La felicità esiste e Pippo Corigliano ne è stato la prova
In morte dell’ex portavoce dell’Opus Dei, cristiano convinto e convincente, amico fedele, tempista vero. Ci lascia la testimonianza che la fede è realmente «il cento per uno»
Con Pippo Corigliano questo mondo perde un pezzo importante di felicità. “Perde” per la verità andrebbe scritto tra virgolette perché c’è la comunione dei santi, come ci ricorderebbe lui stesso, e ora che Pippo è in Paradiso la sua felicità appartiene un po’ a tutta la Chiesa. E noi qui a Tempi dobbiamo per forza crederci, perché questa immortale comunione di sentimenti e di pensieri l’abbiamo vista accadere con i nostri occhi proprio tra Pippo e il suo amico più caro, san Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei.
Felicità, invece, non va tra virgolette nel caso di Pippo Corigliano, perché se mai è esistito su questa Terra un uomo che fosse effettivamente il ritratto dell’allegria, della positività, di una resilienza non sciocca ma piena di ragioni davanti a qualunque intemperie della vita, quest’uomo era lui. Se n’è andato inaspettatamente la sera di sabato 8 giugno a 82 anni, il nostro Pippo, «circondato dall’affetto delle persone dell’Opus Dei con cui viveva», come ha voluto sottolineare l’Opera ha voluto sottolineare l’Opera ha voluto sottolineare l’Opera ha voluto sottolineare l’Opera dando notizia della scomparsa.
Aveva iniziato a scrivere per Tempi parecchi anni fa, non molto tempo dopo l’uscita dell’autobiografico Un lavoro soprannaturale. La mia vita nell’Opus Dei , quando Luigi Amicone aveva scoperto tra quelle pagine una capacità fuori del comune di parlare del cristianesimo in modo così diretto, così convinto e così convincente da non sfigurare nemmeno nel catalogo Mondadori. Poi ha continuato a collaborare con il nostro giornale a lungo e attraverso molte peripezie, non mollando nemmeno nei momenti tragici, anzi sempre incoraggiando la nostra spericolata impresa e accompagnandola con decisione ma anche con l’ironia di chi sa che bisogna sempre provarci con tutte le forze e però alla fine «è la Provvidenza che provvede». Con le sue Cartoline dal Paradiso dense e leggiadre insieme ha dispensato ai tempisti gioia in pillole fino all’anno scorso.
La «necessità urgentissima» di dedicarsi ai giovani
Pippo Corigliano nell’Opus Dei ci era entrato da “numerario” nel 1960, a diciott’anni, e poi per quarant’anni, dal 1970 al 2011, l’ha servita come capo dell’ufficio comunicazione vivendo dunque in prima linea alcuni dei momenti più importanti della storia di questa realtà cattolica sui generis: la morte di san Josemaría (26 giugno 1975), l’erezione dell’Opera a prelatura personale (28 novembre 1982), la beatificazione (1992) e la canonizzazione (2002) del fondatore. Ha conosciuto diversi papi e stretto amicizie celebri con i massimi calibri dell’informazione e dell’editoria italiane, da Indro Montanelli a Leonardo Mondadori.
Ma soprattutto Pippo Corigliano è stato un infaticabile comunicatore della ragionevolezza della fede. Lo è stato prima, durante e dopo aver fatto della comunicazione il suo mestiere. Aveva il pallino dei giovani, alla cui educazione ha dedicato un intero libro che che che che Tempi Tempi Tempi Tempi ha recensito qui ha recensito qui ha recensito qui ha recensito qui. Per lontani che siano ormai dalla sensibilità cattolica, non li ha mai considerati palle perse. Anzi, tra gli aspetti che ammirava di più di san Escrivá c’era proprio l’incrollabile dedizione ai giovani e l’ha fatta sua come «necessità urgentissima».
L’unica cosa che conta
Come ha ricordato ha ricordato ha ricordato ha ricordato Avvenire , per sintetizzare la missione dell’Opus Dei Pippo diceva che «l’unica cosa che conta è l’incontro con Dio». E che solo in questo incontro sta quel bene che «ciascun confusamente apprende», vecchio o giovane che sia. In Preferisco il paradiso , il suo libro più pop (sei edizioni), ricorda che il cristiano è chiamato a «rendere affascinante il cristianesimo» lì dove si trova, nella situazione in cui è. Si legge in quelle pagine: «Gesù, questo fallito che muore solo, con la mamma e un discepolo adolescente, è ancora necessario. Lo è da duemila anni». Ieri, oggi e sempre Cristo è necessario, nel Corigliano pensiero, non solo per “raddrizzare le cose”. È necessario innanzitutto per godersi appieno la vita. E la missione dei cristiani è suscitare negli altri il desiderio di questa goduria, e cioè la voglia dell’Incontro. «Ci attaccano su argomenti periferici», spiegò nel 2011 in una bella conversazione con Amicone, rispondendo a una domanda sulla crescente ostilità del mondo ai vecchi “valori” occidentali. «Gesù non ha parlato delle staminali. Occorre restaurare il fascino del cristianesimo. Con i fatti, con i modelli e con le testimonianze.
Perciò ci troviamo così bene assieme. Se si conosce Gesù, tutto il resto viene da sé: amore, famiglia, vita, convivenza civile, carità pratica, convivenza di popoli… Queste crisi mondiali sono crisi di santi… mancano santi e questi dovremmo essere noi. Se gli altri dicono, blaterano, sostengono cose strane… in realtà si stanno lamentando che non conoscono Gesù».
Del mondo senza essere mondani
Ma non che questo incontro con Gesù non avesse conseguenze molto pratiche per il cristiano Corigliano: ne aveva eccome, fino alla necessità di esporsi, schierarsi, giudicare. Perciò Pippo era sempre sul pezzo. A parte ribadire in continuazione l’amore smodato per la sua Napoli, di cui incarnava il buonumore propedeutico alla fede e che era pronto a difendere dagli stereotipi decadenti di un certo mainstream culturale, su queste colonne lo abbiamo visto esprimere opinioni forti sulle derive della nostra società; difendere apertamente Roberto Formigoni nel pieno della campagna mediatico giudiziaria contro di lui; celebrare la fede combattiva di Ettore Bernabei che diceva «il mondo è di chi se lo prende»; perfino spendersi personalmente per Tempi.
«Ognuno deve portare lo stile cristiano nel suo ambiente, senza diventare mondano», disse ancora ad Amicone. «Siate del mondo senza essere mondani. E se c’è da tener duro si tiene duro. Ti cito un punto di Cammino [il testo fondamentale di san Escrivá, ndr], n 380, che illustra meglio il concetto: “Mi domandi: ‘Non sembrerà artificiosa la mia naturalezza in un ambiente paganizzato o pagano, dato che tale ambiente urterà con la mia vita?’. – E ti rispondo: ‘La tua vita urterà senza dubbio con la loro; e questo contrasto, che conferma con le opere la tua fede, è appunto la naturalezza che ti chiedo’”».
Solo questione di fede
È importante che si capisca il motivo della felicità di Pippo Corigliano. È proprio quest’ultima che «negli anni de Il Codice Da Vinci », ricorda sempre l’Opus Dei, gli ha permesso di trasformare un «possibile danno all’immagine pubblica dell’Opera» in una «occasione per parlare della bellezza del messaggio di san Josemaría e della normalità delle persone che lo seguono». E della convenienza della fede, verrebbe da aggiungere. In fondo è quello che ha sempre fatto Pippo Corigliano: tentare di spiegare, sempre con leggerezza eppure con serietà, le ragioni della sua gioia. Una ragione è che era un figlio di Napoli, fatto non secondario, certo, ma la ragione principale è che era un figlio della Chiesa.
«Quando Gesù promette il cento per uno sembra che dica uno sproposito. Eppure ha ragione», confessò sempre ad Amicone per spiegare che cosa a suo tempo avesse convinto il giovanissimo Corigliano a rinunciare a un futuro da playboy per farsi uomo di Dio. «Mi sento con cento spider, con cento bionde, con cento borse del tennis. Il cuore è lo stesso dei diciott’anni ed è contento». Ci mancherà la felicità di Pippo, il suo buon umore contagioso. Ma nulla di tutto questo è perduto per chi prenderà il suo invito in Paradiso sul serio. Cioè con cristiana ironia.
«I giovani non ascoltano? I giovani non ascoltano gli apostoli tiepidi. Appena spunta un predicatore che ha fede, le chiese diventano insufficienti. “Fede! È questione di fede, non di altro!”, mi disse san Josemaría Escrivá l’ultima volta che l’ho visto». (Pippo Corigliano, Il cammino di san Josemaría , Mondadori)
(Pietro Piccinni, 11/06/24, Tempi)
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