Lavoro e vita religiosa
Ben presto, nella vita del popolo cristiano, il lavoro non appare come un bene in sé, bensì come un mezzo ascetico che consente di combattere l’ozio, padre di tutti i vizi. Tale è il pensiero di sant’Atanasio e di Cassiano.
Infatti, acquista importanza la vita cenobitica. San Giovanni Crisostomo, che presta grande attenzione al lavoro, è, tra i Padri della Chiesa, l’ultimo dei grandi a parlare della santificazione della vita ordinaria nei termini che ritroveremo soltanto col Concilio Vaticano II. Dopo di lui si ha l’impressione che il cristiano comune non sia chiamato a vivere pienamente il Vangelo. Siamo nel quinto secolo.
Quanto all’apostolato, sembra che non faccia parte degli obblighi del cristiano. Nella regola di san Benedetto, più che il monaco è il monastero a esercitare l’apostolato.
L’apparizione degli ordini mendicanti esalta il ruolo della predicazione, che viene portata di città in città. Ma questa non mette l’accento sul valore del lavoro professionale. Al contrario sembra che se ne allontani più che mai. In realtà, il lavoro manuale eseguito nel chiostro aveva una certa somiglianza materiale con il lavoro eseguito nel mondo; proporre la santificazione di questo lavoro era dunque teoricamente possibile. Ma la polemica che oppose nel XIII secolo gli ordini mendicanti al clero secolare, come pure ai rappresentanti di certe istituzioni monastiche, condusse i primi a difendere la possibilità di santificarsi senza lavorare: per guadagnarsi da vivere poteva bastare l’elemosina.
I teologi degli ordini mendicanti non portano le loro riflessioni su quella fondamentale dimensione dell’uomo che è il lavoro: essi affermano il carattere non obbligatorio del lavoro manuale. San Tommaso considera le occupazioni secolari come un ostacolo alla contemplazione. San Bonaventura e vari altri sostengono opinioni analoghe.
Altre istituzioni, più direttamente impegnate nel mondo (ordini cavallereschi e confraternite medievali), non appaiono dotate di preparazione ascetica e dottrinale capace di favorire la consapevolezza del bisogno di santificare il lavoro.
Nei secoli successivi permane il disinteresse per il lavoro. L’autore dell’Imitazione di Cristo giudica il lavoro in modo ancor più negativo dei Padri del deserto. L’opposizione che costoro vedevano tra ozio e lavoro subisce una distorsione per il fatto che il lavoro è ora inteso nel senso restrittivo di sforzo legato alla lotta ascetica. Tale è la concezione di Cisneros nel suo Esercitatorio e di sant’Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi spirituali che si ispirano largamente al primo.
Nel Rinascimento si accenna una certa evoluzione positiva grazie a uomini come san Tommaso Moro e Erasmo. Ma è un fuoco di paglia. Nel XVI secolo, la scissione luterana da Roma, che porta alla nascita del protestantesimo, ritarderà la scoperta del valore santificante del lavoro. Vi si oppongono decisamente la concezione protestante del peccato originale come corruzione radicale della natura umana, e il rifiuto di attribuire alle opere umane, anche se compiute in stato di grazia, qualsiasi utilità salvifica.
L’altro grande sconvolgimento del XVI secolo, la scoperta di nuovi popoli da evangelizzare, avrebbe potuto favorire l’adeguamento del sacerdozio e della vita di perfezione alle esigenze di un apostolato più efficace e più consono alle necessità del momento.
Tuttavia, la teologia cattolica del Rinascimento e dell’epoca barocca è in parte contaminata dalle idee di un’aristocrazia che disprezza il lavoro manuale e da un moralismo gretto e mal ispirato. Essa teme anche gli eccessi, specialmente quelli del misticismo, e proclama, con Melchor Cano, che i laici non possono aspirare ai vertici della perfezione cristiana. Il gesuita Francisco Suarez elabora la teoria degli stati, secondo la quale i religiosi e i vescovi – e per analogia i sacerdoti – sono, per vocazione, in stato di perfezione acquisita, ovvero da partecipare agli altri, mentre il semplice fedele è impotente a stabilirsi in un grado determinato di perfezione. Questa teoria condizionerà nel futuro in forma rigida il modo di ravvisare coloro che sono chiamati alla santità.
Nel XVII secolo si intravvede una reazione, volta a guidare i comuni fedeli per i sentieri della preghiera. San Francesco di Sales è il più illustre rappresentante di questa tendenza; tuttavia si limita, il più delle volte, a proporre ai laici, con gli opportuni adattamenti, i mezzi di santificazione che utilizzano i religiosi.
D’altronde, la teologia spirituale dell’epoca presenta sovente, come espressione del lavoro umano, le attività ecclesiastiche volte a un fine soprannaturale. Le attività secolari, invece, sono considerate poco idonee a condurre alla santità.
Dopo la Rivoluzione francese, la spiritualità dei religiosi evolve verso una maggiore presenza nel mondo e una più viva attenzione a tutte le attività temporali, e non più solo al lavoro manuale. Malgrado ciò, il distacco dal mondo rimane un atteggiamento fondamentale: si tratta di vivere “come” gli altri, di “andare verso” il mondo, di “avvicinarsi” o di “unirsi” a coloro che lavorano, ecc. D’altra parte, le istituzioni religiose di nuova fondazione continuano a porre il centro della vita spirituale fuori dal mondo. Lo stesso apostolato è visto come una presenza che, venuta dall’esterno, si sovrappone alla presenza nel mondo.
Pertanto, all’epoca in cui nasce l’Opus Dei, i laici cristiani si sentono ordinariamente divisi tra il desiderio di santificarsi, desiderio che sembra implicare il distacco dal mondo, e la preoccupazione di permanere nel mondo a motivo dei doveri familiari e professionali.
Taluni si orientano verso una vita di devozioni e di opere di carità tendente a imitare, “nei limiti delle proprie possibilità”, lo stato dei religiosi nella loro vita di perfezione evangelica. Ne derivano tre conseguenze: a) l’aspirazione alla santità esigeva che i momenti di raccoglimento venissero cercati al margine delle attività quotidiane; b) questo fatto supponeva una concezione della santità laicale come radicalmente minore rispetto alla santità maggiore dei religiosi; c) essendo la virtù di religione, secondo san Tommaso, una virtù naturale, una spiritualità di questo tipo non inseriva il laico, come tale, nella vita soprannaturale. Cercando di “collezionare” atti religiosi, virtuosi e caritativi, volgendo le spalle agli impegni quotidiani, il “devoto” secolare considerava spesso il lavoro e i doveri di stato come un intralcio alla sua santificazione.
Per altri, la santità dei laici aveva un carattere essenzialmente morale, e si raggiungeva impregnando di bontà ogni cosa: essere buon padre di famìglia, compiere bene i propri doveri coniugali, lavorare bene, avere una condotta retta, ecc. Ma era sempre come restare a un livello naturale, con il rischio – reale – di deviare verso il santo laico – magari ateo – che si accontenta di essere “irreprensibile”, senza preoccuparsi della chiamata alla santità (3).
Note
(3) Cfr. Giambattista Torello, La spiritualità dei laici, in “Studi cattolici”, n. 45 (1964) p. 17-26.
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