Opus
Dei in politica: il franchismo
[Dello
stesso autore è possibile consultare anche l'ampio saggio "C'era una volta Franco",
dedicato al tema dei rapporti tra membri dell'Opus Dei e regime
franchista].
D
- Come si concilia tutto ciò con la compromissione dell'Opus
Dei in faccende civili, che qualcuno afferma? Prime fra tutte le
vicende politiche, se è vero che l'Opus Dei ha prestato
attiva collaborazione alla ricostruzione civile avviata da Franco in
Spagna dopo la guerra civile.
R
- Non si concilia, perché una simile compromissione non
è mai esistita. Il fondatore si è sempre
rifiutato di intervenire in politica, anche quando sarebbe potuto
sembrare opportuno e conveniente. Semplicemente, non è
questo il compito dell'Opus Dei.
Occorre
tornare su una distinzione fondamentale: quella tra l'appartenenza
all'istituzione e l'agire dei membri in quanto cittadini.
Questi due ambiti sono e devono restare distinti. Un membro dell'Opera
può (e in molti casi deve) esprimere le proprie preferenze
politiche, sociali, culturali. Lo fa in tutta libertà e in
coerenza con la sua identità cristiana. Se cercasse di
coinvolgere l'Opus Dei in queste sue scelte, verrebbe immediatamente
espulso, perché l'Opus Dei esiste a patto che si conservi
l'esclusiva finalità di formazione cristiana. Non
è una scelta tattica: è un'esigenza di spirito,
vitale.
La
"questione spagnola" dell'Opus Dei è frutto di una pervicace
miopia, che allora era molto diffusa. In un contesto particolarissimo -
la ricostruzione dopo un conflitto segnato dall'anticlericalismo fino
alla persecuzione -, si tendeva a considerare importante e
pressoché indispensabile l'opzione unitaria: tutti i
cattolici, tutte le istituzioni cattoliche, dovevano, in quanto tali,
cooperare col nuovo governo.
Tale
opzione, va sottolineato, era propugnata dagli ambienti politici al
potere, e avallata, con le parole e con i fatti, da una gran parte dei
vescovi e degli intellettuali cattolici. Era molto difficile sottrarsi
diplomaticamente a questo modo di vedere; tuttavia monsignor
Escrivá fece il possibile perché le
caratteristiche dell'Opera, davvero rivoluzionarie da questo punto di
vista (basta pensare al caso italiano), fossero note e rispettate.
Giunse al punto di anticipare il proprio definitivo trasferimento a
Roma (che avvenne nel 1946), affinché non fosse
materialmente possibile identificare l'Opera con un fenomeno spagnolo
ed esercitare sull'istituzione pressioni indebite.
Frattanto
alcuni membri dell'Opera entrarono nel governo: lo fecero a titolo
personale, cooptati per la stima che si erano guadagnati nell'esercizio
delle rispettive professioni. Altri membri dell'Opera, di diversa
posizione politica, pagarono la loro opposizione alla dittatura con
l'ostracismo informativo, economico e politico: giornali in cui
lavoravano furono chiusi, associazioni furono sciolte, ci fu chi
andò in esilio. Di questo si è parlato meno, ma
è altrettanto documentato.
La
miopia di cui si diceva è tuttora diffusa: ecco
perché si fatica a cogliere quest'aspetto dello spirito
dell'Opera. E invece, a mio parere, si tratta di un punto che ha grandi
potenzialità: far comprendere la bellezza dell'impegno
civile del cristiano senza etichette, con creatività e
collaborazione piena per la costruzione del bene comune.
Quale che sia l'idea che ciascuno propugna, essa sarà
contraddistinta dal grande rispetto per quella altrui; che è
cemento
di costruzione di una società non tirannica, non dogmatica,
ma giusta per quanto è possibile.