C'era
una volta Franco
La
questione di una "compromissione" dell'Opus Dei con il regime del
generale Francisco Franco, che ha retto la Spagna dal 1939 al 1975,
soltanto in apparenza è semplice da comprendere e da
risolvere. Per dirne una, ha ben diverso spessore - storico e
giornalistico - in Spagna e fuori di Spagna.
Ai
non spagnoli, in effetti, il problema non interessa molto, se non a
grandi linee. Questo significa che si è soliti liquidarlo in
poche battute; ed ecco come mai sull'Opus Dei l'ombra del
"filofranchismo" ha finito per gravare come una macchia vischiosa,
difficile da lavare. Repertori, dizionari, enciclopedie se la cavano
spesso restando sul generico: "Ha filiali in 73 Paesi, ma è
potente soprattutto in Spagna: nonostante l'autonomia nominale che
l'associazione riconosce ai suoi membri nell'azione politica e civile
è considerata un gruppo di pressione all'interno del regime
franchista, come portavoce degli ambienti liberal-tecnocratici" (1).
Fonte dell'informazione: un altro repertorio che diceva più
o meno lo stesso qualche tempo prima. Viene da chiedersi: chi definisce
"nominale" l'autonomia? Chi "considera" l'Opus Dei un gruppo di
pressione?
Mi
è già capitato di studiare la figura e l'opera
del fondatore, Josemarìa Escrivà, per renderne
conto ad altri (2).
E dunque, nei limiti della mia competenza, dello spazio disponibile e
di una documentazione che è, sì, ampia, ma
necessariamente incompleta, iniziamo un tour de force attraverso la
controversia.
Non
desidero inanellare illazioni, affastellare citazioni generiche, dire
la parola ultima o penultima; mi limiterò a far parlare
alcuni dei protagonisti, integrando qui e là il discorso con
le opportune informazioni.
Chi voglia sapere qualcosa di non superficiale sull'argomento si
imbatte subito in due posizioni nettamente contrastanti: quella
dell'Opus Dei, che ha sempre asserito la propria estraneità
al sistema politico franchista, e quella della "fama" suddetta, che
invece l'accusa di collusione; un'accusa che sembra muovere da numerosi
fronti e che si tinge di sfumature diverse e perfino contraddittorie.
Alla
base delle discussioni c'è un fatto incontrovertibile:
alcuni membri dell'Opus Dei hanno fatto parte del governo spagnolo
durante il regime di Franco. Così riassume la circostanza lo
storico tedesco Peter Berglar: "Nel 1957, Franco riorganizzò
la compagine ministeriale in vista del risanamento di una situazione
economica precaria, specialmente per quanto riguardava la bilancia
commerciale con l'estero. Per avviare la Spagna verso un sistema
economico e finanziario capace di competere con il mondo moderno,
nominò ministri alcuni specialisti ben qualificati, che
provenivano dalle banche e dall'università. Due di loro
erano membri dell'Opus Dei: Alberto Ullastres, docente di storia
dell'economia nell'Università di Madrid, fu nominato
ministro del Commercio; Mariano Navarro Rubio, direttore amministrativo
del Banco popular, fu chiamato al ministero delle Finanze.
Più tardi, si aggiunsero Gregorio Lopez Bravo, come ministro
dell'Industria, e Laureano Lopez Rodò, come ministro senza
portafogli e commissario generale del piano di sviluppo economico.
Questi
due ultimi, qualche anno dopo, in epoche diverse, furono anche ministri
degli Esteri. Nelle pubblicazioni specializzate, si suole parlare di
"era tecnocratica" del regime franchista, come a voler indicare che,
allora, dalla priorità dell'ideologia si passò a
quella del pragmatismo" (3). Tra i "tecnocrati" c'erano
persone del tutto estranee all'Opus Dei, e c'erano membri
dell'Asociación católica nacional de
propagandistas.
Qui
finisce il fatto. E iniziano le polemiche.
Ma, prima di entrare nel merito, mi paiono essenziali due premesse. La
prima, che un tempo pareva ovvia, oggi non lo sembra più
tanto: quando c'è in ballo un'accusa è la
colpevolezza che va provata, non l'innocenza. Ovvero - qui sta la
differenza tra calunnia e imputazione - tocca all'accusa trovare ed
esibire le prove. E di prove che l'Opus Dei abbia avuto e perseguito un
disegno di fiancheggiamento politico, come vedremo, è
davvero difficile addurne; né certo basta dire che
l'esistenza dei "ministri" prova l'esistenza del "disegno".
Seconda
premessa: il problema del franchismo è lontanissimo
dall'essere risolto, anzitutto in Spagna. È una lunga scia
complessa che attraversa ampia parte del secolo. È tuttora
una piaga aperta. Per seguire Franco, e poi per dimenticarlo, gli
spagnoli hanno fatto l'impossibile, con il risultato di ritagliare la
sua silhouette, per contrasto, quasi dappertutto. È
difficile trovare uno spagnolo sereno su questo argomento. Questo
implica che è difficile trovare una fonte spagnola serena a
cui riferirsi; e dunque il ricercatore non spagnolo deve muoversi con
molta cautela nel dare giudizi in materia.
Franco
era un dittatore, ma non un Mussolini o un Hitler. Tanto per
cominciare, il suo regime è vissuto e morto - salvo
numerabili eccezioni - in modo tutto sommato incruento, dando luogo,
quasi spontaneamente, a un'evoluzione democratica nel segno della
monarchia retta da Juan Carlos, secondo i disegni del Caudillo. Franco
ha posto fine, bene o male, alla guerra civile più
sanguinosa nella storia dell'Occidente, e subito dopo ha evitato al suo
Paese il cruento pedaggio della guerra mondiale. In politica estera e
in diplomazia, a fronte di una situazione difficilissima, ha ottenuto
successi inconfutabili.
Circa
il seguito che aveva all'interno, "Vida Nueva", una rivista apertamente
contraria al regime, scriveva all'indomani dei suoi funerali: "La morte
di Franco è stata - e crediamo che nessuno possa discuterlo
- una scossa alla coscienza nazionale. Abbiamo visto centinaia,
migliaia di occhi che piangevano, abbiamo toccato il silenzio commosso
e commovente di Madrid, per lunghi giorni. Un'ondata di sincero affetto
e profondo rispetto, l'entusiasmo di molti davanti a una figura che era
per loro un eroe, un salvatore, quasi un santo. E non erano, certo, dei
favoriti dalla fortuna o dalla politica: erano ricchi e poveri, colti e
semplici, vecchi e giovani" (4).
Insomma,
qualsiasi giudizio si voglia dare sull'uomo, sull'idea, sul contesto,
sul periodo, occorre tener conto almeno di un dato essenziale: Franco e
la Spagna hanno costituito per quarant'anni un nodo storico unico e non
omologabile ad altri. Se ancora gli spagnoli non l'hanno sciolto,
vogliamo riuscirci noi, in due parole?
Ma
prendiamo il toro per le corna, esaminiamo le varie posizioni circa la
militanza di membri dell'Opus Dei nei governi franchisti.
L'Opus Dei - sia come istituzione, sia per bocca dei membri interessati
- ha sempre sostenuto che, semplicemente, il fatto non è
significativo: l'Istituzione non ha fini politici. Essendo i membri
vincolati soltanto per motivi ascetici e di formazione cristiana, quel
che ognuno di loro fa nel proprio lavoro, in politica, nel campo
economico o culturale, è affare personale.
È
ovvio che questi ambiti andranno "santificati", cioè vissuti
cristianamente, ma il "come" (vale a dire le scelte e le posizioni)
è a totale carico del singolo. Dunque, non esistono
esponenti dell'Opus Dei in politica, ma donne e uomini (cristiani) che
fanno politica e, per inciso, sono membri dell'Opus Dei.
Per
quanto riguarda i membri dell'Opera, sparsi in tutto il mondo e
appartenenti a ogni ceto sociale, la cosa è pacifica. A dir
loro, lo dimostra la vita quotidiana: nessuno, nell'Opus Dei, si
è mai sognato di pensare o di agire diversamente. Non
è infrequente, leggendo il giornale, imbattersi in una
precisazione dell'ufficio informazioni della Prelatura rispetto a
precedenti notizie di questo tenore: "L'Opus Dei, cioè
Tizio, ha detto, ha fatto" e via dicendo. La replica di solito suona
così: "Tizio non è "l'Opus Dei", ed è
libero di dire o di fare quel che vuole senza che ciò
coinvolga la Prelatura".
Ripetere i concetti è utile, come gli anni e gli eventi
hanno confermato. Oggi, specie dopo la beatificazione del fondatore,
molti conoscono meglio l'Opus Dei e sanno che i membri sono persone
come le altre, non automi telecomandati. Ma negli anni Cinquanta,
Sessanta, Settanta, non sempre ciò era altrettanto chiaro.
Non
è, per di più, soltanto una questione "tecnica".
Il fondatore riteneva e predicava che la comprensione di questo punto
è capitale per la maturazione del laicato cristiano nella
linea del Concilio Vaticano II: finché non si comprende che
per un qualsiasi cristiano, lavoratore e cittadino fra gli altri,
è possibile ed essenziale agire nel mondo senza etichette
neppure confessionali e tanto meno gerarchiche, non si è
finito di comprendere la cristianizzazione delle realtà
temporali.
Fatto
sta che la pubblicistica, anche quando era equilibrata e in buona fede,
spesso non rimaneva convinta dalle affermazioni di principio sulle
vicende politiche spagnole. Dopotutto è un fatto che i
"ministri dell'Opus Dei" ci sono stati.
I
riferimenti italiani per verificare sono a loro modo sintomatici.
Tornando al caso emblematico di Pro e contro Franco, che ho citato
all'inizio, per completare l'informazione quel dossier riprende un
libro violentemente contrario al regime di Franco e alla Chiesa, edito
in spagnolo a Parigi per evidenti motivi politici: quello di
Jesùs Ynfante (5), in cui la storia è
riassunta così: "La penetrazione degli associati dell'Opus
Dei nell'apparato statale spagnolo si è realizzata a tappe
successive: prima del 1951, nel campo dell'educazione e della ricerca
scientifica hanno monopolizzato quasi tutte le cattedre universitarie;
dopo di allora gli associati hanno fatto la loro comparsa nelle
direzioni generali di alcuni ministeri [...]. Poi, a partire dal 1957,
hanno avuto dei ministri (soprattutto all'economia); fino a quando, nel
1969, la costituzione di un governo "omogeneo" ha fatto apparire nella
sua impressionante realtà il monopolio politico dell'Opus
Dei in Spagna" (6).
La
realtà è davvero così? Dissipiamo il
fumo dei "si dice" e guardiamo come stanno le cose.
Sulla "schiacciante supremazia dell'Opus Dei nei governi franchisti" ci
aiutano non poco le nude cifre. Eccole: su 116 ministri nominati da
Franco, in undici governi, dal 1939 al 1975, soltanto otto erano membri
dell'Opera, di diverse tendenze politiche. Il primo governo spagnolo
che comprende membri dell'Opus Dei è quello che inizia il 25
febbraio 1957. Otto ministri su 116, in quarant'anni; dei quali uno
muore tre mesi dopo la nomina e altri quattro mantengono la carica
soltanto per un governo.
Andiamo
avanti. Un'altra nota discordante la troviamo nella vita e nell'opera
di Rafael Calvo Serer, docente universitario, intellettuale, editore e
direttore di periodici: uno degli uomini più rilevanti nella
vita culturale spagnola del dopoguerra. Membro dell'Opus Dei, Calvo
Serer è un monarchico liberale, fieramente avverso al regime
franchista. Nel 1953 viene espulso dal Consiglio superiore per la
ricerca scientifica per aver pubblicato a Parigi un saggio critico
verso la politica interna del governo spagnolo. Nel 1966 è
direttore del quotidiano "Madrid", che durerà cinque anni:
nel novembre 1971 la censura ne impone la chiusura.
Calvo
Serer, che ha già dovuto affrontare numerose accuse e
processi giudiziari, è costretto all'esilio, a Parigi. Al
rientro in Spagna dovrà subire gravi difficoltà,
e poi non gli sarà possibile riaprire il suo giornale.
Sarà tra i fondatori della Junta democràtica (tra
i quali c'è anche Santiago Carrillo, segretario del partito
comunista spagnolo), che in clandestinità prepara l'avvento
della democrazia in Spagna.
Un
altro membro dell'Opus Dei nel quotidiano "Madrid", di cui era il
caporedattore, è Antonio Fontàn. Così
descrive il clima del giornale: "Noi del "Madrid" ci vedevamo come gli
avvocati della libertà pubblica, specie della
libertà di associazione politica, sindacale e di opinione
[...]. Si trattava propriamente dell'introduzione di una democrazia
parlamentare, di libere elezioni e di un arco di partiti politici. La
libertà non andava concessa passo dopo passo, ma in modo
globale" (7).
È
da notare che Fontàn, ordinario di filologia classica, fra i
più conosciuti oppositori di Franco, nel nuovo clima
postfranchista del 1977 sarà eletto al senato. Da presidente
del senato parteciperà in modo decisivo all'elaborazione
della Costituzione democratica della Spagna.
Casi
analoghi riguardano l'agenzia Europa Press e il quotidiano "El
Alcàzar" (100 mila copie), in cui lavoravano giornalisti
allora e tuttora famosi in Spagna. Alcuni (una decina su duecento)
erano dell'Opus Dei. Europa Press fu sottoposta a innumerevoli
vessazioni, e nel 1967 "El Alcàzar" fu sottratto con le
cattive all'editore e alla redazione.
"Madrid",
Europa Press ed "El Alcàzar", secondo voci diffuse,
passavano (e talora passano) tout court per essere "dell'Opus Dei".
Ma tutto questo accade mentre nel governo di Franco che li perseguita
sono presenti, e "vincenti", altri membri dell'Opus Dei. Come combacia
questo con l'immagine di un'Opus Dei proteso verso il "monopolio
politico" dalla parte del dittatore?
Poco
prima di morire (di tumore, nel 1988), Calvo Serer scrive una breve
nota autobiografica in cui fra l'altro compaiono le seguenti parole:
"Non sono mai stato né posso essere l'ideologo dell'Opus
Dei. Se sono ideologo di qualcosa, lo sono delle mie convinzioni
intellettuali, delle mie personali idee culturali, politiche e
professionali, che non hanno niente da spartire con la dottrina
dell'Opus Dei, che si limita al campo meramente spirituale [...]. Non
ha senso parlare di una frattura interna nella gerarchia dell'Opus Dei,
basandosi sul fatto che io dissento rispetto ad altri membri dell'Opera
in questioni politiche e professionali. Ciascuno dei membri dell'Opera
agisce secondo i dettami della propria coscienza personale, e mai
secondo quelli della coscienza di un altro: agiscono con totale
libertà e responsabilità personali. Non ho mai
ricevuto, né dai dirigenti né dai sacerdoti
dell'Opus Dei, altro che consigli spirituali, e ho sempre avuto e ho la
libertà di seguirli o di non seguirli" (8).
"Frattura
interna"? Evidentemente in Spagna qualcuno pensava e diceva che, vista
la netta contrapposizione fra le posizioni di questo e quel membro
dell'Opera, dovevano esservi almeno due linee di pressione. Ma questo
non corrisponde all'immagine accreditata di una strategia unitaria, in
cui i diversi membri sono esecutori di un piano occulto per la
conquista e il mantenimento del potere.
Dunque,
troviamo una discrepanza: l'Opus Dei è un gruppo monolitico?
Oppure è un gigante diviso? O hanno ragione i diversi membri
che, dalle posizioni individuali più varie, sostengono di
muoversi secondo criteri esclusivamente personali?
Per
dovere di completezza devo citare un altro tipo di letteratura, che
nega che nell'Opus Dei esistessero disegni politici e la
volontà di perseguirli; e lo fa addirittura per le ragioni
opposte. Guardando alla Spagna sotto l'ottica di un presunto
"nazionalcattolicesimo", si asserisce: "In realtà l'Opus Dei
né formula un programma politico [...] né
possiede gli strumenti con i quali elaborare teologicamente l'autonomia
della sfera politica e il conseguente pluralismo su questo piano.
C'è nell'Opus una separazione implicita, di fatto, della
religione dalla politica. E a una concezione deideologizzata della
politica come tecnica, corrisponde un'interiorizzazione della fede di
chiara natura borghese. Per paradossale che appaia, è la
povertà politica dell'Opus a spiegarne la collocazione e il
ruolo nel franchismo" (9).
Dunque,
ci sarebbe l'assenza del disegno egemonico e anche della
lucidità teoretica che, ci fosse stata, l'avrebbe imposto.
Ma, a onor del vero, riesce difficile dar credito all'analisi storica
di chi definisce Cammino un "precettano di banalità,
devozione e pietà tradizionali", e lo ritiene "privo della
pur minima consapevolezza teologica" (10).
Diamo
la parola a un'altra parte in causa. Rodolfo Martin Villa è
stato direttore generale del ministero spagnolo dell'Industria nel
periodo in cui era ministro Gregorio Lopez Bravo, membro dell'Opus Dei.
In occasione della morte di quest'ultimo, in un incidente aereo nel
1985, Martin Villa ha scritto: "Io non sono dell'Opus Dei. Questa
però era una delle leggende che circolavano,
perché si supponeva che qualsiasi direttore generale o
collaboratore principale di un ministro dell'Opera dovesse appartenere
necessariamente a questa organizzazione. Io stesso, nell'entrare a far
parte dei quadri del ministero dell'Industria, incorsi in tale
supposizione: credevo che tutti fossero dell'Opera, e
risultò che a tutti, tranne che a uno, accadeva lo stesso:
vale a dire, che non lo erano" (11).
E
poco sopra: "Nel 1968, durante la discussione della legge finanziaria,
fu proposto un emendamento contro una sovvenzione
all'Università della Navarra. Io lo sostenni, votando a
favore. L'emendamento vinse e l'aiuto fu soppresso [...]. Secondo
un'opinione diffusa a quei tempi si sarebbe immaginato che un ministro
dell'Opus Dei avrebbe dovuto arrabbiarsi con il suo direttore generale
che, in quanto parlamentare, aveva votato contro gli interessi
dell'Università della Navarra. Non dico che ci si sarebbe
dovuto aspettare un licenziamento, ma almeno un rimbrotto sarebbe
rientrato fra le regole del gioco.
Ebbene,
il primo giorno che lo incontrai fui io, con naturalezza, a proporre la
questione, spiegando le mie ragioni. Le comprese perfettamente e
l'episodio non produsse la minima ombra nei nostri rapporti successivi"
(12).
"Un'opinione diffusa" e nessun fatto documentato. Come andavano davvero
le cose?
Per
capirlo bisogna allargare l'obiettivo.
Il vero problema non riguarda l'Opus Dei e il franchismo, ma i rapporti
del franchismo con la gerarchia ecclesiastica spagnola. Così
ne ha parlato il successore del fondatore, l'attuale Prelato dell'Opus
Dei, monsignor Alvaro Del Portillo: "Nel caso del franchismo, bisogna
ricordare che la conclusione della guerra civile segnò il
rifiorire della vita della Chiesa, delle associazioni, delle scuole
cattoliche, con una netta presa di posizione della gerarchia a favore
del generale Franco, che ovunque era considerato provvidenziale. Basti
pensare che, al termine della guerra civile, sulla facciata delle
cattedrali era stata apposta la scritta della Falange: "Caduti per Dio
e per la Spagna. Presenti!". Il fondatore dell'Opus Dei
protestò più volte per questo abuso" (13).
Antonio
Fontàn è della stessa opinione: "II regime
autoritario di Franco non dovette temere, all'origine, alcuna
opposizione seria dal lato cattolico. Ciò soprattutto
perché sussisteva il fatto sanguinoso che lo sconfitto
Fronte Popolare aveva scatenato una crudele persecuzione contro la
Chiesa. Nella Spagna "repubblicana" furono assassinati all'inizio della
guerra civile più di seimila sacerdoti, fra i quali tredici
vescovi [...]. Quando Franco prese il potere, terminò la
politica discriminatoria verso la Chiesa.
Si
cominciarono a ricostruire le chiese e i monasteri, che erano ridotti a
cumuli di macerie. I gesuiti recuperarono i beni sottratti dai
repubblicani. Molte scuole private, in gran parte confessionali, furono
equiparate a quelle statali; nelle aule si tornò a poter
appendere i crocifissi. Il diritto matrimoniale tornò a
corrispondere alle leggi ecclesiastiche. E così i cattolici,
dopo la dura prova, poterono di nuovo respirare liberamente riguardo ai
loro interessi confessionali.
E
tuttavia questo fu tutto, se si tiene presente che il regime del
Generalissimo estirpò o sottomise completamente con mano
autoritaria i diritti di libertà che a ciascuno spettano
come persona: fra questi la libertà di associazione, di
opinione, di stampa. Se non si tornò in massa alle barricate
lo si dovette certo alla reintegrazione confessionale, ma anche al
generale sfinimento dopo la guerra civile" (14).
"Lo
Stato perfetto, per noi, è lo Stato cattolico. Non ci basta
che un popolo sia cristiano perché si compiano i precetti di
una morale di quest'ordine; sono necessarie leggi che mantengano il
principio e correggano l'abuso. L'abisso, la differenza più
grande fra il nostro sistema e quello nazifascista è la
caratteristica cattolica del regime che oggi presiede i destini della
Spagna. Né razzismo, né persecuzioni religiose,
né violenza sulle coscienze, né imperialismo sui
vicini, né la minima ombra di crudeltà hanno
spazio sotto il sentimento spirituale e cattolico che presiede la
nostra vita": sono parole di Francisco Franco (discorso del 14 maggio
1946) (15).
E
"l'atteggiamento della gerarchia ecclesiastica, romana e spagnola,
davanti al regime di Franco durante il periodo 1939-62, si potrebbe
riassumere in tre parole: riconoscenza, gratitudine, appoggio" (16).
Ma a questo punto è d'obbligo introdurre una ulteriore
considerazione. Questa: nella Spagna del franchismo è
difficile trovare persone che abbiano una vita pubblica e non siano
cattoliche.
Non
è soltanto una questione di convenienza, benché
sia certo che non sarebbe possibile esprimersi altrimenti in uno Stato
tirannico che si professa tale; è anche un fatto, un fatto
di fede espressa e praticata. Per il 31 maggio 1964, a Madrid, viene
indetto un appuntamento pubblico di carattere particolare: recita del
rosario. Vi partecipa più di un milione di persone; il
vicepresidente del governo guida il primo mistero. Fra le
autorità presenti primeggiano il principe ereditario e la
consorte. A un giornalista che lo interroga sull'iniziativa, Juan
Carlos risponde: "E un atto personale, intimo, anche se vi prende parte
un milione di persone" (17).
Non
si capisce la Spagna, né la Spagna franchista, se non si
capisce che la fede cattolica in quel Paese era un fatto diffuso,
popolare, spontaneo. Si può dire, anzi, che i rapporti tra
Chiesa e Stato, con i grandi cambiamenti avvenuti tra il 1936 e il
1975, sono in buona parte cambiamenti della Chiesa e nella Chiesa (e
più precisamente nel clero, prima che nella popolazione): la
Chiesa che riceve nuove luci dal Concilio Vaticano II, la Chiesa che
risente, come dappertutto, della secolarizzazione.
Chi
parla di "nazionalcattolicesimo" come fatto soltanto politico e
opportunistico dovrebbe spiegare come mai, tanto per fare un esempio,
un uomo come Manuel Azana, colui che disse: "La Spagna ha cessato di
essere cattolica", il membro del comitato rivoluzionario repubblicano,
indi ministro della Guerra del governo "rosso" e infine presidente
della Repubblica spagnola durante lo scontro con Franco, fuggito poco
prima della disfatta, muore esule a Parigi nel 1940, ma chiedendo i
sacramenti e riconoscendosi in pieno nella fede della Chiesa romana. I
cattolici sono dappertutto, al governo e fuori: semplicemente, la fede
non è un elemento che faccia distinzione; e ciò
spiega, fra l'altro, come non sia avvertita l'esigenza di un "partito
cattolico" che sia anche nominalmente tale.
Il
1° luglio 1937 i vescovi spagnoli avevano sottoscritto
collettivamente una lettera aperta di questo tenore (soltanto due
presuli rifiutarono di firmarla): "Malgrado il suo spirito di pace e il
suo desiderio di evitare la guerra e di non prendervi parte, la Chiesa
di Spagna non poteva assistere indifferente alla lotta. Da una parte si
sopprimeva Dio, del quale la Chiesa deve realizzare l'opera in terra, e
si causava alla stessa Chiesa un torto immenso, nelle persone, nelle
cose e nei diritti, forse più di quanto non sia mai successo
nella storia. Dall'altra parte si ergeva lo sforzo cosciente di chi
combatteva per la conservazione del vecchio spirito spagnolo e
cristiano.
Affermiamo
che il sollevamento civil-militare ha una duplice radice: il sentimento
patriottico, che ha visto nella sollevazione l'unica maniera di
risollevare la Spagna ed evitare la sua definitiva rovina; e il
sentimento religioso che lo considerò come la forza che
doveva ridurre all'impotenza i nemici di Dio" (18).
Tra
il 13 e il 17 settembre 1971 si svolse a Madrid la prima "Assemblea
congiunta di vescovi e sacerdoti". La mozione numero 34, non approvata
per una questione formale, ma votata a grande maggioranza, suona
così: "Reconocemos humildemente y pedimos perdón
(riconosciamo umilmente e chiediamo perdono) di non aver saputo, a suo
tempo, comportarci come avremmo dovuto, da veri ministri di Dio, mentre
il nostro popolo era diviso da una guerra tra fratelli" (19).
Tra
queste due dichiarazioni, come tra due parentesi, si inscrivono il
complesso rapporto tra la Spagna cattolica e la dittatura franchista,
la lacerazione tra le "due Spagne" di ieri e di oggi, una guerra civile
i cui effetti hanno lungamente diviso fra loro gli spagnoli.
Indubbiamente,
l'eliminazione della Chiesa era stata un obiettivo primario dei
"rossi", e la controparte "nazionalista" offriva ben maggiori garanzie
di sopravvivenza e di libertà ai cattolici e ai loro
vescovi. Altrettanto indubbiamente el Alzamiento capeggiato da Franco
ha cercato e ottenuto una legittimazione in ambito ecclesiastico,
mantenendo con la gerarchia spagnola un rapporto privilegiato anche
negli anni successivi alla conclusione della guerra civile. Per
esempio, nel concordato del 1953 fu stabilito che i vescovi dovessero
giurare davanti al generale Franco: "Davanti a Dio e ai santi vangeli
prometto e giuro di rispettare e di fare in modo che il mio clero
rispetti il Capo dello Stato e il governo, secondo le leggi spagnole" (20).
Dunque,
è logico che quanti si opponevano al regime vedessero nella
Chiesa il più grave degli avalli al loro avversario politico.
La gerarchia spagnola, dal canto suo, anche perché davvero
grata per l'aiuto ricevuto da Franco, non lesinò questo
appoggio, andando talora anche al di là della prudenza
(malgrado taluni moniti che giungevano dal Vaticano): in effetti non
erano tutti cattolici da un lato, e i cattolici non mancavano
dall'altro. La Chiesa, in quelle circostanze, non fu al disopra delle
parti. Ciò le ha attirato, e ancora le attira, le critiche
sia di molti "democratici" sia dei "revanscisti" di sinistra.
"In
quella situazione" commenta monsignor Del Portillo "il Padre, pur
riconoscendo a Franco il merito della pacificazione, dovette opporre
resistenza a due pericoli: da una parte la strumentalizzazione della
fede, con la pretesa di monopolizzare la rappresentanza dei cattolici
nella vita pubblica da parte di determinati gruppi; dall'altra la
tendenza di alcuni ambienti cattolici a servirsi del potere pubblico
come di un braccio secolare: le due facce del clericalismo, insomma" (21).
In
questo contesto va analizzata la novità dell'Opus Dei,
un'istituzione che offre a comuni cristiani la formazione
affinché cerchino Dio nel proprio lavoro, senza "fare
gruppo", senza ostentare la propria fede attraverso le appartenenze, ma
piuttosto con l'esempio della vita. A quanti fra i membri dell'Opera
hanno la ventura di impegnarsi direttamente in politica (e sono
pochissimi rispetto al totale) anziché esercitare qualsiasi
altro tipo di mestiere, questa loro decisione ha creato, per quel che
è dato di vedere, parecchie incomprensioni. Ne elenco alcune
per comodità e per dare al lettore un materiale il
più possibile distinto; ma è ovvio che nella
realtà le motivazioni si incrociano e talora si
sovrappongono.
Innanzitutto,
l'incomprensione più evidente risale agli avversati di
Franco e insieme della Chiesa, cui non servivano scuse per attaccare
l'Opus Dei. E, dal loro punto di vista, certo non pareva plausibile che
"taluni" membri dell'Opera, notoriamente cattolici, appoggiassero il
regime "a titolo personale", quando ben pochi cattolici, in quel
frangente, agivano a titolo personale. Un esempio fra tutti: il
presidente dell'Azione Cattolica spagnola, Alberto Martin Artajo, il 25
luglio 1945 diviene ministro degli Esteri del nuovo governo di Franco.
Prima di accettare chiede e ottiene il permesso
dell'autorità ecclesiastica.
In
secondo luogo, il nuovo corso degli eventi politici non piace alla
Falange, che nel 1945 perde la preminenza assoluta in campo politico,
con l'avvento del Fuero de los espanoles (Carta dei diritti, di
impronta più liberale), l'alleanza sempre più
stretta del regime con la gerarchia cattolica e la formazione del nuovo
governo, in buona parte composto da cattolici (22).
Il
risentimento perdura e si accresce negli anni successivi. Un membro
dell'Opus Dei che fu tra i ministri "tecnocrati" entrati nel governo
con il giro di boa del 1957, Laureano Lopez Rodò, rammenta
il sentimento di gelosia diffuso nell'ambito della Falange: "Nel
settore falangista non mancarono le incomprensioni [verso l'Opus Dei].
Benché la sua pubblicazione sia abbastanza successiva (5
febbraio 1964), citerò ora un articolo apparso su "Pueblo"
sotto il titolo L'Opus Dei, perché riflette un'opinione
abbastanza diffusa in quel settore.
Nell'articolo
si dice: "sono apparsi dalla notte al giorno degli uomini nuovi, senza
tradizione politica", e non ci si spiega "come i membri dell'Opus Dei
siano arrivati a posti di rilievo senza che vi sia sotto una struttura
coesiva", nonostante che, pochi paragrafi più sopra, si
affermi: "conosciamo molti membri dell'Opus Dei e abbiamo alta stima
della loro preparazione, delle loro qualità e delle loro
iniziative". Sarebbe stato logico concludere l'affermazione dicendo che
erano arrivati a quei posti per le loro capacità e i loro
meriti, senza necessità di una "struttura coesiva"" (23).
Lopez
Rodò prosegue con un'analisi rigorosa che conviene seguire.
Inizia spiegando che la Falange, in quanto partito politico, ha un
proprio apparato e mira al potere; l'errore dei falangisti è
attribuire struttura e fini analoghi a chiunque altro. I membri
dell'Opus Dei impegnati in politica, invece, in buona parte sono
"professionisti indipendenti", una mezza dozzina fra i molti altri
chiamati da Franco in quel periodo; hanno inoltre regolarmente seguito
la trafila necessaria per giungere alle cariche più elevate.
D'altra
parte sarebbe strano che, contandosi a decine di migliaia i membri
dell'Opus Dei in Spagna sotto Franco, nessuno agisse in politica: "Ci
sarebbe stato da sospettare che nell'Opus Dei esistesse una proibizione
rispetto all'azione nella vita pubblica o rispetto a un determinato
orientamento politico, quando in realtà siamo liberissimi di
comportarci secondo il nostro criterio e sotto la personale ed
esclusiva responsabilità di ciascuno" (24).
Infine,
quanto a posizioni personali, non potrebbero essere più
variegate: "Si era diffusa anche la voce infondata che i membri
dell'Opus Dei che intervenivano in politica formassero un gruppo
omogeneo. Ma è evidente che, come logica conseguenza della
piena libertà politica, le loro posizioni e opinioni erano
molto diverse. A titolo di esempio, ricordiamo che Fernando Herrero
Tejedor, Javier Domìnguez Marroquìn e
José Ramón Herrero Fontana erano falangisti; Juan
Maria de Araluce Villar e Pedro Mendizabal Uriarte, tradizionalisti;
Mariano Navarro Rubio, sindacalista; Hermenegildo Altozano Moraleda,
Antonio Fontàn Pérez e Fiorentino
Pérez Embid appartenevano al Consejo privado del conde de
Barcelona e, invece, Gregorio Lopez Bravo de Castro, Vicente Mortes
Alfonso e io stesso eravamo sostenitori della restaurazione della
monarchia nella persona di don Juan Carlos di Borbone; Alberto
Ullastres Calvo e Juan José Espinosa San Martin erano
politici indipendenti; altri, infine, si ponevano in opposizione al
regime, e fra costoro la figura più rilevante era Rafael
Calvo Serer" (25).
Negli
anni successivi la Falange, per i propri fini politici, darà
vita contro l'Opus Dei a una vera e propria campagna, che è
in buona parte all'origine della leyenda negra. In effetti, come nota
la storiografia più recente, era ovvio che la Falange
avversasse quei giovani ministri tecnócratas, che
proponevano una cultura e un clima distanti anni luce dal modo in cui
in Spagna era stato tradizionalmente concepito lo Stato e gestito il
potere: un modo europeo, che più tardi avrebbe creato le
premesse per il cambio incruento del governo nazionale.
Antonio
Fontàn, che non può essere sospettato di simpatie
per il regime, descrive così la situazione: "[Tendere a un
accrescimento delle libertà] preparava un lungo conflitto
con gli immobilisti rappresentanti della Falange, quel partito unico
cui Franco si era appoggiato dall'inizio, senza però
collocarlo in una situazione di potere illimitato [...]. La situazione
economica, alla fine degli anni Cinquanta, era sempre più
critica, e Franco cercò disperatamente esperti che potessero
risollevare il paese dall'economia pianificata dalla Falange, che era
in crisi.
Infine
chiese collaborazione ad alcuni validi uomini nuovi che avevano goduto
di una formazione specializzata, negli Stati Uniti e nella Repubblica
federale tedesca, e sembravano capaci di introdurre le riforme
economiche da lungo tempo rinviate. Fra questi c'erano, insieme ad
altri cattolici, alcuni membri dell'Opus Dei, come il successivo
ministro dell'Economia Alberto Ullastres e quello dell'Industria
Navarro Rubio. Costoro si ritrovarono, da indipendenti, sotto il fuoco
incrociato dei funzionali della Falange, che avevano accolto la nomina
di quei nuovi esperti economici con grande risentimento.
Li
apostrofavano con il termine di tecnócratas, rinfacciavano
loro di non condividere l'ideologia della Falange e di voler introdurre
cambiamenti politici camuffati da riforme economiche. In effetti, non
pochi cattolici "dentro il sistema" contribuirono a far sì
che i diritti individuali di libertà fossero tenuti sempre
più in considerazione. Irritata contro le tendenze
liberalizzatrici, la Falange scatenò infine una campagna
organizzata, anche contro l'Opus Dei, che nei circoli del partito unico
era visto come un terreno fertile per le spinte riformiste" (26).
Così
si spiega l'opposizione della Falange. Tale opposizione è
documentata nella lettera che monsignor Escrivà
scriverà il 28 ottobre 1966 al ministro José
Solis, capo della Falange. Di questa lettera, assai significativa, fu
vietata la pubblicazione in Spagna (27). È riportata per
intero in Intervista sul fondatore dell'Opus Dei e chiede senza mezzi
termini di "por fine a questa campagna contro l'Opus Dei, dato che
l'Opus Dei non è responsabile di nulla" (28).
Vi
sono state anche vicende piuttosto complesse, come il "caso Matesa",
una storia di finanziamenti internazionali che nel 1969
costò il posto ad alcuni ministri membri dell'Opus Dei. Il
caso nacque in modo confuso e fu troncato bruscamente da Franco. Anche
in quella circostanza fu chiamato in causa il nome dell'Istituzione.
Non ci interessa qui chiarire i reali termini dell'accaduto (29).
Ma
siccome l'affaire ha avuto risonanza internazionale, e di tanto in
tanto torna a galla, vale la pena almeno di citare alcuni dati che
pochi hanno sottolineato: a dare il via allo scandalo fu la denuncia di
un membro dell'Opus Dei, Victor Castro, direttore generale delle
Dogane, e uno dei ministri nominati dal capo del governo subentrante
era falangista e membro dell'Opus Dei. "Non era un attacco all'Opus Dei
in quanto tale" commenta Gómez Pérez "ma una
strumentalizzazione politica del fatto, non politico, che alcune
persone erano membri di quell'Istituzione" (30).
Tra
quanti non hanno reso un buon servizio alla verità vanno
purtroppo annoverati anche storici e giornalisti stranieri, che spesso
si sono lasciati trascinare dalla foga in affermazioni non
corrispondenti alla realtà delle cose.
A posteriori possiamo sorriderne; tuttavia in questo modo si sono
perpetuati equivoci che potevano essere evitati. Gómez
Pérez, nel suo saggio, fornisce una piccola rassegna di
"insospettabili": per il "New York Times" il ministro
Fernàndez de la Mora era dell'Opus Dei; secondo "Le Nouvel
Observateur" vi apparteneva Carrero Bianco; Max Gallo, storico
citatissimo da chi parla di franchismo, nella sua Histoire de l'Espagne
franquiste asserisce che l'Opus Dei è proprietario del
quotidiano "Ya" (che allora era invece espressione dei vescovi
spagnoli) (31).
Sbagliare si può. Ma se sbaglia un cronista, o uno storico,
come farà a capire e a spiegare i fatti?
Infine,
tra gli oppositori si contano (e non sono i meno numerosi) ampi settori
del mondo clericale. È anche da questo lato che giungono e
si sviluppano le critiche nei confronti dei "ministri dell'Opus Dei".
Qui la realtà diventa, se possibile, ancora più
delicata e difficile da distinguere.
Quando,
soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, la vita politica prende ad
animarsi, cominciano a rivelarsi casi di opposizione al regime da parte
di uomini che non per questo si considerano meno cattolici:
"È sintomatico, in questo senso, che esistesse l'intenzione
di approfittare del cattolicesimo per tentare strade di opposizione:
una prova ulteriore del fatto che il cristianesimo di fondo della
Spagna era un dato di cui tener conto" (32).
Ma
il problema più serio è un altro. Fin
dall'immediato dopoguerra sono entrati in politica uomini che qualcuno
ha definito "cattolici ufficiali", ben visti dal regime e dalla
gerarchia come esponenti di un comune disegno sociale e politico.
Alcuni di costoro vorrebbero che l'Opus Dei in quanto istituzione
desse, come loro, un appoggio largo, totale e ufficiale alla politica
del governo.
Più
tardi, quando si verificherà il raffreddamento nei rapporti
con il regime, un identico appoggio verrà sollecitato per le
ragioni dell'opposizione. Un appoggio che in entrambi i casi l'Opus Dei
non può e non vuole dare, per motivi spirituali e per la
lungimiranza del fondatore. Questi motivi non vengono compresi. Anche
in questo caso le facili schematizzazioni sono ingiuste: abbiamo
già visto come si trovino membri dell'Opus Dei nel governo e
nell'opposizione.
"È
curioso" commenta nelle sue Memorias Laureano Lopez Rodò,
"che a stracciarsi le vesti perché alcuni membri dell'Opus
Dei, usando della loro legittima libertà, accettarono
cariche pubbliche nell'epoca di Franco, fossero precisamente i
"cattolici ufficiali" che collaborarono con quel regime nelle sue prime
tappe, quando le libertà erano più limitate. Non
è la stessa cosa essere stati ministro nel 1945 (anno in cui
Alberto Martin Artajo entrò nel governo) o nel 1951 (quando
Joaquin Ruiz Giménez fu nominato ministro dell'Educazione),
quando ancora non si era iniziato a costruire lo Stato di diritto, o
entrare nel governo nel 1957, quando la legge di esproprio forzoso del
1954 aveva già riconosciuto il principio di
responsabilità dell'amministrazione e la legge di
giurisdizione contenzioso-amministrativa del 1956 permetteva il ricorso
contro gli atti e le disposizioni generali emanati dal governo o dai
ministri" (33).
Alvaro
Del Portillo racconta in proposito un episodio concreto. "Quando il
fondatore, nel 1947, rientrò temporaneamente in Spagna per
predisporre il modo di continuare a governare l'Opera da Roma, si
incontrò con il ministro degli Affari esteri Martin Artajo,
che prima di entrare nel governo era stato presidente dell'Azione
Cattolica spagnola. Il Padre raccontò che, con sua grande
meraviglia, il ministro gli aveva detto di non capire "come si potesse
contemporaneamente essere consacrato alla Chiesa, anche con vincolo di
ubbidienza, e servire lo Stato".
Il
Padre gli spiegò che non c'era alcuna difficoltà,
poiché la materia dell'ubbidienza dovuta alla Chiesa era la
stessa per lui che per gli altri cattolici, consacrati o no a Dio: e
tale obbligo era di grado uguale, anche se a diverso titolo. Ma il
ministro non riuscì a comprendere tale luminosa e palmare
verità, e diede ordine di non ammettere nel corpo
diplomatico dei membri dell'Opus Dei, o persone considerate tali, anche
se avessero vinto il relativo concorso. Contro ogni senso di giustizia,
tale ordine fu efficace in diversi casi concreti" (34).
"Famiglia
Cristiana", in un numero di poco precedente la beatificazione di
Josemaria Escrivà, ha pubblicato un ampio servizio sull'Opus
Dei, indagando anche sulle riserve espresse da qualche parte circa
l'opportunità di questa decisione pontificia. Veniva a galla
pure il problema dell'asserita compromissione con il regime franchista.
A
questo proposito "Famiglia Cristiana" pubblicava ampi stralci di una
lettera fino ad allora inedita di monsi-gnor Escrivà a Paolo
VI. La lettera risale al 1964. Leggiamo quanto riporta l'autore
dell'indagine: "Anche sul versante dell'impegno nella
società si erano moltiplicate le critiche all'Opus Dei,
accusato di mirare alle leve del potere politico ed economico.
Soprattutto in Spagna, dove alcuni membri erano stati ministri di
Franco e qualche altro era stato coinvolto in disavventure finanziarie.
Nella
lettera a Paolo VI monsignor Escrivà risponde: "Mi si
conceda far presente, Santo Padre, che i membri numerari e
soprannumerari dell'Opus Dei che collaborano con Franco in posti di
governo o di sottogoverno, lo fanno liberamente, sotto la loro
personale responsabilità: e non come tecnici, ma come
politici, allo stesso modo degli altri cittadini - senz'altro
più numerosi - che collaborano in posti analoghi e che
appartengono all'Azione Cattolica, alla Asociación
católica nacional de propagandistas, ecc. Per quanto io
sappia, l'unico che chiese permesso alla gerarchia per collaborare con
il governo di Franco fu Martin Artajo (presidente dell'Azione Cattolica
spagnola), per tredici anni ministro degli Affari esteri [...]. Quando,
invece, il professor Ullastres e il professor Lopez Rodò,
ambedue dell'Opus Dei, furono nominati rispettivamente ministro del
Commercio e commissario del piano di sviluppo economico e sociale, la
notizia di queste due nomine, che essi avevano accettato liberamente,
l'appresi dalla stampa"".
Prosegue
l'articolo: "Nella lettera a Paolo VI, monsignor Escrivà si
mostra preoccupato, già nel 1964, del dopo-Franco e respinge
l'accusa di filofranchismo lanciata all'Opus. Racconta al papa d'aver
parlato recentemente con cardinali e vescovi spagnoli, con i quali "mi
sono preso la libertà di dir loro anche che, se la
rivoluzione si scatena, sarà molto difficile fermarla: e
perciò - usando parole della Sacra Scrittura - 'non pensiate
che sarà sufficiente un solo capro espiatorio [l'Opus Dei,
N.d.R.]: capri espiatori sarete tutti voi'.
Perché
si possono riunire delle buone collezioni degli elogi pubblici e
smisurati che tanti vescovi hanno indirizzato al regime, cosa che non
si può dire, invece, di me, anche se riconosco che Franco
è un buon cristiano". E aggiunge: "Penso che sarebbe
opportuno preparare al più presto un'evoluzione del regime
spagnolo, per evitare l'anarchia, il comunismo, che spazzerebbero via
dalla Spagna la Chiesa...". Non ritiene utile per la Spagna un partito
unico dei cattolici, che gli sembrerebbe anzi assai pericoloso
"perché potrebbe incominciare servendo la Chiesa e finire
facilmente con il servirsi della Chiesa, che non sarà
più in grado di liberarsene, dovendo così
sopportare una specie di ricatto morale.
Questa
libertà dei cattolici sembra che dovrebbe dar luogo a una
conveniente varietà - non a una atomizzazione - nelle
soluzioni temporali: e, allo stesso tempo, dovrebbe condurre a una
solida unità in ciò che è essenziale
per la Chiesa, che stia al disopra di tutti i compromessi di gruppo e
di partito"".
"L'italiano
della lettera" conclude "Famiglia Cristiana" "non è
elegante, ma il pensiero è lucido e attuale" (35).
C'era dunque una disparità di vedute tra il fondatore
dell'Opus Dei e parecchi altri cattolici spagnoli, anche in seno alla
gerarchia. E sembra di comprendere che l'avversione per l'Opus Dei
nascesse pure dal persistente rifiuto del fondatore e dei membri di
agire in politica secondo un criterio ufficiale, da "partito unico".
Peraltro
va notato che la decisione di monsignor Escrivà di
trasferirsi a Roma nel 1946, e di trasferire quanto prima nella
Città Eterna il governo centrale dell'Opus Dei, mostra il
chiaro desiderio di assicurare all'Istituzione la dimensione universale
propria della sua essenza e con la quale era nata, e pure di sottrarsi
a pressioni politiche locali, anche forti. In un numero di "Limes",
rivista di geopolitica, Salvatore Abbruzzese sottolinea che "per
Escrivà de Balaguer l'espansione internazionale è
inscritta nella sostanza stessa dell'Opus Dei, è una sua
condizione di esistenza" (36).
Di
fatto il fondatore aveva progettato di iniziare l'apostolato in altri
Paesi europei già nel 1935-36, ma la guerra civile e poi la
guerra mondiale imposero che ci si limitasse al Portogallo.
Immediatamente dopo la fine delle ostilità membri dell'Opus
Dei si trasferirono in Inghilterra, in Francia, in Italia, negli Stati
Uniti, in Messico. Frattanto si attivavano tutti i tramiti per ottenere
le approvazioni pontificie consone a questo carattere internazionale.
A
fronte di tutto ciò è chiaro che l'Istituzione
non poteva lasciarsi considerare un "fatto spagnolo", quale non era,
nonostante la sua nascita a Madrid e i suoi primi sviluppi oltre i
Pirenei.
Le critiche alla "mentalità da partito unico", non consona
allo spirito dell'Opus Dei in quanto istituzione che non può
e non vuole obbligare le scelte temporali dei membri, tornano spesso
negli scritti editi del beato Escrivà, e risultano
illuminate dalla citata lettera a Paolo VI. Vi si colgono anche
l'originalità e la diversità dell'Opus Dei,
nell'ambito di quella "teologia del laicato" che sarà
esposta in tutta la sua ampiezza nel Concilio Vaticano II.
Per
esempio: "Mi ha sempre infastidito il contegno di coloro che si servono
del nome di cattolico per farne una qualifica professionale; come pure
il contegno di coloro che negano la responsabilità
personale, che è il principio
su cui si basa tutta la morale cristiana. Lo spirito dell'Opera e
quello dei suoi membri è questo: servire la Chiesa e tutti
gli uomini, senza servirsi della Chiesa. A me piace che il cattolico
porti Cristo non nel titolo ma nella condotta, e offra una
testimonianza reale di vita cristiana" (37).
E,
più dettagliatamente, rispondendo alla domanda se il "fatto
che ci siano dei membri dell'Opera nella vita pubblica spagnola non
è servito a politicizzare in qualche modo l'Opus Dei in
questo paese": "Questo non succede né in Spagna
né in alcun altro paese [...]. Persone formate a una
concezione militaristica dell'apostolato e della vita spirituale,
saranno portate a interpretare il lavoro libero e personale dei
cristiani come un'azione di gruppo. Ma io le dico, e non mi stanco di
ripeterlo dal 1928 a questa parte, che la diversità delle
opinioni e delle scelte pratiche, nelle questioni temporali e nel campo
teologico lasciato alla libera discussione, non costituisce affatto un
problema per l'Opera: anzi, il pluralismo che esiste ed
esisterà sempre fra i membri dell'Opus Dei è una
manifestazione di buono spirito, di onestà di vita, di
rispetto delle legittime opzioni di ciascuno" (38).
Quanto
ai rapporti diretti tra il fondatore dell'Opus Dei e il generale
Franco, i due si conoscevano, e sarebbe stato difficile il contrario,
vista la notorietà di entrambi.
Franco, uomo di vita cristiana, conosceva la buona fama di cui godeva
il fondatore dell'Opus Dei; in una occasione, anzi, questi fu invitato
a predicare gli esercizi spirituali al Capo dello Stato. L'episodio
ebbe aspetti poco protocollari, che evidenziano la preoccupazione
pastorale del fondatore.
È
riportato da Berglar: "Quando, negli anni Quaranta, monsignor
Escrivà diresse alcuni giorni di ritiro spirituale a Franco
e alla sua famiglia, pensò bene che non sarebbe stata
superflua una meditazione sulla morte. Il Capo dello Stato
ascoltò attentamente le considerazioni spirituali su tale
argomento e commentò che aveva pensato qualche volta a un
tale evento, come era naturale, e che aveva preso le misure opportune.
Evidentemente, in quel momento la morte era per lui un problema
essenzialmente politico [...]. Più tardi, quando il vescovo
di Madrid seppe queste cose, disse a don Josémaria la prima
volta che si incontrarono: "Dopo questo, in Spagna lei non
diventerà mai vescovo". "Mi basta essere sacerdote" fu la
risposta del fondatore" (39).
Mi
si consenta una deduzione: è plausibile che a monsignor
Escrivà, una volta residente a Roma, non sfuggisse
l'opinione che di Franco si aveva all'estero (complici la guerra
mondiale, il crollo delle dittature italiana e tedesca e il generale
sentimento antitotalitario), opinione che invece in Spagna era
più difficile formarsi.
Se
le cose stanno così, egli dovette accettare consapevolmente
il rischio di una leyenda negra internazionale, e dura da cancellare
negli anni successivi, come prezzo da pagare per il rispetto della
libertà di quei figli suoi che, responsabilmente, avevano
scelto di stare con Franco in politica. Lo suggeriscono pure alcune
parole che, pronunciate in pubblico nel 1964 durante una visita in
Spagna, apparvero su "Le Monde", che era un canale privilegiato per far
giungere in Spagna ciò che non si poteva scrivere entro i
suoi confini: "Forse il mio unico fanatismo è quello della
libertà. Come potrei essere libero, io, se non rispettassi
la libertà degli altri? Nell'Opus Dei ciascuno pensa come
vuole, a condizione di non offendere Cristo. Per questo siamo amici
della libertà delle coscienze" (40).
Nel
libro Intervista sul fondatore dell'Opus Dei si narra di un altro
incontro successivo con il Generalissimo, chiesto dal beato
Escrivà per difendere la libertà di opinione di
un membro dell'Opus Dei.
"Era
successo che un membro dell'Opera aveva scritto un articolo di dissenso
nei confronti del regime franchista. La reazione delle
autorità fu molto dura e lo costrinsero all'esilio. Su
questo fatto il Padre non aveva nulla da ridire, poiché si
trattava di questioni in cui egli non entrava: riguardavano
esclusivamente i suoi figli in quanto cittadini liberi e responsabili
di se stessi.
Ma,
tra le altre ingiurie scagliate contro quel membro dell'Opera, dissero
che "era una persona senza famiglia". Il nostro fondatore
reagì come un padre che difende i suoi figli. Si
recò immediatamente in Spagna, chiese un'udienza a Franco e
fu ricevuto subito; senza entrare nel merito delle divergenze
politiche, affermò con molta chiarezza di non poter
tollerare che di un figlio suo si dicesse che era un uomo senza
famiglia: aveva una famiglia soprannaturale, l'Opera, ed egli si
considerava suo padre.
Franco
gli domandò: "E se lo mettono in carcere?". Il Padre rispose
che avrebbe rispettato le decisioni dell'autorità
giudiziaria, ma nessuno gli avrebbe impedito di portare a quel figlio
suo tutta l'assistenza spirituale e materiale di cui aveva bisogno, se
davvero lo mettevano in prigione" (41).
Monsignor
Del Portillo cita anch'egli la lettera al papa del 1964, aggiungendo
qualche particolare interessante: "Lo preoccupava il problema della
successione a Franco. Non esitò a farlo sapere direttamente
all'interessato, e non trascurò di sensibilizzare su questo
delicato argomento i vescovi spagnoli che lo venivano a trovare. Il
fondatore seppe anche resistere a sollecitazioni che gli vennero dal
Vaticano affinché prendesse iniziative in questo campo: egli
rifiutò di farsi tramite di alcunché,
perché non era sua missione immischiarsi in politica. Il
punto su tutta questa materia venne fatto dal Padre stesso in una
lettera di coscienza indirizzata il 14 febbraio 1964 a Paolo VI, senza
dar adito ad alcuna possibilità di equivoco" (42).
Torniamo
al punto da cui siamo partiti. Da una parte l'Opus Dei, l'unanime
pronunciamento del fondatore e di tutti i membri circa la
libertà e la responsabilità di ciascuno.
Dall'altra una congerie di accuse, di illazioni, di addebiti. In mezzo
i fatti, che, se un merito hanno, è di andare per conto loro.
Ciascuno,
se il viaggio gli è servito, tragga le sue conclusioni.
Però credo che, a questo punto, sia lecito azzardare una
domanda fino a qualche anno fa quasi impronunciabile: e se fosse
proprio così? E se l'Opus Dei fosse davvero un fenomeno
raro, forse unico, in cui ci si vincola soltanto per fini spirituali e
si cerca di far bene, per proprio conto, ciò che a ciascuno
va in coscienza di fare? E se sotto, per una volta, non ci fosse niente
di tutto ciò che si è voluto vedere? Se non ci
fosse niente, e basta?
A
ben vedere, è proprio questo che più affascina
dell'Opus Dei. Sapere che esiste un'Istituzione (un'Istituzione della
Chiesa) che non ingloba, non lottizza. Che chiede tutto ("tendi alla
santità, in unione con Cristo") e non chiede niente ("scegli
tu come agire"); e per giunta dà gli aiuti spirituali
necessari. Un'Istituzione il cui fondatore era così
pazzamente paterno da affrontare un faccia a faccia con il
Generalissimo senza nessun altro fine pratico che non fosse l'affetto
per un suo figlio offeso.
I
mezzi di comunicazione spesso hanno fissato l'attenzione sulle
questioni politiche, o comunque pubbliche, in cui intervengono membri
dell'Opus Dei. Ma questa chiave di lettura, come ho cercato di
mostrare, è limitante. Al di là dei bagliori
della cronaca, dal punto di vista storico sembra assai più
significativo e ricco di prospettive percepire il fenomeno composto da
migliaia di persone che, giorno dopo giorno, nelle occupazioni
più diverse, cercano di tradurre in realtà un
messaggio che si compendia in poche parole del fondatore: "Conoscere
Gesù Cristo. Farlo conoscere. Portarlo dappertutto".
È
accidentale che si svolga un lavoro piuttosto che un altro.
Fondamentale e senza precedenti è, invece, il "fatto
cristiano" costituito da una vera e propria mobilitazione di uomini e
di donne, di tutto il mondo, che si sforzano di vivere nelle loro
attività temporali la pienezza della vocazione evangelica.