Che cos’è l’Opus Dei
Intervista a cura di Zuppi e Fugardi, pubblicata su L’Osservatore della Domenica (Città del V.), nn. 20,21,22 (1968).
L’Opus Dei occupa un posto di primo piano nel moderno processo di evoluzione del laicato. Per questo vorremmo chiederle anzitutto quali sono, a suo avviso, le caratteristiche più notevoli di questo processo?
Ho sempre pensato che la caratteristica di base del processo di sviluppo del laicato è la presa di coscienza della dignità della vocazione cristiana. La chiamata di Dio, il carattere battesimale, la grazia, fanno sì che ogni cristiano possa e debba incarnare pienamente la fede. Ogni cristiano deve essere alter Christus, ipse Christus presente fra gli uomini. È una verità che il Santo Padre ha illustrato in termini assai espliciti: “Bisogna ridare al fatto d’aver ricevuto il Battesimo, e cioè di essere stati inseriti, mediante tale sacramento, nel Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa, tutta la sua importanza… L’essere cristiani, l’aver ricevuto il santo Battesimo, non dev’essere considerato come cosa indifferente o trascurabile, ma deve marcare profondamente e felicemente la coscienza di ogni battezzato”. (Paolo VI, Enc. Ecclesiam suam, parte I).
Tutto ciò comporta una visione più profonda della Chiesa, vista come comunità formata da tutti i fedeli, per cui siamo tutti solidalmente responsabili di una stessa missione, che va compiuta da ciascuno d’accordo con le circostanze personali.
I laici, grazie agli impulsi dello Spirito Santo, sono sempre più consapevoli di “essere Chiesa”, e di avere quindi una missione specifica, sublime e necessaria perché voluta da Dio. E sanno che questa missione deriva dalla loro stessa condizione di cristiani, e non necessariamente da un mandato della Gerarchia; anche se evidentemente dovranno compiere questa missione in unione con la Gerarchia ecclesiastica e d’accordo con gli insegnamenti del Magistero: perché senza unione con il Corpo episcopale e con il suo Capo, il Romano Pontefice, non ci può essere, per un cattolico, unione con Cristo.
Il modo specifico che hanno i laici di contribuire alla santità e all’apostolato della Chiesa è la loro libera e responsabile azione all’interno delle strutture temporali, nelle quali essi infondono il lievito del messaggio cristiano. La testimonianza di vita cristiana, la parola che illumina nel nome di Dio, l’azione responsabile per servire gli altri contribuendo a risolvere i comuni problemi: ecco come si manifesta questa presenza, attraverso la quale il comune cristiano compie la sua missione divina.
Da tanti anni a questa parte, fin dalla stessa fondazione dell’Opus Dei, io ho meditato e ho fatto meditare quelle parole di Cristo riportate da san Giovanni: Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum (Gv 12, 32). Cristo, morendo sulla Croce, attrae a Sé l’intera creazione; e, nel Suo nome, i cristiani, lavorando in mezzo al mondo, devono riconciliare tutte le cose con Dio, situando Cristo sulla vetta di tutte le attività umane.
Vorrei aggiungere che, accanto a questa presa di coscienza dei laici, si sta producendo un’analoga sensibilizzazione dei pastori. Essi si rendono conto di quanto sia “specifica” la vocazione dei laici, che va suscitata e favorita con una pastorale che porta a scoprire in mezzo al Popolo di Dio il carisma della santità e dell’apostolato, nelle infinite e svariatissime forme in cui Dio lo concede.
Questa nuova pastorale è molto impegnativa, ma, a mio avviso, assolutamente necessaria. Richiede il dono soprannaturale del discernimento degli spiriti, la sensibilità per le cose di Dio, l’umiltà di non voler imporre le proprie scelte e di servire ciò che Dio suscita nelle anime. In poche parole, l’amore per la legittima libertà dei figli di Dio, che trovano Cristo e sono resi portatori di Cristo, percorrendo strade diverse, ma tutte ugualmente divine.
Uno dei maggiori pericoli che minacciano oggi la Chiesa potrebbe essere proprio questo: non riconoscere le istanze divine della libertà cristiana, e sotto la spinta di falsi criteri di efficacia, pretendere di imporre ai cristiani un’azione uniforme. Alla radice di questi atteggiamenti c’è qualcosa di legittimo, anzi di lodevole: il desiderio che la Chiesa offra una testimonianza capace di scuotere il mondo moderno.
Ma temo proprio che questa non sia la strada giusta, perché da una parte induce a compromettere la Gerarchia nelle questioni temporali, cadendo in un clericalismo diverso da quello dei secoli scorsi, ma non meno funesto; e d’altra parte induce a isolare i laici, i comuni cristiani, dal mondo in cui vivono, per farli diventare porta-voci di decisioni o di idee concepite all’esterno di questo loro mondo.
Mi pare che a noi sacerdoti venga chiesta l’umiltà di imparare a non essere di moda; dobbiamo essere veramente servi dei servi di Dio – ricordando il grido di Giovanni Battista: Illum oportet crescere, me autem minui (Gv 3, 30), bisogna che Cristo cresca e che io diminuisca -, per far sì che i comuni cristiani, i laici, rendano presente Cristo in tutti gli ambienti della società.
La missione di addottrinare, di aiutare a scoprire sempre meglio le esigenze personali e sociali del Vangelo, di indurre a riconoscere i segni dei tempi, è e sarà sempre uno dei compiti fondamentali del sacerdote. Ma ogni funzione sacerdotale deve compiersi nel massimo rispetto della legittima libertà delle coscienze: chi deve rispondere liberamente a Dio è la singola persona. Del resto, qualsiasi cattolico, oltre all’aiuto da parte del sacerdote, ha anche delle ispirazioni personali che riceve da Dio, una grazia di stato che gli consente di portare a compimento la sua missione specifica di uomo e di cristiano.
Chi ritiene che, per far sentire la voce di Cristo nel mondo di oggi, sia necessario che il clero parli o intervenga sempre, non ha ancora capito bene la dignità della vocazione divina di tutti e di ciascuno dei fedeli.
In questo quadro, qual è il compito che ha svolto e che intende svolgere l’Opus Dei? Quali rapporti di collaborazione mantengono i soci con altre organizzazioni che operano in questo campo?
Non spetta a me il giudizio storico su quello che l’Opus Dei ha realizzato, con la grazia di Dio. Posso solo affermare che la finalità cui tende l’Opus Dei è di favorire la ricerca della santità e l’esercizio dell’apostolato da parte dei cristiani che vivono in mezzo al mondo, qualunque sia il loro stato e la loro condizione.
L’Opera è nata per contribuire a far sì che questi cristiani inseriti nel tessuto connettivo della società civile – con la loro famiglia, gli amici, il lavoro professionale e le loro nobili aspirazioni – comprendano che la loro vita, così come è, può essere l’occasione di un incontro con Cristo, ed è pertanto una strada di santità e di apostolato. Cristo è presente in qualsiasi onesto impegno umano: la vita di un comune cristiano – che ad alcuni forse sembra una vita scialba e meschina – può e deve essere una vita santa e santificante.
In altri termini: per seguire Cristo, per servire la Chiesa, per aiutare gli altri a riconoscere il loro destino eterno, non è indispensabile abbandonare il mondo o allontanarsi da esso, e nemmeno c’è bisogno di dedicarsi a un’attività ecclesiastica; la condizione necessaria e sufficiente è di compiere la missione che Dio ha assegnato a ciascuno, nel luogo e nell’ambiente voluti dalla Sua Provvidenza.
E siccome la maggior parte dei cristiani riceve da Dio la missione di santificare il mondo dal di dentro, rimanendo in mezzo alle strutture temporali, l’Opus Dei si dedica a far loro scoprire questa missione divina, mostrando che la vocazione umana – vale a dire, la vocazione professionale, famigliare, sociale – non si oppone alla vocazione soprannaturale, ma anzi è parte integrante di essa.
L’Opus Dei ha come unica ed esclusiva missione la diffusione di questo messaggio – che è un messaggio evangelico – in mezzo a tutte le persone che vivono e lavorano nel mondo, in qualsiasi ambiente e professione. E a coloro che comprendono questo ideale di santità, l’Opera fornisce i mezzi spirituali e la formazione dottrinale, ascetica e apostolica necessaria per realizzarlo nella propria vita.
I soci dell’Opus Dei non agiscono in gruppo ma individualmente, con libertà e responsabilità personali. L’Opus Dei non è quindi un’organizzazione chiusa o che comunque raggruppi i suoi soci per isolarli dagli altri uomini. Le attività apostoliche collettive proprie dell’Opus Dei – che sono le uniche che l’Opera dirige e delle quali si rende responsabile – sono aperte a ogni tipo di persona, senza discriminazioni di alcun genere, né sociale, né culturale, né religiosa. E i soci, proprio perché devono santificarsi nel mondo, collaborano sempre con tutte le persone con cui sono in contatto attraverso il lavoro e la partecipazione alla vita civica.
Parte essenziale dello spirito cristiano è vivere non solo in unione con la Gerarchia ordinaria – Romano Pontefice ed Episcopato – ma anche sentendo l’unità con gli altri fratelli nella fede. Da molto tempo ho visto che una delle maggiori iatture della Chiesa ai nostri giorni è l’ignoranza che hanno molti cattolici della vita e delle opinioni dei cattolici degli altri Paesi e degli altri ambienti della società. Bisogna far rivivere quella fraternità che i primi cristiani sentivano così profondamente.
In tal modo ci sentiremo uniti, amando al tempo stesso la varietà delle vocazioni personali. E si eviteranno molti apprezzamenti ingiusti e offensivi che determinati gruppetti diffondono nell’opinione pubblica – in nome del cattolicesimo! – contro i loro fratelli nella fede che in realtà agiscono con rettitudine di intenzione e spirito di sacrificio, tenendo conto delle circostanze concrete del loro Paese.
È molto importante che ognuno si sforzi di essere fedele alla chiamata divina, perché solo così potrà contribuire al bene della Chiesa con il suo apporto specifico, in virtù del carisma ricevuto da Dio. Il compito proprio dei soci dell’Opus Dei – che sono dei comuni cristiani – è di santificare il mondo dal di dentro, partecipando alle più diverse attività umane. Dato che la loro appartenenza all’Opera non modifica in modo alcuno la loro situazione nel mondo, essi prendono parte, nel modo suggerito dalle diverse circostanze, alle celebrazioni religiose collettive, alla vita parrocchiale e così via. Anche sotto questo profilo essi sono dei comuni cittadini che vogliono essere dei buoni cattolici.
Ma in genere i soci dell’Opera non si dedicano ad attività confessionali; soltanto in casi eccezionali, dietro espressa richiesta della Gerarchia, qualcuno presta la propria collaborazione. E non bisogna credere che questo atteggiamento nasca dal desiderio di fare gli originali, e meno ancora dalla mancanza di considerazione per le attività confessionali; è semplicemente la conseguenza della necessità di occuparsi di ciò che è proprio della vocazione all’Opus Dei. Ci sono già molti religiosi e molti chierici, come anche molti zelanti laici, che si occupano di queste altre attività, dedicandovi i loro migliori sforzi.
Il lavoro proprio dei soci dell’Opera – il compito a cui si sanno chiamati da Dio – è diverso. Nell’ambito della vocazione universale alla santità, i soci dell’Opus Dei ricevono inoltre una vocazione specifica, che li induce a dedicarsi liberamente e responsabilmente alla – ricerca della santità e all’esercizio dell’apostolato in mezzo al mondo, impegnandosi a incarnare una spiritualità determinata e a ricevere, per tutta la vita, una formazione peculiare.
Se trascurassero il proprio lavoro nel mondo per occuparsi delle attività ecclesiastiche, renderebbero sterili i doni divini che hanno ricevuto; con l’illusione di un’efficacia pastorale immediata, arrecherebbero un danno effettivo alla Chiesa: perché non ci sarebbero tanti cristiani che si dedicano a santificarsi in tutte le professioni e i mestieri della società civile, nel campo sconfinato del lavoro secolare.
Oltretutto, la pressante necessità di una ininterrotta formazione professionale e di una seria formazione religiosa, contando anche il tempo che ognuno personalmente dedica alle pratiche di pietà, alla preghiera e al compimento sacrificato dei doveri di stato, occupa tutta la vita: non ci sono ore libere.
Sappiamo che all’Opus Dei appartengono uomini e donne di ogni condizione sociale, sia celibi che coniugati. Qual è l’elemento comune che caratterizza la vocazione all’Opera? Quali sono gli impegni che ciascuno assume per realizzare i fini dell’Opus Dei?
Posso dirlo in poche parole: cercare la santità in mezzo al mondo, nel bel mezzo della strada. Chi riceve da Dio la vocazione specifica all’Opus Dei, ha la convinzione, e la vive, che la santità deve raggiungerla nel proprio stato, nell’esercizio del proprio lavoro, in una professione liberale o in un mestiere manuale. Ho detto che “ha la convinzione e la vive”, perché non si tratta di accettare un postulato teorico, ma di realizzare questo ideale giorno per giorno, nella vita ordinaria.
Impegnarsi a cercare la santità, malgrado gli errori e le miserie personali, vuoi dire impegnarsi, con la grazia di Dio, a praticare la carità, che è la pienezza della legge e il vincolo della perfezione. E la carità non è una cosa astratta; vuol dire dedizione reale e totale al servizio di Dio, e di tutti gli uomini; al servizio di Dio che ci parla nel silenzio della preghiera e nel frastuono del mondo, e al servizio degli uomini, la cui esistenza si intreccia con la nostra.
Praticando la carità – l’Amore – si attuano tutte le virtù umane e soprannaturali del cristiano, che formano un’unità e non possono ridursi a una enumerazione completa e definitiva. La carità richiede la pratica della giustizia, la solidarietà, la responsabilità famigliare e sociale, la povertà, la gioia, la castità, l’amicizia…
Si vede subito che la pratica di queste virtù conduce all’apostolato, anzi, è già di per sé apostolato: infatti, quando uno cerca di vivere così mentre svolge il suo lavoro quotidiano, la sua condotta cristiana diventa buon esempio, testimonianza, aiuto concreto ed efficace; si impara a seguire le orme di Cristo, il quale coepit facere et docere (At 1,1), cominciò a fare e a insegnare, unendo l’esempio alla parola. Così si spiega che, da quarant’anni, quest’apostolato lo chiamo “apostolato di amicizia e di confidenza”.
Tutti i soci dell’Opus Dei hanno questo medesimo impegno di santità e di apostolato. Per questo nell’Opera non ci sono gradi o categorie di soci, bensì una varietà di situazioni personali – le diverse situazioni che ciascuno ha nel mondo – alle quali si adatta perfettamente la stessa e unica vocazione specifica e divina: cioè la chiamata a una completa dedizione, a un impegno personale, libero e responsabile, nel compimento della volontà di Dio su ciascuno di noi.
Come si può vedere, il fenomeno pastorale dell’Opus Dei è qualcosa che nasce dalla base, cioè dalla vita ordinaria del cristiano che vive e lavora assieme agli altri uomini. Non si trova sulla linea di una mondanizzazione – dissacralizzazione – della vita monastica o religiosa; non è l’ultimo stadio del processo di avvicinamento dei religiosi al mondo.
Chi riceve la vocazione all’Opus Dei riceve una nuova visione delle cose che ha intorno a sé, luci nuove nei suoi rapporti sociali, nella sua professione, nelle sue preoccupazioni, nelle sue pene e nelle sue gioie. Ma nemmeno per un istante egli smette di vivere in mezzo a tutte queste cose; è quindi completamente fuori luogo parlare di adattamento al mondo o alla società moderna, perché nessuno si adatta a ciò che già possiede come cosa propria; nelle cose che formano il proprio mondo uno ci si trova naturalmente.
La vocazione che si riceve in questo modo è uguale a quella che sbocciava nell’animo di quei pescatori, contadini, commercianti o soldati che si sedevano attorno a Gesù in Galilea e lo sentivano dire: “Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cicli” (Mt 5, 48). Ripeto: questa santità – quella che cerca un socio dell’Opus Dei – è la santità propria del cristiano, senza altre aggiunte: quella cioè a cui è chiamato ogni cristiano, e che consiste nell’attuare integralmente le esigenze della fede.
Non ci interessa la perfezione evangelica, che è considerata propria dei religiosi e di alcune istituzioni assimilate ai religiosi; e meno che mai ci interessa la cosiddetta vita di perfezione evangelica, che si riferisce canonicamente allo stato religioso.
La strada della vocazione religiosa la considero benedetta e necessaria alla Chiesa, e chi non la stimasse non avrebbe lo spirito dell’Opera. Ma questa non è la mia strada, né la strada dei soci dell’Opus Dei. Si può ben dire che tutti e ciascuno di loro hanno aderito all’Opus Dei con la condizione espressa di non cambiare di stato; la nostra caratteristica specifica è appunto questa: ognuno vuole santificare il proprio stato nel mondo, e si vuole santificare nel luogo del suo incontro con Cristo. Questo è l’impegno che ogni socio assume per realizzare i fini propri dell’Opus Dei.
L’Opus Dei occupa un posto di primo piano nel moderno processo di evoluzione del laicato. Per questo vorremmo chiederle anzitutto quali sono, a suo avviso, le caratteristiche più notevoli di questo processo?
Ho sempre pensato che la caratteristica di base del processo di sviluppo del laicato è la presa di coscienza della dignità della vocazione cristiana. La chiamata di Dio, il carattere battesimale, la grazia, fanno sì che ogni cristiano possa e debba incarnare pienamente la fede. Ogni cristiano deve essere alter Christus, ipse Christus presente fra gli uomini. È una verità che il Santo Padre ha illustrato in termini assai espliciti: “Bisogna ridare al fatto d’aver ricevuto il Battesimo, e cioè di essere stati inseriti, mediante tale sacramento, nel Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa, tutta la sua importanza… L’essere cristiani, l’aver ricevuto il santo Battesimo, non dev’essere considerato come cosa indifferente o trascurabile, ma deve marcare profondamente e felicemente la coscienza di ogni battezzato”. (Paolo VI, Enc. Ecclesiam suam, parte I).
Tutto ciò comporta una visione più profonda della Chiesa, vista come comunità formata da tutti i fedeli, per cui siamo tutti solidalmente responsabili di una stessa missione, che va compiuta da ciascuno d’accordo con le circostanze personali.
I laici, grazie agli impulsi dello Spirito Santo, sono sempre più consapevoli di “essere Chiesa”, e di avere quindi una missione specifica, sublime e necessaria perché voluta da Dio. E sanno che questa missione deriva dalla loro stessa condizione di cristiani, e non necessariamente da un mandato della Gerarchia; anche se evidentemente dovranno compiere questa missione in unione con la Gerarchia ecclesiastica e d’accordo con gli insegnamenti del Magistero: perché senza unione con il Corpo episcopale e con il suo Capo, il Romano Pontefice, non ci può essere, per un cattolico, unione con Cristo.
Il modo specifico che hanno i laici di contribuire alla santità e all’apostolato della Chiesa è la loro libera e responsabile azione all’interno delle strutture temporali, nelle quali essi infondono il lievito del messaggio cristiano. La testimonianza di vita cristiana, la parola che illumina nel nome di Dio, l’azione responsabile per servire gli altri contribuendo a risolvere i comuni problemi: ecco come si manifesta questa presenza, attraverso la quale il comune cristiano compie la sua missione divina.
Da tanti anni a questa parte, fin dalla stessa fondazione dell’Opus Dei, io ho meditato e ho fatto meditare quelle parole di Cristo riportate da san Giovanni: Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum (Gv 12, 32). Cristo, morendo sulla Croce, attrae a Sé l’intera creazione; e, nel Suo nome, i cristiani, lavorando in mezzo al mondo, devono riconciliare tutte le cose con Dio, situando Cristo sulla vetta di tutte le attività umane.
Vorrei aggiungere che, accanto a questa presa di coscienza dei laici, si sta producendo un’analoga sensibilizzazione dei pastori.
Essi si rendono conto di quanto sia “specifica” la vocazione dei laici, che va suscitata e favorita con una pastorale che porta a scoprire in mezzo al Popolo di Dio il carisma della santità e dell’apostolato, nelle infinite e svariatissime forme in cui Dio lo concede.
Questa nuova pastorale è molto impegnativa, ma, a mio avviso, assolutamente necessaria. Richiede il dono soprannaturale del discernimento degli spiriti, la sensibilità per le cose di Dio, l’umiltà di non voler imporre le proprie scelte e di servire ciò che Dio suscita nelle anime. In poche parole, l’amore per la legittima libertà dei figli di Dio, che trovano Cristo e sono resi portatori di Cristo, percorrendo strade diverse, ma tutte ugualmente divine.
Uno dei maggiori pericoli che minacciano oggi la Chiesa potrebbe essere proprio questo: non riconoscere le istanze divine della libertà cristiana, e sotto la spinta di falsi criteri di efficacia, pretendere di imporre ai cristiani un’azione uniforme.
Alla radice di questi atteggiamenti c’è qualcosa di legittimo, anzi di lodevole: il desiderio che la Chiesa offra una testimonianza capace di scuotere il mondo moderno. Ma temo proprio che questa non sia la strada giusta, perché da una parte induce a compromettere la Gerarchia nelle questioni temporali, cadendo in un clericalismo diverso da quello dei secoli scorsi, ma non meno funesto; e d’altra parte induce a isolare i laici, i comuni cristiani, dal mondo in cui vivono, per farli diventare porta-voci di decisioni o di idee concepite all’esterno di questo loro mondo.
Mi pare che a noi sacerdoti venga chiesta l’umiltà di imparare a non essere di moda; dobbiamo essere veramente servi dei servi di Dio – ricordando il grido di Giovanni Battista: Illum oportet crescere, me autem minui (Gv 3, 30), bisogna che Cristo cresca e che io diminuisca -, per far sì che i comuni cristiani, i laici, rendano presente Cristo in tutti gli ambienti della società. La missione di addottrinare, di aiutare a scoprire sempre meglio le esigenze personali e sociali del Vangelo, di indurre a riconoscere i segni dei tempi, è e sarà sempre uno dei compiti fondamentali del sacerdote.
Ma ogni funzione sacerdotale deve compiersi nel massimo rispetto della legittima libertà delle coscienze: chi deve rispondere liberamente a Dio è la singola persona. Del resto, qualsiasi cattolico, oltre all’aiuto da parte del sacerdote, ha anche delle ispirazioni personali che riceve da Dio, una grazia di stato che gli consente di portare a compimento la sua missione specifica di uomo e di cristiano. Chi ritiene che, per far sentire la voce di Cristo nel mondo di oggi, sia necessario che il clero parli o intervenga sempre, non ha ancora capito bene la dignità della vocazione divina di tutti e di ciascuno dei fedeli.
In questo quadro, qual è il compito che ha svolto e che intende svolgere l’Opus Dei? Quali rapporti di collaborazione mantengono i soci con altre organizzazioni che operano in questo campo?
Non spetta a me il giudizio storico su quello che l’Opus Dei ha realizzato, con la grazia di Dio. Posso solo affermare che la finalità cui tende l’Opus Dei è di favorire la ricerca della santità e l’esercizio dell’apostolato da parte dei cristiani che vivono in mezzo al mondo, qualunque sia il loro stato e la loro condizione.
L’Opera è nata per contribuire a far sì che questi cristiani inseriti nel tessuto connettivo della società civile – con la loro famiglia, gli amici, il lavoro professionale e le loro nobili aspirazioni – comprendano che la loro vita, così come è, può essere l’occasione di un incontro con Cristo, ed è pertanto una strada di santità e di apostolato. Cristo è presente in qualsiasi onesto impegno umano: la vita di un comune cristiano – che ad alcuni forse sembra una vita scialba e meschina – può e deve essere una vita santa e santificante.
In altri termini: per seguire Cristo, per servire la Chiesa, per aiutare gli altri a riconoscere il loro destino eterno, non è indispensabile abbandonare il mondo o allontanarsi da esso, e nemmeno c’è bisogno di dedicarsi a un’attività ecclesiastica; la condizione necessaria e sufficiente è di compiere la missione che Dio ha assegnato a ciascuno, nel luogo e nell’ambiente voluti dalla Sua Provvidenza.
E siccome la maggior parte dei cristiani riceve da Dio la missione di santificare il mondo dal di dentro, rimanendo in mezzo alle strutture temporali, l’Opus Dei si dedica a far loro scoprire questa missione divina, mostrando che la vocazione umana – vale a dire, la vocazione professionale, famigliare, sociale – non si oppone alla vocazione soprannaturale, ma anzi è parte integrante di essa.
L’Opus Dei ha come unica ed esclusiva missione la diffusione di questo messaggio – che è un messaggio evangelico – in mezzo a tutte le persone che vivono e lavorano nel mondo, in qualsiasi ambiente e professione. E a coloro che comprendono questo ideale di santità, l’Opera fornisce i mezzi spirituali e la formazione dottrinale, ascetica e apostolica necessaria per realizzarlo nella propria vita.
I soci dell’Opus Dei non agiscono in gruppo ma individualmente, con libertà e responsabilità personali. L’Opus Dei non è quindi un’organizzazione chiusa o che comunque raggruppi i suoi soci per isolarli dagli altri uomini. Le attività apostoliche collettive proprie dell’Opus Dei – che sono le uniche che l’Opera dirige e delle quali si rende responsabile – sono aperte a ogni tipo di persona, senza discriminazioni di alcun genere, né sociale, né culturale, né religiosa. E i soci, proprio perché devono santificarsi nel mondo, collaborano sempre con tutte le persone con cui sono in contatto attraverso il lavoro e la partecipazione alla vita civica.
Parte essenziale dello spirito cristiano è vivere non solo in unione con la Gerarchia ordinaria – Romano Pontefice ed Episcopato – ma anche sentendo l’unità con gli altri fratelli nella fede. Da molto tempo ho visto che una delle maggiori iatture della Chiesa ai nostri giorni è l’ignoranza che hanno molti cattolici della vita e delle opinioni dei cattolici degli altri Paesi e degli altri ambienti della società.
Bisogna far rivivere quella fraternità che i primi cristiani sentivano così profondamente. In tal modo ci sentiremo uniti, amando al tempo stesso la varietà delle vocazioni personali. E si eviteranno molti apprezzamenti ingiusti e offensivi che determinati gruppetti diffondono nell’opinione pubblica – in nome del cattolicesimo! – contro i loro fratelli nella fede che in realtà agiscono con rettitudine di intenzione e spirito di sacrificio, tenendo conto delle circostanze concrete del loro Paese.
È molto importante che ognuno si sforzi di essere fedele alla chiamata divina, perché solo così potrà contribuire al bene della Chiesa con il suo apporto specifico, in virtù del carisma ricevuto da Dio. Il compito proprio dei soci dell’Opus Dei – che sono dei comuni cristiani – è di santificare il mondo dal di dentro, partecipando alle più diverse attività umane. Dato che la loro appartenenza all’Opera non modifica in modo alcuno la loro situazione nel mondo, essi prendono parte, nel modo suggerito dalle diverse circostanze, alle celebrazioni religiose collettive, alla vita parrocchiale e così via. Anche sotto questo profilo essi sono dei comuni cittadini che vogliono essere dei buoni cattolici.
Ma in genere i soci dell’Opera non si dedicano ad attività confessionali; soltanto in casi eccezionali, dietro espressa richiesta della Gerarchia, qualcuno presta la propria collaborazione. E non bisogna credere che questo atteggiamento nasca dal desiderio di fare gli originali, e meno ancora dalla mancanza di considerazione per le attività confessionali; è semplicemente la conseguenza della necessità di occuparsi di ciò che è proprio della vocazione all’Opus Dei. Ci sono già molti religiosi e molti chierici, come anche molti zelanti laici, che si occupano di queste altre attività, dedicandovi i loro migliori sforzi.
Il lavoro proprio dei soci dell’Opera – il compito a cui si sanno chiamati da Dio – è diverso. Nell’ambito della vocazione universale alla santità, i soci dell’Opus Dei ricevono inoltre una vocazione specifica, che li induce a dedicarsi liberamente e responsabilmente alla – ricerca della santità e all’esercizio dell’apostolato in mezzo al mondo, impegnandosi a incarnare una spiritualità determinata e a ricevere, per tutta la vita, una formazione peculiare. Se trascurassero il proprio lavoro nel mondo per occuparsi delle attività ecclesiastiche, renderebbero sterili i doni divini che hanno ricevuto; con l’illusione di un’efficacia pastorale immediata, arrecherebbero un danno effettivo alla Chiesa: perché non ci sarebbero tanti cristiani che si dedicano a santificarsi in tutte le professioni e i mestieri della società civile, nel campo sconfinato del lavoro secolare.
Oltretutto, la pressante necessità di una ininterrotta formazione professionale e di una seria formazione religiosa, contando anche il tempo che ognuno personalmente dedica alle pratiche di pietà, alla preghiera e al compimento sacrificato dei doveri di stato, occupa tutta la vita: non ci sono ore libere.
Sappiamo che all’Opus Dei appartengono uomini e donne di ogni condizione sociale, sia celibi che coniugati. Qual è l’elemento comune che caratterizza la vocazione all’Opera? Quali sono gli impegni che ciascuno assume per realizzare i fini dell’Opus Dei?
Posso dirlo in poche parole: cercare la santità in mezzo al mondo, nel bel mezzo della strada. Chi riceve da Dio la vocazione specifica all’Opus Dei, ha la convinzione, e la vive, che la santità deve raggiungerla nel proprio stato, nell’esercizio del proprio lavoro, in una professione liberale o in un mestiere manuale. Ho detto che “ha la convinzione e la vive”, perché non si tratta di accettare un postulato teorico, ma di realizzare questo ideale giorno per giorno, nella vita ordinaria.
Impegnarsi a cercare la santità, malgrado gli errori e le miserie personali, vuoi dire impegnarsi, con la grazia di Dio, a praticare la carità, che è la pienezza della legge e il vincolo della perfezione. E la carità non è una cosa astratta; vuol dire dedizione reale e totale al servizio di Dio, e di tutti gli uomini; al servizio di Dio che ci parla nel silenzio della preghiera e nel frastuono del mondo, e al servizio degli uomini, la cui esistenza si intreccia con la nostra.
Praticando la carità – l’Amore – si attuano tutte le virtù umane e soprannaturali del cristiano, che formano un’unità e non possono ridursi a una enumerazione completa e definitiva. La carità richiede la pratica della giustizia, la solidarietà, la responsabilità famigliare e sociale, la povertà, la gioia, la castità, l’amicizia…
Si vede subito che la pratica di queste virtù conduce all’apostolato, anzi, è già di per sé apostolato: infatti, quando uno cerca di vivere così mentre svolge il suo lavoro quotidiano, la sua condotta cristiana diventa buon esempio, testimonianza, aiuto concreto ed efficace; si impara a seguire le orme di Cristo, il quale coepit facere et docere (At 1,1), cominciò a fare e a insegnare, unendo l’esempio alla parola. Così si spiega che, da quarant’anni, quest’apostolato lo chiamo “apostolato di amicizia e di confidenza”.
Tutti i soci dell’Opus Dei hanno questo medesimo impegno di santità e di apostolato. Per questo nell’Opera non ci sono gradi o categorie di soci, bensì una varietà di situazioni personali – le diverse situazioni che ciascuno ha nel mondo – alle quali si adatta perfettamente la stessa e unica vocazione specifica e divina: cioè la chiamata a una completa dedizione, a un impegno personale, libero e responsabile, nel compimento della volontà di Dio su ciascuno di noi.
Come si può vedere, il fenomeno pastorale dell’Opus Dei è qualcosa che nasce dalla base, cioè dalla vita ordinaria del cristiano che vive e lavora assieme agli altri uomini. Non si trova sulla linea di una mondanizzazione – dissacralizzazione – della vita monastica o religiosa; non è l’ultimo stadio del processo di avvicinamento dei religiosi al mondo.
Chi riceve la vocazione all’Opus Dei riceve una nuova visione delle cose che ha intorno a sé, luci nuove nei suoi rapporti sociali, nella sua professione, nelle sue preoccupazioni, nelle sue pene e nelle sue gioie. Ma nemmeno per un istante egli smette di vivere in mezzo a tutte queste cose; è quindi completamente fuori luogo parlare di adattamento al mondo o alla società moderna, perché nessuno si adatta a ciò che già possiede come cosa propria; nelle cose che formano il proprio mondo uno ci si trova naturalmente.
La vocazione che si riceve in questo modo è uguale a quella che sbocciava nell’animo di quei pescatori, contadini, commercianti o soldati che si sedevano attorno a Gesù in Galilea e lo sentivano dire: “Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cicli” (Mt 5, 48). Ripeto: questa santità – quella che cerca un socio dell’Opus Dei – è la santità propria del cristiano, senza altre aggiunte: quella cioè a cui è chiamato ogni cristiano, e che consiste nell’attuare integralmente le esigenze della fede.
Non ci interessa la perfezione evangelica, che è considerata propria dei religiosi e di alcune istituzioni assimilate ai religiosi; e meno che mai ci interessa la cosiddetta vita di perfezione evangelica, che si riferisce canonicamente allo stato religioso.
La strada della vocazione religiosa la considero benedetta e necessaria alla Chiesa, e chi non la stimasse non avrebbe lo spirito dell’Opera. Ma questa non è la mia strada, né la strada dei soci dell’Opus Dei. Si può ben dire che tutti e ciascuno di loro hanno aderito all’Opus Dei con la condizione espressa di non cambiare di stato; la nostra caratteristica specifica è appunto questa: ognuno vuole santificare il proprio stato nel mondo, e si vuole santificare nel luogo del suo incontro con Cristo. Questo è l’impegno che ogni socio assume per realizzare i fini propri dell’Opus Dei.
L’Opus Dei occupa un posto di primo piano nel moderno processo di evoluzione del laicato. Per questo vorremmo chiederle anzitutto quali sono, a suo avviso, le caratteristiche più notevoli di questo processo?
Ho sempre pensato che la caratteristica di base del processo di sviluppo del laicato è la presa di coscienza della dignità della vocazione cristiana. La chiamata di Dio, il carattere battesimale, la grazia, fanno sì che ogni cristiano possa e debba incarnare pienamente la fede.
Ogni cristiano deve essere alter Christus, ipse Christus presente fra gli uomini. È una verità che il Santo Padre ha illustrato in termini assai espliciti: “Bisogna ridare al fatto d’aver ricevuto il Battesimo, e cioè di essere stati inseriti, mediante tale sacramento, nel Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa, tutta la sua importanza… L’essere cristiani, l’aver ricevuto il santo Battesimo, non dev’essere considerato come cosa indifferente o trascurabile, ma deve marcare profondamente e felicemente la coscienza di ogni battezzato”. (Paolo VI, Enc. Ecclesiam suam, parte I).
Tutto ciò comporta una visione più profonda della Chiesa, vista come comunità formata da tutti i fedeli, per cui siamo tutti solidalmente responsabili di una stessa missione, che va compiuta da ciascuno d’accordo con le circostanze personali. I laici, grazie agli impulsi dello Spirito Santo, sono sempre più consapevoli di “essere Chiesa”, e di avere quindi una missione specifica, sublime e necessaria perché voluta da Dio.
E sanno che questa missione deriva dalla loro stessa condizione di cristiani, e non necessariamente da un mandato della Gerarchia; anche se evidentemente dovranno compiere questa missione in unione con la Gerarchia ecclesiastica e d’accordo con gli insegnamenti del Magistero: perché senza unione con il Corpo episcopale e con il suo Capo, il Romano Pontefice, non ci può essere, per un cattolico, unione con Cristo.
Il modo specifico che hanno i laici di contribuire alla santità e all’apostolato della Chiesa è la loro libera e responsabile azione all’interno delle strutture temporali, nelle quali essi infondono il lievito del messaggio cristiano. La testimonianza di vita cristiana, la parola che illumina nel nome di Dio, l’azione responsabile per servire gli altri contribuendo a risolvere i comuni problemi: ecco come si manifesta questa presenza, attraverso la quale il comune cristiano compie la sua missione divina.
Da tanti anni a questa parte, fin dalla stessa fondazione dell’Opus Dei, io ho meditato e ho fatto meditare quelle parole di Cristo riportate da san Giovanni: Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum (Gv 12, 32). Cristo, morendo sulla Croce, attrae a Sé l’intera creazione; e, nel Suo nome, i cristiani, lavorando in mezzo al mondo, devono riconciliare tutte le cose con Dio, situando Cristo sulla vetta di tutte le attività umane.
Vorrei aggiungere che, accanto a questa presa di coscienza dei laici, si sta producendo un’analoga sensibilizzazione dei pastori.
Essi si rendono conto di quanto sia “specifica” la vocazione dei laici, che va suscitata e favorita con una pastorale che porta a scoprire in mezzo al Popolo di Dio il carisma della santità e dell’apostolato, nelle infinite e svariatissime forme in cui Dio lo concede.
Questa nuova pastorale è molto impegnativa, ma, a mio avviso, assolutamente necessaria. Richiede il dono soprannaturale del discernimento degli spiriti, la sensibilità per le cose di Dio, l’umiltà di non voler imporre le proprie scelte e di servire ciò che Dio suscita nelle anime. In poche parole, l’amore per la legittima libertà dei figli di Dio, che trovano Cristo e sono resi portatori di Cristo, percorrendo strade diverse, ma tutte ugualmente divine.
Uno dei maggiori pericoli che minacciano oggi la Chiesa potrebbe essere proprio questo: non riconoscere le istanze divine della libertà cristiana, e sotto la spinta di falsi criteri di efficacia, pretendere di imporre ai cristiani un’azione uniforme. Alla radice di questi atteggiamenti c’è qualcosa di legittimo, anzi di lodevole: il desiderio che la Chiesa offra una testimonianza capace di scuotere il mondo moderno.
Ma temo proprio che questa non sia la strada giusta, perché da una parte induce a compromettere la Gerarchia nelle questioni temporali, cadendo in un clericalismo diverso da quello dei secoli scorsi, ma non meno funesto; e d’altra parte induce a isolare i laici, i comuni cristiani, dal mondo in cui vivono, per farli diventare porta-voci di decisioni o di idee concepite all’esterno di questo loro mondo.
Mi pare che a noi sacerdoti venga chiesta l’umiltà di imparare a non essere di moda; dobbiamo essere veramente servi dei servi di Dio – ricordando il grido di Giovanni Battista: Illum oportet crescere, me autem minui (Gv 3, 30), bisogna che Cristo cresca e che io diminuisca -, per far sì che i comuni cristiani, i laici, rendano presente Cristo in tutti gli ambienti della società. La missione di addottrinare, di aiutare a scoprire sempre meglio le esigenze personali e sociali del Vangelo, di indurre a riconoscere i segni dei tempi, è e sarà sempre uno dei compiti fondamentali del sacerdote.
Ma ogni funzione sacerdotale deve compiersi nel massimo rispetto della legittima libertà delle coscienze: chi deve rispondere liberamente a Dio è la singola persona. Del resto, qualsiasi cattolico, oltre all’aiuto da parte del sacerdote, ha anche delle ispirazioni personali che riceve da Dio, una grazia di stato che gli consente di portare a compimento la sua missione specifica di uomo e di cristiano. Chi ritiene che, per far sentire la voce di Cristo nel mondo di oggi, sia necessario che il clero parli o intervenga sempre, non ha ancora capito bene la dignità della vocazione divina di tutti e di ciascuno dei fedeli.
In questo quadro, qual è il compito che ha svolto e che intende svolgere l’Opus Dei? Quali rapporti di collaborazione mantengono i soci con altre organizzazioni che operano in questo campo?
Non spetta a me il giudizio storico su quello che l’Opus Dei ha realizzato, con la grazia di Dio. Posso solo affermare che la finalità cui tende l’Opus Dei è di favorire la ricerca della santità e l’esercizio dell’apostolato da parte dei cristiani che vivono in mezzo al mondo, qualunque sia il loro stato e la loro condizione.
L’Opera è nata per contribuire a far sì che questi cristiani inseriti nel tessuto connettivo della società civile – con la loro famiglia, gli amici, il lavoro professionale e le loro nobili aspirazioni – comprendano che la loro vita, così come è, può essere l’occasione di un incontro con Cristo, ed è pertanto una strada di santità e di apostolato. Cristo è presente in qualsiasi onesto impegno umano: la vita di un comune cristiano – che ad alcuni forse sembra una vita scialba e meschina – può e deve essere una vita santa e santificante.
In altri termini: per seguire Cristo, per servire la Chiesa, per aiutare gli altri a riconoscere il loro destino eterno, non è indispensabile abbandonare il mondo o allontanarsi da esso, e nemmeno c’è bisogno di dedicarsi a un’attività ecclesiastica; la condizione necessaria e sufficiente è di compiere la missione che Dio ha assegnato a ciascuno, nel luogo e nell’ambiente voluti dalla Sua Provvidenza.
E siccome la maggior parte dei cristiani riceve da Dio la missione di santificare il mondo dal di dentro, rimanendo in mezzo alle strutture temporali, l’Opus Dei si dedica a far loro scoprire questa missione divina, mostrando che la vocazione umana – vale a dire, la vocazione professionale, famigliare, sociale – non si oppone alla vocazione soprannaturale, ma anzi è parte integrante di essa.
L’Opus Dei ha come unica ed esclusiva missione la diffusione di questo messaggio – che è un messaggio evangelico – in mezzo a tutte le persone che vivono e lavorano nel mondo, in qualsiasi ambiente e professione. E a coloro che comprendono questo ideale di santità, l’Opera fornisce i mezzi spirituali e la formazione dottrinale, ascetica e apostolica necessaria per realizzarlo nella propria vita.
I soci dell’Opus Dei non agiscono in gruppo ma individualmente, con libertà e responsabilità personali. L’Opus Dei non è quindi un’organizzazione chiusa o che comunque raggruppi i suoi soci per isolarli dagli altri uomini. Le attività apostoliche collettive proprie dell’Opus Dei – che sono le uniche che l’Opera dirige e delle quali si rende responsabile – sono aperte a ogni tipo di persona, senza discriminazioni di alcun genere, né sociale, né culturale, né religiosa. E i soci, proprio perché devono santificarsi nel mondo, collaborano sempre con tutte le persone con cui sono in contatto attraverso il lavoro e la partecipazione alla vita civica.
Parte essenziale dello spirito cristiano è vivere non solo in unione con la Gerarchia ordinaria – Romano Pontefice ed Episcopato – ma anche sentendo l’unità con gli altri fratelli nella fede. Da molto tempo ho visto che una delle maggiori iatture della Chiesa ai nostri giorni è l’ignoranza che hanno molti cattolici della vita e delle opinioni dei cattolici degli altri Paesi e degli altri ambienti della società.
Bisogna far rivivere quella fraternità che i primi cristiani sentivano così profondamente. In tal modo ci sentiremo uniti, amando al tempo stesso la varietà delle vocazioni personali. E si eviteranno molti apprezzamenti ingiusti e offensivi che determinati gruppetti diffondono nell’opinione pubblica – in nome del cattolicesimo! – contro i loro fratelli nella fede che in realtà agiscono con rettitudine di intenzione e spirito di sacrificio, tenendo conto delle circostanze concrete del loro Paese.
È molto importante che ognuno si sforzi di essere fedele alla chiamata divina, perché solo così potrà contribuire al bene della Chiesa con il suo apporto specifico, in virtù del carisma ricevuto da Dio. Il compito proprio dei soci dell’Opus Dei – che sono dei comuni cristiani – è di santificare il mondo dal di dentro, partecipando alle più diverse attività umane. Dato che la loro appartenenza all’Opera non modifica in modo alcuno la loro situazione nel mondo, essi prendono parte, nel modo suggerito dalle diverse circostanze, alle celebrazioni religiose collettive, alla vita parrocchiale e così via. Anche sotto questo profilo essi sono dei comuni cittadini che vogliono essere dei buoni cattolici.
Ma in genere i soci dell’Opera non si dedicano ad attività confessionali; soltanto in casi eccezionali, dietro espressa richiesta della Gerarchia, qualcuno presta la propria collaborazione. E non bisogna credere che questo atteggiamento nasca dal desiderio di fare gli originali, e meno ancora dalla mancanza di considerazione per le attività confessionali; è semplicemente la conseguenza della necessità di occuparsi di ciò che è proprio della vocazione all’Opus Dei. Ci sono già molti religiosi e molti chierici, come anche molti zelanti laici, che si occupano di queste altre attività, dedicandovi i loro migliori sforzi.
Il lavoro proprio dei soci dell’Opera – il compito a cui si sanno chiamati da Dio – è diverso. Nell’ambito della vocazione universale alla santità, i soci dell’Opus Dei ricevono inoltre una vocazione specifica, che li induce a dedicarsi liberamente e responsabilmente alla – ricerca della santità e all’esercizio dell’apostolato in mezzo al mondo, impegnandosi a incarnare una spiritualità determinata e a ricevere, per tutta la vita, una formazione peculiare.
Se trascurassero il proprio lavoro nel mondo per occuparsi delle attività ecclesiastiche, renderebbero sterili i doni divini che hanno ricevuto; con l’illusione di un’efficacia pastorale immediata, arrecherebbero un danno effettivo alla Chiesa: perché non ci sarebbero tanti cristiani che si dedicano a santificarsi in tutte le professioni e i mestieri della società civile, nel campo sconfinato del lavoro secolare.
Oltretutto, la pressante necessità di una ininterrotta formazione professionale e di una seria formazione religiosa, contando anche il tempo che ognuno personalmente dedica alle pratiche di pietà, alla preghiera e al compimento sacrificato dei doveri di stato, occupa tutta la vita: non ci sono ore libere.
Sappiamo che all’Opus Dei appartengono uomini e donne di ogni condizione sociale, sia celibi che coniugati. Qual è l’elemento comune che caratterizza la vocazione all’Opera? Quali sono gli impegni che ciascuno assume per realizzare i fini dell’Opus Dei?
Posso dirlo in poche parole: cercare la santità in mezzo al mondo, nel bel mezzo della strada. Chi riceve da Dio la vocazione specifica all’Opus Dei, ha la convinzione, e la vive, che la santità deve raggiungerla nel proprio stato, nell’esercizio del proprio lavoro, in una professione liberale o in un mestiere manuale.
Ho detto che “ha la convinzione e la vive”, perché non si tratta di accettare un postulato teorico, ma di realizzare questo ideale giorno per giorno, nella vita ordinaria.
Impegnarsi a cercare la santità, malgrado gli errori e le miserie personali, vuoi dire impegnarsi, con la grazia di Dio, a praticare la carità, che è la pienezza della legge e il vincolo della perfezione. E la carità non è una cosa astratta; vuol dire dedizione reale e totale al servizio di Dio, e di tutti gli uomini; al servizio di Dio che ci parla nel silenzio della preghiera e nel frastuono del mondo, e al servizio degli uomini, la cui esistenza si intreccia con la nostra.
Praticando la carità – l’Amore – si attuano tutte le virtù umane e soprannaturali del cristiano, che formano un’unità e non possono ridursi a una enumerazione completa e definitiva. La carità richiede la pratica della giustizia, la solidarietà, la responsabilità famigliare e sociale, la povertà, la gioia, la castità, l’amicizia…
Si vede subito che la pratica di queste virtù conduce all’apostolato, anzi, è già di per sé apostolato: infatti, quando uno cerca di vivere così mentre svolge il suo lavoro quotidiano, la sua condotta cristiana diventa buon esempio, testimonianza, aiuto concreto ed efficace; si impara a seguire le orme di Cristo, il quale coepit facere et docere (At 1,1), cominciò a fare e a insegnare, unendo l’esempio alla parola. Così si spiega che, da quarant’anni, quest’apostolato lo chiamo “apostolato di amicizia e di confidenza”. Tutti i soci dell’Opus Dei hanno questo medesimo impegno di santità e di apostolato.
Per questo nell’Opera non ci sono gradi o categorie di soci, bensì una varietà di situazioni personali – le diverse situazioni che ciascuno ha nel mondo – alle quali si adatta perfettamente la stessa e unica vocazione specifica e divina: cioè la chiamata a una completa dedizione, a un impegno personale, libero e responsabile, nel compimento della volontà di Dio su ciascuno di noi.
Come si può vedere, il fenomeno pastorale dell’Opus Dei è qualcosa che nasce dalla base, cioè dalla vita ordinaria del cristiano che vive e lavora assieme agli altri uomini. Non si trova sulla linea di una mondanizzazione – dissacralizzazione – della vita monastica o religiosa; non è l’ultimo stadio del processo di avvicinamento dei religiosi al mondo.
Chi riceve la vocazione all’Opus Dei riceve una nuova visione delle cose che ha intorno a sé, luci nuove nei suoi rapporti sociali, nella sua professione, nelle sue preoccupazioni, nelle sue pene e nelle sue gioie. Ma nemmeno per un istante egli smette di vivere in mezzo a tutte queste cose; è quindi completamente fuori luogo parlare di adattamento al mondo o alla società moderna, perché nessuno si adatta a ciò che già possiede come cosa propria; nelle cose che formano il proprio mondo uno ci si trova naturalmente.
La vocazione che si riceve in questo modo è uguale a quella che sbocciava nell’animo di quei pescatori, contadini, commercianti o soldati che si sedevano attorno a Gesù in Galilea e lo sentivano dire: “Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cicli” (Mt 5, 48). Ripeto: questa santità – quella che cerca un socio dell’Opus Dei – è la santità propria del cristiano, senza altre aggiunte: quella cioè a cui è chiamato ogni cristiano, e che consiste nell’attuare integralmente le esigenze della fede.
Non ci interessa la perfezione evangelica, che è considerata propria dei religiosi e di alcune istituzioni assimilate ai religiosi; e meno che mai ci interessa la cosiddetta vita di perfezione evangelica, che si riferisce canonicamente allo stato religioso.
La strada della vocazione religiosa la considero benedetta e necessaria alla Chiesa, e chi non la stimasse non avrebbe lo spirito dell’Opera. Ma questa non è la mia strada, né la strada dei soci dell’Opus Dei. Si può ben dire che tutti e ciascuno di loro hanno aderito all’Opus Dei con la condizione espressa di non cambiare di stato; la nostra caratteristica specifica è appunto questa: ognuno vuole santificare il proprio stato nel mondo, e si vuole santificare nel luogo del suo incontro con Cristo. Questo è l’impegno che ogni socio assume per realizzare i fini propri dell’Opus Dei.
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