Figlio della Chiesa
Il decreto sull’eroicità delle virtù vissute da mons. Josemaria Escrivà, promulgato da Giovanni Paolo II il 9 aprile 1990, colloca la figura del fondatore dell’Opus Dei in un preciso contesto ecclesiale: la proclamazione della vocazione di tutti i battezzati alla santità viene richiamata, con parole di Paolo VI, come «l’elemento più caratteristico del Magistero conciliare e, per così dire, il suo fine ultimo», e mons. Escrivà — che a quella proclamazione dedicò tutte le sue energie dal 2 ottobre 1928 — viene posto «in coincidenza profetica con il Concilio Vaticano II». Del resto l’amore per la Chiesa e la volontà di servirla promanano da tutti i suoi scritti, dalla predicazione e dalla vita stessa del fondatore. Vorrei chiederle: come esprimeva, soggettivamente, mons. Escrivà, la sua dedizione di figlio della Chiesa?
Conservo, incancellabile, il ricordo dell’arrivo a Roma del Padre. Era il 23 giugno 1946. Il Padre aveva 44 anni. Io ero a Roma dal febbraio di quell’anno, perché il fondatore mi aveva incaricato di avviare le pratiche per l’approvazione pontificia dell’Opera. Poiché le caratteristiche dell’Opus Dei rappresentavano una completa novità nel Diritto canonico vigente, lavorai nella misura delle mie possibilità seguendo le precise indicazioni del fondatore. Mi dissero, tra l’altro, che ancora non era possibile ottenere l’approvazione dell’Opus Dei: eravamo nati — questa fu l’espressione letterale — con un secolo d’anticipo. Essendomi imbattuto in difficoltà così grandi, apparentemente insuperabili, decisi di scrivere al Padre per fargli presente la necessità della sua presenza a Roma.
Benché in quel periodo egli patisse una gravissima forma di diabete, al punto che il medico curante, prof. Rof, aveva declinato ogni responsabilità sulla vita del Padre qualora avesse intrapreso il viaggio, il 21 giugno il Padre si imbarcò a Barcellona sul vecchio piroscafo J.J. Sister, dopo aver chiesto il parere degli altri membri del Consiglio generale dell’Opus Dei ed essersi affidato alla Madonna della Mercede.
Dopo un viaggio tremendo, a causa di una tempesta del tutto insolita nel Mediterraneo, la nave attraccò nel porto di Genova il 22 giugno, poco prima di mezzanotte. Andai da Roma ad attenderlo, assieme a un altro membro dell’Opus Dei, l’avv. Salvador Canals. Prima eravamo passati da un modesto albergo per prenotare le stanze. Ricordo che lì Salvador e io consumammo una cena molto frugale: ci trovavamo in pieno dopoguerra; come dessert ci servirono una porzione di parmigiano. Io non conoscevo questo tipo di formaggio; lo assaggiai e mi parve molto buono, sicché lo conservai per il nostro fondatore. Non potevo sapere che quello sarebbe stato per lui il primo cibo dopo quarantotto ore. Il Padre mi prese sempre affettuosamente in giro per quel piccolo regalo.
L’indomani il fondatore celebrò la sua prima Messa in terra italiana, in una chiesa molto danneggiata dai bombardamenti. Il viaggio verso Roma, in una piccola automobile noleggiata e lungo le strade rovinate dalla guerra, fu interminabile e scomodo. Ma il Padre era pieno di gioia e non si lamentava: era emozionato perché finalmente si sarebbe compiuta una delle sue più grandi aspirazioni: videre Petrum. Durante tutto il percorso pregò moltissimo per il Papa.
Sul fare della sera del 23 giugno arrivammo a Roma. Nello scorgere per la prima volta la cupola di San Pietro dalla via Aurelia, recitò molto commosso un Credo. Avevamo preso in subaffitto alcune stanze di un appartamento all’ultimo piano di un edificio in piazza della Città Leonina, n. 9, e lì vi era una terrazza dalla quale si vedevano la Basilica di San Pietro e il Palazzo Pontificio. Nell’affacciarsi a questa terrazza e nel contemplare le stanze occupate dal Vicario di Cristo, il Padre espresse il desiderio di rimanere lì per un po’, raccolto in preghiera, mentre gli altri, spossati da un viaggio così faticoso, si ritiravano a riposare. Spinto dall’amore per il Papa e commosso dal trovarsi così vicino alle sue stanze, il Padre rimase su quella terrazza per tutta la notte a pregare, senza dare peso alla stanchezza del viaggio né al suo stato di salute, né alla sete intensa causatagli dalla malattia, né ai fastidi sofferti durante la traversata in nave.
Questo episodio può dare un’idea dell’intensità con cui il fondatore amava la Chiesa e il Papa. E tuttavia, nonostante il grande desiderio — l’ansia, quasi — di recarsi a pregare sulla tomba di san Pietro, il Padre attese alcuni giorni prima di varcare la soglia del Tempio della cristianità: a tanto giungeva il suo spirito di mortificazione.
Alla fine di quello stesso mese, esattamente il 30 giugno, il Padre potè scrivere ai suoi figli del Consiglio generale, che a quel tempo risiedeva ancora in Spagna: «Ho un autografo del Santo Padre per “il fondatore della Società Sacerdotale della Santa Croce e dell’Opus Dei”. Che grande gioia! L’ho baciato mille volte. Viviamo all’ombra di San Pietro, accanto al colonnato».
Il 31 agosto dello stesso anno il fondatore fu in grado di ritornare a Madrid con un documento della Santa Sede, detto di lode dei fini, che non veniva rilasciato da quasi un secolo. Le difficoltà cominciavano a essere superate.
Il 21 ottobre 1946, partendo ancora da Barcellona per ringraziare la Madonna della Mercede, mons. Escrivà ritornò definitivamente a Roma, che rimase la sua residenza abituale per quasi trent’anni, fino al giorno in cui Dio lo chiamò a sé.
Prima di procedere, mi consenta un piccolo chiarimento lessicale. Lei nomina mons. Josemaria Escrivà come «il fondatore» o come «il Padre». Ma questo dolcissimo appellativo famigliare adesso compete a lei, perché il fondatore — che voleva essere chiamato, e chiamavamo, Padre — l’ha tramandato a tutti i suoi successori. Quando, a partire dal 15 settembre 1975, abbiamo incominciato a rivolgerci a lei come «Padre», si è prodotta un po’ di confusione, perché «Padre» era il fondatore, «Padre» il suo primo successore. «Benedetta confusione», ha commentato lei stesso, perché testimonia la profonda unità nella continuità dell’ Opera. Quasi subito, e spontaneamente, si è fatta strada questa tacita convenzione: chiamiamo «nostro Padre» il fondatore, e «Padre» il prelato dell’Opus Dei. Questo dico perché quando lei parla del «Padre» non è possibile alcuna confusione, ma anch’ io voglio nominare il fondatore come «nostro Padre», e non voglio privarmi della gioia di rivolgermi a lei come «Padre».
Ma torniamo al nostro argomento. Nostro Padre fu accolto con benevolenza nella Curia romana, soprattutto da parte dell’allora Sostituto della Segreterìa di Stato, mons. Montini, ma conobbe anche le debolezze degli uomini di Chiesa. Qualche volta disse dì aver perso la sua innocenza proprio arrivando a Roma…
Le sue reazioni furono tuttavia sempre improntate a una profonda visione soprannaturale. Per esempio, prese la consuetudine di recarsi con frequenza in piazza San Pietro per recitare il Credo accanto alla tomba del Principe degli Apostoli e alla residenza del Papa; usava la formula insegnargli da piccolo dalla madre e quando arrivava alle parole «credo la santa Chiesa cattolica», aggiungeva l’aggettivo romana e poi l’inciso: malgrado tutto. Una volta lo confidò, in mia presenza, a monsignor Tardini, non ricordo se era già stato nominalo Cardinale Segretario di Stato; e il prelato gli domandò: «Che cosa vuol dire “malgrado tutto”?». Il Padre rispose: «Malgrado i miei peccati e i Suoi». Non voleva ovviamente offendere monsignor Tardini; ma siccome nessun uomo è esente dal peccato e il giusto cade sette volte al giorno, il nostro fondatore avvertiva l’esigenza che i collaboratori del Papa fossero molto santi e pieni di Spirito Santo, affinchè anche nel resto della Chiesa vi fosse più santità. Non ammetteva né giustificava la falsa umiltà di alcuni ecclesiastici sempre inclini a un’autocritica della Chiesa: la Chiesa — come ripeteva spesso — è senza macchia, perché è la Sposa di Cristo. Questo atteggiamento di meaculpismo, come ebbe a definirlo, lo addolorava: non ammetteva che il riconoscimento delle debolezze degli uomini offuscasse la fede nell’obiettiva santità della Chiesa.
Nostro Padre ha conosciuto tre Papi. Quali furono i suoi rapporti con Pio XII?
Il Santo Padre Pio XII ricevette più volte in udienza il Padre e dimostrò la propria stima verso l’Opera concedendo le prime due approvazioni pontificie: il Decretum laudis del 1947 e l’approvazione definitiva del 1950. Per dimostrargli il proprio affetto, il nostro fondatore non esitava a offrire al Papa anche regali assai semplici: per esempio, una volta gli portò delle arance che aveva ricevuto dalla Spagna, dato che a quell’epoca non avevamo neppure i soldi per comprarci da mangiare a Roma; un’altra volta, avendo saputo che al Santo Padre piaceva un determinato vino spagnolo, se ne fece mandare una certa quantità e glielo donò.
C’è un episodio assai sintomatico dell’affetto del Padre per il Sommo Pontefice. Durante un’udienza, a un certo punto egli volle baciare i piedi di Pio XII. Il Papa gli permise di baciarne uno, ma non volle che gli baciasse l’altro. Allora il Padre insistè filialmente rammentando al Santo Padre che egli era aragonese e, se tutti gli aragonesi sono cocciuti, in lui questa caratteristica era particolarmente sviluppata.
In più occasioni Pio XII espresse il suo apprezzamento per il fondatore dell’Opus Dei. Al card. Gilroy e al suo ausiliare confidò: «È un vero santo, un uomo mandato da Dio per i nostri tempi». È stato lo stesso ausiliare, mons. Thomas Muldoon, dopo la morte del Padre, a consegnare questo ricordo in una testimonianza scritta.
In un’intervista giornalistica (Colloqui, n. 229) nostro Padre stesso ricordò che, incoraggiato dal fascino affabile e paterno di Giovanni XXIII, una volta gli disse: «Padre Santo, nella nostra Opera tutti gli uomini, siano o no cattolici, hanno sempre trovato accoglienza: non ho imparato l’ecumenismo da Vostra Santità». E il Papa rise commosso, perché sapeva che, fin dal 1950, la Santa Sede aveva autorizzato l’Opus Dei ad accogliere come cooperatori i non cattolici e perfino i non cristiani.
L’episodio avvenne proprio nella prima udienza che Giovanni XXIII accordò al fondatore, il 5 marzo 1960. Il Santo Padre era così semplice e affabile, che stimolava confidenze anche poco protocollari nei suoi interlocutori. Del resto, nostro Padre, nelle udienze papali, anche nei casi in cui doveva trattare questioni di particolare importanza, non mancava mai di raccontare dei fatti che avrebbero potuto rallegrare il Papa. Ricordo che, pochi giorni dopo il suo arrivo a Roma, fu ricevuto da mons. Montini, allora Sostituto della Segreteria di Stato. Il nostro fondatore gli parlò a lungo dell’Opera e gli raccontò alcuni episodi dell’apostolato dei suoi figli. Mons. Montini assicurò che li avrebbe riferiti subito al Santo Padre: «Qui giungono solamente pene e dolori, e il Papa sarà molto contento quando verrà a conoscenza di tutte le cose buone che voi state vivendo».
Al termine di quella prima udienza, Giovanni XXIII confidò che le spiegazioni del Padre sullo spirito dell’Opera gli avevano aperto «orizzonti insospettati di apostolato».
Non assistei all’udienza privata concessa da Giovanni XXIII il 27 giugno 1962. Lo accompagnò don Javier Echevarrìa, ma non fu presente al colloquio: fu una conversazione a tu per tu fra il Papa e il fondatore dell’Opus Dei. So che parlarono a lungo sullo spirito e l’attività dell’Opera nel mondo e pochi giorni dopo, vale a dire il 12 luglio 1962, il Padre scrisse una lettera ai suoi figli del mondo intero chiedendo loro di unirsi alla riconoscenza che egli sentiva di dovere a Giovanni XXIII per avergli offerto ancora una volta l’onore e la gioia di videre Petrum. Debbo aggiungere che il nostro fondatore mi parlò più volte, con accenti di grande ammirazione, delle virtù sacerdotali di Papa Roncalli.
Durante la dolorosa malattia di Giovanni XXIII, mons. Angelo Dell’Acqua raccontò al Padre, con cui era in grande confidenza, alcuni particolari di come si prendeva cura del Pontefice: per esempio, quando stava al suo capezzale, il Papa gli prendeva la mano e se accennava ad andarsene e a lasciare la stretta, esclamava: «Angelino, non mi lasciare!». Il Padre si rattristava al pensiero della solitudine in cui si trovano i Papi e ringraziò di tutto cuore mons. Dell’Acqua che con i più intimi collaboratori della famiglia pontificia stava assistendo con affetto Giovanni XXIII ormai agonizzante.
Già dagli accenni precedenti si intuisce che la stima di Paolo VI per l’Opus Dei e il suo fondatore datavano da prima della sua elevazione al pontificato.
Basti ricordare che, una volta ottenuta l’approvazione pontificia dell’Opus Dei, ritenni opportuno chiedere alla Santa Sede, in qualità di Procuratore generale e a nome del Consiglio generale dell’Opera, la nomina di Prelato domestico per il fondatore. L’allora mons. Montini non solo approvò la mia iniziativa, ma la fece propria. Eravamo all’inizio del 1947.
Ben conoscendo l’umiltà del Padre, avviai le pratiche senza informarlo previamente. Nella primavera di quell’anno arrivò la lettera di mons. Montini con il documento di nomina del fondatore dell’Opus Dei a Prelato domestico; era datato 22 aprile 1947. Mons. Montini esprimeva la sua lode per l’Opus Dei e per il suo fondatore e aggiungeva che l’Opera era una speranza per la Chiesa.
Il Padre ne fu molto grato, ma mi disse che non voleva accettare e che pensava di restituire con tutta la sua gratitudine il documento di nomina a mons. Montini e di spiegargli che non desiderava alcuna onorificenza. Don Salvador Canals e io lo pregammo di non farlo, e l’argomento decisivo fu che con tale nomina si dimostrava in modo ancor più patente la secolarità dell’Opus Dei. Allora cambiò parere e scrisse una lettera al Sostituto della Segreteria di Stato esprimendo i propri sentimenti di gratitudine per quella prova di affetto del Santo Padre e sua. In seguito venimmo a sapere che mons. Montini aveva avuto anche la delicatezza di pagare di tasca propria la tassa per la nomina.
Ho potuto costatare in modo particolarissimo l’affetto di Paolo VI per il Padre quando fui da lui ricevuto dopo essere stato chiamato a succedere al fondatore. Paolo VI mi parlò con ammirazione del Padre ed espresse la convinzione che fosse un santo. Mi confermò che già da molti anni leggeva ogni giorno Cammino, con grande beneficio della sua anima, e mi domandò a che età il nostro fondatore lo aveva pubblicato. Risposi che lo aveva dato alle stampe a trentasette anni, ma precisai che il nucleo del libro era già comparso nel 1934 con il titolo di Consideraciones espirituales ed era stato scritto un paio d’anni prima, all’età cioè di circa trent’anni. Il Santo Padre rimase pensoso per un attimo, poi osservò: «Allora lo ha scritto nella maturità della giovinezza».
Ho ancora ben vivo nella memoria il ricordo della visita di Paolo VI al Centro Elis, il 21 novembre 1965, giorno dell’ inaugurazione. Il grandioso complesso che sorge nel popolare quartiere romano del Tiburtino era nato da un’ iniziativa di Giovanni XXIII che aveva deciso di destinare alla creazione di un’opera sociale in Roma la somma raccolta fra i cattolici di tutto il mondo in occasione dell’ ottantesimo Compleanno di Pio XII, affidandone il progetto, la realizzazione e la gestione all’Opus Dei. Ne scaturì una struttura polivalente, composta da una Residenza per studenti-lavoratori, da un Centro di formazione professionale con vari corsi di specializzazione tecnica e artigianale, da una biblioteca, da un Centro sportivo, da una Scuola alberghiera con annesse attività di promozione della donna. Accanto all’Elis sorge la chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista al Collatino, affidata a sacerdoti dell’Opus Dei.
Il Papa si trattenne ben oltre il tempo previsto per la visita. Celebrò la santa Messa, benedisse una statua della Madonna destinata all’Università di Navarra, e visitò dettagliatamente i locali del Centro. Al termine abbracciò il nostro fondatore e, visibilmente commosso, esclamò: «Qui tutto è Opus Dei». Fu un segno di grande considerazione per l’Opera e per il Padre, tanto più che a quel tempo le visite pontificie erano rarissime, e Paolo VI volle che l’inaugurazione dell’ Elis fosse fissata durante la fase conclusiva del Vaticano II per consentire l’intervento di molti padri conciliari alla cerimonia, come infatti avvenne. Qual è stato l’ultimo incontro del fondatore con Paolo VI?
Avvenne il 25 giugno 1973, ed ebbe caratteristiche singolari, indimenticabil. Il Padre parlò al Papa di argomenti molto soprannaturali, lo aggiornò sullo sviluppo dell’Opera, sui frutti concessi dal Signore in tutto il mondo. Paolo VI se ne rallegrò molto e a volte lo interrompeva per lasciarsi andare a qualche elogio o semplicemente per esclamare: «Lei è un santo». Lo so perché al termine dell’udienza vidi che il Padre aveva un aspetto piuttosto pensoso, quasi triste; gliene domandai il motivo, ma sulle prime non volle rispondermi. Poi mi raccontò che il Papa gli aveva detto quelle parole ed egli si era colmato di vergogna e di dolore per i propri peccati, giungendo persino a protestare: «No, no. Vostra Santità non mi conosce; io sono un povero peccatore». Ma il Papa aveva insistito: «No, no, Lei è un santo». Allora il fondatore aveva replicato, pieno di emozione: «Sulla terra non c’è che un santo: il Santo Padre».
Del resto mons. Carlo Colombo, teologo di fiducia e amico personale di Paolo VI, ha testimoniato che il Santo Padre lo incoraggiò a scrivere la lettera postulatoria per l’apertura del processo di beatificazione del fondatore dell’Opus Dei. Ecco le sue parole: «Nel corso di un incontro con Paolo VI, dove furono trattati diversi argomenti, ebbi modo di esprimere al Pontefice la mia intenzione di rivolgerGli una lettera postulatoria per l’inizio del processo canonico che introducesse la causa di mons. Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei. Sentivo il dovere di far sapere al Pontefice perché avevo intenzione di rivolgerGli una lettera postulatoria che non avrei potuto scrivere se non avessi avuto personalmente motivi seri che mi inducessero a farlo. Data la grande confidenza di cui godevo presso il Papa, non potevo permettermi di deludere la Sua fiducia. Paolo VI mi diede il Suo pieno assenso e approvazione, data la grande stima che aveva per il Servo di Dio, di cui conosceva il desiderio di bene che lo guidava, l’amore fervente alla Chiesa e al suo Capo visibile, lo zelo ardente per le anime».
Ero presente, con un gruppo di membri dell’Opus Dei di diversi Paesi, il 19 agosto 1979 alla Messa che Giovanni Paolo II celebrò per noi, pronunciando l’indimenticabile omelia in cui disse, fra l’altro: «Grande ideale, veramente, il vostro, che fin dagli inizi ha anticipato quella teologia del laicato, che caratterizzò poi la Chiesa del Concilio e del post-Concilio». Sentire dalla viva voce del successore di Pietro questo elogio della nostra spiritualità e del nostro essere Chiesa commosse me e tutti i presenti, e internamente abbiamo rivolto quell’elogio al nostro fondatore che purtroppo non ebbe l’opportunità di incontrare il futuro Giovanni Paolo lI, un Papa che ha legato il suo nome alla storia dell’ Opera.
Nostro Padre è dunque considerato un precursore del Concilio Vaticano II, eppure non partecipò di persona al Concilio.
Il Padre fu molto contento per l’indizione del Concilio Vaticano II e non appena Giovanni XXIII ne diede l’annuncio, subito gli fece pervenire una lettera piena di gratitudine. Prevedeva, fra l’altro, che il Concilio avrebbe colmato la lacuna teologica sul ruolo dei laici nella Chiesa, come infatti avvenne.
Previde che lo avrebbero potuto convocare in qualità di Presidente generale di un Istituto secolare, tale essendo, a quel tempo, la configurazione giuridica dell’Opus Dei: in tal caso avrebbe dovuto partecipare in qualità di Padre conciliare alla stregua di altri Superiori di istituzioni incluse nello stato di perfezione. Perciò, malgrado desiderasse vivamente intervenire di persona nelle riunioni conciliari, non ritenne conveniente prendervi parte nella veste di Presidente di un Istituto secolare: infatti ciò avrebbe potuto significare, se non l’accettazione di uno status giuridico inadeguato alla natura dell’Opera, almeno un dato di fatto che costituiva pur sempre un precedente poco favorevole per la futura revisione dell’inquadramente giuridico dell’Opus Dei. Spiegò quindi alla Curia per quali motivi non considerava prudente partecipare al Concilio e la sua decisione fu compresa immediatamente.
In seguito, fu invitato a intervenire come perito del Concilio da mons. Loris Capovilla, fattosi interprete del desiderio del Santo Padre Giovanni XXIII. Il fondatore reiterò ancora una volta la propria disponibilità totale e incondizionata, ma, dopo aver ringraziato dell’invito, illustrò le ragioni per cui avrebbe preferito non accettare, rimettendosi comunque alla decisione del Papa. Ecco, in sintesi, tali ragioni: da un lato, non avrebbe potuto dedicare tutto il tempo necessario allo svolgimento di questo compito. E, dall’altro, diversi figli suoi vescovi erano Padri conciliari e sarebbe sembrato strano che lui intervenisse come semplice perito: non si trattava certo di un atteggiamento di superbia, ma del desiderio di evitare malintesi che avrebbero messo in cattiva luce la Santa Sede. Siccome era noto che il fondatore aveva declinato la nomina a Padre conciliare, se avesse accettato quella di perito qualcuno avrebbe potuto pensare che volesse muoversi dietro le quinte o con sotterfugi. Mentre coloro che non erano al corrente della situazione avrebbero supposto che non veniva attribuita all’Opus Dei alcuna importanza ecclesiale.
Invece, il nostro fondatore offrì alle autorità ecclesiastiche competenti la collaborazione di tutta l’Opera e di tutti i suoi membri, molti dei quali, in effetti, parteciparono alla preparazione e allo svolgimento del Concilio.
Per quanto mi riguarda, mi esortò ad accettare le varie nomine nelle diverse Commissioni del Concilio e a dedicarvi tutto il mio impegno. All’apertura dei lavori venni nominato perito conciliare; Segretario della Commissione per la Disciplina del clero e del popolo cristiano, all’interno della quale ebbi l’obbligo di intervenire molto attivamente…
È la Commissione che elaborò il decreto Presbyterorum ordinis…
Esatto. Inoltre fui nominato consultore di altre tre Commissioni conciliari (per i vescovi e il regime delle diocesi; per i religiosi; per la Dottrina della fede; nonché consultore della Commissione mista per le associazioni di fedeli), e consultore della Commissione per la revisione del Codice di Diritto canonico. Concluse le attività dell’Assemblea Ecumenica, ricevetti la nomina a consultore della Commissione postconciliare per i vescovi e il governo delle diocesi.
Durante lo svolgimento delle sessioni conciliari, accanto ai risultati positivi e ispirati che sarebbero stati condensati nei documenti definitivi, si verificarono malumori e confusioni, spesso amplificati dai giornali. Se ne lamentarono gli stessi Giovanni XXIII e Paolo VI, e mons. Dell’Acqua lo confidò al nostro fondatore. Bisogna precisare che la fiducia accordata da questo prelato al nostro fondatore — di cui è chiara prova la corrispondenza risalente a quel periodo — non era semplicemente frutto dell’intimo legame d’amicizia che li univa, ma era il Santo Padre a incoraggiare il Sostituto della Segreteria di Stato in tal senso: in questo modo fu stabilito un canale di comunicazione sempre aperto e diretto tra il Papa e il nostro fondatore.
Nei tre anni del Concilio, senza contare il periodo preparatorio, il nostro fondatore si incontrò con molti Padri conciliari, periti, ecc. A volte li invitava a pranzo nella nostra sede centrale; altre volte era lui ad andarli a trovare nelle case in cui avevano preso alloggio, quasi sempre per ricambiare la loro visita. Vi erano giorni in cui riceveva più di mezza dozzina di queste visite e non era per nulla facile sottrarre alle sue mansioni di governo dell’Opera il tempo necessario per accogliere nel modo dovuto i vari cardinali, arcivescovi, vescovi, nunzi, teologi, ecc.
Io presenziai a molti di questi colloqui e ho potuto osservare con quanta semplicità e affabilità il Padre trattava coloro che venivano a trovarlo. Per esempio, mons. François Marty, allora arcivescovo di Reims, prima di diventare cardinale arcivescovo di Parigi, ebbe a scrivere: «All’epoca del Concilio Vaticano II ebbi l’occasione di incontrarmi a più riprese con mons. Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei. In seguito a quelle conversazioni conservo il ricordo di un uomo che parlava solamente di Dio. Un momento di colloquio con lui sembrava come un momento di preghiera. Ma tutto ciò non toglieva nulla al suo buon umore, al suo senso soprannaturale, alla sua carità piena d’affetto».
Anche mons. Abilio del Campo, vescovo di Calahorra, ha lasciato questa testimonianza: «Credo sinceramente che Josemaria abbia contribuito in modo decisivo a chiarificare dottrinalmente molti punti sui quali le luci che egli aveva ricevuto da Dio e la sua straordinaria esperienza pastorale nel mondo del lavoro erano quasi insostituibili. Furono molti i Padri conciliari che, avvalendosi della sua amicizia, poterono raccogliere i suoi appropriati consigli».
Immagino che alcuni di questi consigli riguardassero anche la difesa dell’ortodossia cattolica, in quel periodo in cui un malinteso «spirito conciliare» seminava parecchia confusione…
È significativa la testimonianza di mons. Giacomo Barabino, allora segretario del card. Siri e oggi vescovo di Ventimiglia, che ha dichiarato: «La difesa dell’ortodossia non nasceva in lui da spirito di conservazione, da chiusura mentale o rigidità di carattere. C’era un’evidente preoccupazione di salvare l’ortodossia e le strutture vitali, divine, della Chiesa; ma era altrettanto evidente il suo spirito aperto e innovativo: sentirlo parlare di come fosse necessario assecondare, ciascuno al proprio posto e nella fedeltà al proprio carisma nella Chiesa, la corrente santificatrice diffusa dallo Spirito Santo nel Popolo di Dio, in ogni fedele chiamato alla pienezza della vita cristiana, era davvero entusiasmante. In tale sua coraggiosa apertura, egli metteva in risalto la missionarietà della Chiesa in tutti gli ambienti, anche nei più difficili. Per lui si trattava di una realtà quotidianamente vissuta: era la coerenza con l’idea fondamentale da cui era partito e cioè quella della vocazione universale alla santità, idea in forza della quale egli si adeguava continuamente, con un’elasticità davvero ammirevole, alle esigenze del tempo e della incarnazione della Chiesa».
Dev’essere stata grande l’emozione di nostro Padre nel vedere confermata dal Concilio e diventare patrimonio di tutta la Chiesa l’intuizione che il Signore gli aveva affidato il 2 ottobre 1928…
In effetti, poco dopo la chiusura del Concilio, l’ho più volte sentito ripetere: «Figli miei, al termine di questo Concilio dobbiamo essere contenti. Trent’anni fa alcuni mi accusarono di essere eretico, perché predicavo aspetti del nostro spirito che adesso sono stati proclamati in modo solenne dal Concilio». E in un’intervista rilasciata all’Osservatore della Domenica, nel 1968, ebbe a dichiarare: «Una delle mie maggiori gioie è stata appunto vedere come il Concilio Vaticano II ha proclamato con grande chiarezza la vocazione divina del laicato. Senza ombra di presunzione, devo dire che, per quanto si riferisce alla nostra spiritualità, il Concilio non ha significato un invito a cambiare, ma ha invece confermato ciò che — per la grazia di Dio — stavamo vivendo e insegnando da tanti anni a questa parte. La principale caratteristica dell’Opus Dei non sono delle tecniche e dei metodi di apostolato, e nemmeno delle strutture determinate, bensì una spiritualità che conduce appunto alla santificazione del lavoro ordinario» (Colloqui, n. 72).
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