – da solo a solo, nel tuo cuore – che lo ami, che lo adori, che senti l’orgoglio – che ti riempie di forza – di essere suo figlio” (n. 150). Di qui la vocazione, che può sorprendere solo chi non conosce da vicino la missione della Chiesa che il fondatore ha affidato all’Opus Dei, alla vita contemplativa da praticare “nel bel mezzo della strada e del lavoro, grazie a un colloquio costante col nostro Dio che non deve mai venir meno lungo tutta la giornata. Se vogliamo seguire le orme del Maestro, è questa l’unica via” (n. 238). Possiamo perciò parlare, con un significato ben preciso, di un “ecumenismo della santità”, nello spirito più aderente alle finalità dell’ultimo Concilio e alla vita della Chiesa.
L’ultima omelia (Verso la santità) andrebbe riportata per intero: non conosco nella letteratura spirituale contemporanea un testo che le possa stare accanto: lo stile piano e gioioso, come al solito, ma il midollo è fra i più robusti che abbia incontrati. Egli ammette che la vita di una “continua unione con Dio” è una “meta davvero alta, ma non inaccessibile”; e, fedele ai classici della mistica di tutti i tempi, raccomanda anzitutto l’orazione: “II sentiero che conduce alla santità è un sentiero di orazione; e l’orazione deve attecchire nell’anima a poco a poco, come il piccolo seme che col tempo diverrà albero frondoso” (n. 295). E vuole la fedeltà alle preghiere apprese da bambini, “frasi ardenti e semplici, rivolte a Dio e a sua Madre, che è anche la nostra Madre” (n. 296). Raccomanda la “lettura di buoni libri che narrino la Passione del Signore. Tali scritti, pieni di sincera devozione, ci fanno pensare al Figlio di Dio, uomo come noi e vero Dio (32) che ama e che soffre nella sua carne per la redenzione del mondo” (n. 299). Poco prima, nell’esortare allo zelo per l’apostolato, aveva notato con dolore filiale che “Gesù ha pochi amici sulla terra” (n. 297); ora denunzia con franchezza apostolica i nemici che la Chiesa ha nel suo interno: si tratta di chi “ferisce le pecore con le pietre che si dovrebbero lanciare contro i lupi”; e più esplicitamente di “coloro che sostengono una teologia incerta e una morale rilassata, coloro che impiegano a capriccio una dubbia liturgia, con una disciplina da hippies e metodi di governo irresponsabili; non è strano che promuovano invidie, false denunce, offese, maltrattamenti, umiliazioni, dicerie e vessazioni di ogni genere, contro chi parla soltanto di Gesù Cristo” (n. 301 ).
Sono forse le righe più addolorate del libro, dov’è evidente l’allusione autobiografica: un grido e una protesta di dolore, ma per un incontro in Cristo nell’amore. Monsignor Escrivà ebbe la ventura di operare prima, durante e dopo il Vaticano II: anche se esso è raramente nominato in queste pagine di colloqui famigliari per la formazione spirituale dei singoli – la maggior parte è precedente al Concilio – si può dire che egli ne anticipò con intuito sicuro i temi fondamentali: e qualcuno perfino, se mi è concessa l’iperbole, con proposito quasi maggiore e non di rado anche con maggiore insistenza. In una pagina mirabile, dedicata all’ecumenismo, egli denunzia con insolito vigore e quasi sdegno i “falsi ecumenismi” di assemblee indiscriminate, mentre il vero ecumenismo è “l’apostolato ad fidem”, ricordando una “lunga storia di dolore e di lealtà”. E questo, nella gioia che il Concilio abbia nuovamente confermato l’ideale apostolico dell’Opus Dei, lo porta alla dichiarazione ferma: “Ritengo ipocrita, bugiardo lo zelo che induce a trattar bene i lontani mentre si calpestano e si disprezzano coloro che vivono la nostra stessa fede” (n. 227).
E, con nostro conforto, vediamo che il tempo gli da sempre più ragione, dimostrando che l’autentico rinnovamento ed ecumenismo della Chiesa non sono nella conformità alle idee
c alle opere del mondo ma nel redimere il mondo riportandolo all’imitazione del Modello, Gesù Cristo: Verbo eterno, Figlio del Padre incarnatesi per noi in Maria.
E piace concludere questa modesta presentazione di un libro, che rimarrà certamente un testo classico della spiritualità cristiana del Novecento, col ricordo della Madre di Dio di cui il 1″ gennaio la Chiesa celebra la solennità liturgica. Dire che Escrivà è un figlio devoto, un innamorato ardente della Madonna, un segnale fedele della tradizione spirituale della sua gente, fiera della sua devozione alla Purìsima, sin pecado concebida, è ancora poco. La penultima omelia è tutta dedicata a “Maria Madre di Dio e Madre nostra” (nn. 274 ss.). Maria è Madre del bell’Amore, e Madre della Chiesa, Madre di fede, di speranza e di carità: ed è soprattutto Madre nostra.
Note
(30) Traduzione italiana: Edizioni Ares, Milano 1988.
(31) C. Fabro, Un maestro di libertà cristiana, in L’Osservatore romano, 2 luglio 1977.
(32) E’ sempre la formula atanasiana.
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