C'era una volta Franco
La questione di una "compromissione" dell'Opus Dei con il regime del generale Francisco Franco, che ha retto la Spagna dal 1939 al 1975, soltanto in apparenza è semplice da comprendere e da risolvere. Per dirne una, ha ben diverso spessore - storico e giornalistico - in Spagna e fuori di Spagna.
Ai non spagnoli, in effetti, il problema non interessa molto, se non a grandi linee. Questo significa che si è soliti liquidarlo in poche battute; ed ecco come mai sull'Opus Dei l'ombra del "filofranchismo" ha finito per gravare come una macchia vischiosa, difficile da lavare. Repertori, dizionari, enciclopedie se la cavano spesso restando sul generico: "Ha filiali in 73 Paesi, ma è potente soprattutto in Spagna: nonostante l'autonomia nominale che l'associazione riconosce ai suoi membri nell'azione politica e civile è considerata un gruppo di pressione all'interno del regime franchista, come portavoce degli ambienti liberal-tecnocratici" (1). Fonte dell'informazione: un altro repertorio che diceva più o meno lo stesso qualche tempo prima. Viene da chiedersi: chi definisce "nominale" l'autonomia? Chi "considera" l'Opus Dei un gruppo di pressione?
Mi è già capitato di studiare la figura e l'opera del fondatore, Josemarìa Escrivà, per renderne conto ad altri (2). E dunque, nei limiti della mia competenza, dello spazio disponibile e di una documentazione che è, sì, ampia, ma necessariamente incompleta, iniziamo un tour de force attraverso la controversia.
Non desidero
inanellare illazioni, affastellare citazioni generiche, dire la parola ultima
o penultima; mi limiterò a far parlare alcuni dei protagonisti, integrando
qui e là il discorso con le opportune informazioni.
Chi voglia sapere qualcosa di non superficiale sull'argomento si imbatte subito
in due posizioni nettamente contrastanti: quella dell'Opus Dei, che ha sempre
asserito la propria estraneità al sistema politico franchista, e quella
della "fama" suddetta, che invece l'accusa di collusione; un'accusa
che sembra muovere da numerosi fronti e che si tinge di sfumature diverse
e perfino contraddittorie.
Alla base delle discussioni c'è un fatto incontrovertibile: alcuni membri dell'Opus Dei hanno fatto parte del governo spagnolo durante il regime di Franco. Così riassume la circostanza lo storico tedesco Peter Berglar: "Nel 1957, Franco riorganizzò la compagine ministeriale in vista del risanamento di una situazione economica precaria, specialmente per quanto riguardava la bilancia commerciale con l'estero. Per avviare la Spagna verso un sistema economico e finanziario capace di competere con il mondo moderno, nominò ministri alcuni specialisti ben qualificati, che provenivano dalle banche e dall'università. Due di loro erano membri dell'Opus Dei: Alberto Ullastres, docente di storia dell'economia nell'Università di Madrid, fu nominato ministro del Commercio; Mariano Navarro Rubio, direttore amministrativo del Banco popular, fu chiamato al ministero delle Finanze. Più tardi, si aggiunsero Gregorio Lopez Bravo, come ministro dell'Industria, e Laureano Lopez Rodò, come ministro senza portafogli e commissario generale del piano di sviluppo economico.
Questi due ultimi, qualche anno dopo, in epoche diverse, furono anche ministri degli Esteri. Nelle pubblicazioni specializzate, si suole parlare di "era tecnocratica" del regime franchista, come a voler indicare che, allora, dalla priorità dell'ideologia si passò a quella del pragmatismo" (3). Tra i "tecnocrati" c'erano persone del tutto estranee all'Opus Dei, e c'erano membri dell'Asociación católica nacional de propagandistas.
Qui finisce il
fatto. E iniziano le polemiche.
Ma, prima di entrare nel merito, mi paiono essenziali due premesse. La prima,
che un tempo pareva ovvia, oggi non lo sembra più tanto: quando c'è
in ballo un'accusa è la colpevolezza che va provata, non l'innocenza.
Ovvero - qui sta la differenza tra calunnia e imputazione - tocca all'accusa
trovare ed esibire le prove. E di prove che l'Opus Dei abbia avuto e perseguito
un disegno di fiancheggiamento politico, come vedremo, è davvero difficile
addurne; né certo basta dire che l'esistenza dei "ministri"
prova l'esistenza del "disegno".
Seconda premessa: il problema del franchismo è lontanissimo dall'essere risolto, anzitutto in Spagna. È una lunga scia complessa che attraversa ampia parte del secolo. È tuttora una piaga aperta. Per seguire Franco, e poi per dimenticarlo, gli spagnoli hanno fatto l'impossibile, con il risultato di ritagliare la sua silhouette, per contrasto, quasi dappertutto. È difficile trovare uno spagnolo sereno su questo argomento. Questo implica che è difficile trovare una fonte spagnola serena a cui riferirsi; e dunque il ricercatore non spagnolo deve muoversi con molta cautela nel dare giudizi in materia.
Franco era un dittatore, ma non un Mussolini o un Hitler. Tanto per cominciare, il suo regime è vissuto e morto - salvo numerabili eccezioni - in modo tutto sommato incruento, dando luogo, quasi spontaneamente, a un'evoluzione democratica nel segno della monarchia retta da Juan Carlos, secondo i disegni del Caudillo. Franco ha posto fine, bene o male, alla guerra civile più sanguinosa nella storia dell'Occidente, e subito dopo ha evitato al suo Paese il cruento pedaggio della guerra mondiale. In politica estera e in diplomazia, a fronte di una situazione difficilissima, ha ottenuto successi inconfutabili.
Circa il seguito che aveva all'interno, "Vida Nueva", una rivista apertamente contraria al regime, scriveva all'indomani dei suoi funerali: "La morte di Franco è stata - e crediamo che nessuno possa discuterlo - una scossa alla coscienza nazionale. Abbiamo visto centinaia, migliaia di occhi che piangevano, abbiamo toccato il silenzio commosso e commovente di Madrid, per lunghi giorni. Un'ondata di sincero affetto e profondo rispetto, l'entusiasmo di molti davanti a una figura che era per loro un eroe, un salvatore, quasi un santo. E non erano, certo, dei favoriti dalla fortuna o dalla politica: erano ricchi e poveri, colti e semplici, vecchi e giovani" (4).
Insomma, qualsiasi giudizio si voglia dare sull'uomo, sull'idea, sul contesto, sul periodo, occorre tener conto almeno di un dato essenziale: Franco e la Spagna hanno costituito per quarant'anni un nodo storico unico e non omologabile ad altri. Se ancora gli spagnoli non l'hanno sciolto, vogliamo riuscirci noi, in due parole?
Ma prendiamo
il toro per le corna, esaminiamo le varie posizioni circa la militanza di
membri dell'Opus Dei nei governi franchisti.
L'Opus Dei - sia come istituzione, sia per bocca dei membri interessati -
ha sempre sostenuto che, semplicemente, il fatto non è significativo:
l'Istituzione non ha fini politici. Essendo i membri vincolati soltanto per
motivi ascetici e di formazione cristiana, quel che ognuno di loro fa nel
proprio lavoro, in politica, nel campo economico o culturale, è affare
personale.
È ovvio che questi ambiti andranno "santificati", cioè vissuti cristianamente, ma il "come" (vale a dire le scelte e le posizioni) è a totale carico del singolo. Dunque, non esistono esponenti dell'Opus Dei in politica, ma donne e uomini (cristiani) che fanno politica e, per inciso, sono membri dell'Opus Dei.
Per quanto riguarda
i membri dell'Opera, sparsi in tutto il mondo e appartenenti a ogni ceto sociale,
la cosa è pacifica. A dir loro, lo dimostra la vita quotidiana: nessuno,
nell'Opus Dei, si è mai sognato di pensare o di agire diversamente.
Non è infrequente, leggendo il giornale, imbattersi in una precisazione
dell'ufficio informazioni della Prelatura rispetto a precedenti notizie di
questo tenore: "L'Opus Dei, cioè Tizio, ha detto, ha fatto"
e via dicendo. La replica di solito suona così: "Tizio non è
"l'Opus Dei", ed è libero di dire o di fare quel che vuole
senza che ciò coinvolga la Prelatura".
Ripetere i concetti è utile, come gli anni e gli eventi hanno confermato.
Oggi, specie dopo la beatificazione del fondatore, molti conoscono meglio
l'Opus Dei e sanno che i membri sono persone come le altre, non automi telecomandati.
Ma negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, non sempre ciò era altrettanto
chiaro.
Non è, per di più, soltanto una questione "tecnica". Il fondatore riteneva e predicava che la comprensione di questo punto è capitale per la maturazione del laicato cristiano nella linea del Concilio Vaticano II: finché non si comprende che per un qualsiasi cristiano, lavoratore e cittadino fra gli altri, è possibile ed essenziale agire nel mondo senza etichette neppure confessionali e tanto meno gerarchiche, non si è finito di comprendere la cristianizzazione delle realtà temporali.
Fatto sta che la pubblicistica, anche quando era equilibrata e in buona fede, spesso non rimaneva convinta dalle affermazioni di principio sulle vicende politiche spagnole. Dopotutto è un fatto che i "ministri dell'Opus Dei" ci sono stati.
I riferimenti italiani per verificare sono a loro modo sintomatici. Tornando al caso emblematico di Pro e contro Franco, che ho citato all'inizio, per completare l'informazione quel dossier riprende un libro violentemente contrario al regime di Franco e alla Chiesa, edito in spagnolo a Parigi per evidenti motivi politici: quello di Jesùs Ynfante (5), in cui la storia è riassunta così: "La penetrazione degli associati dell'Opus Dei nell'apparato statale spagnolo si è realizzata a tappe successive: prima del 1951, nel campo dell'educazione e della ricerca scientifica hanno monopolizzato quasi tutte le cattedre universitarie; dopo di allora gli associati hanno fatto la loro comparsa nelle direzioni generali di alcuni ministeri [...]. Poi, a partire dal 1957, hanno avuto dei ministri (soprattutto all'economia); fino a quando, nel 1969, la costituzione di un governo "omogeneo" ha fatto apparire nella sua impressionante realtà il monopolio politico dell'Opus Dei in Spagna" (6).
La realtà
è davvero così? Dissipiamo il fumo dei "si dice" e
guardiamo come stanno le cose.
Sulla "schiacciante supremazia dell'Opus Dei nei governi franchisti"
ci aiutano non poco le nude cifre. Eccole: su 116 ministri nominati da Franco,
in undici governi, dal 1939 al 1975, soltanto otto erano membri dell'Opera,
di diverse tendenze politiche. Il primo governo spagnolo che comprende membri
dell'Opus Dei è quello che inizia il 25 febbraio 1957. Otto ministri
su 116, in quarant'anni; dei quali uno muore tre mesi dopo la nomina e altri
quattro mantengono la carica soltanto per un governo.
Andiamo avanti. Un'altra nota discordante la troviamo nella vita e nell'opera di Rafael Calvo Serer, docente universitario, intellettuale, editore e direttore di periodici: uno degli uomini più rilevanti nella vita culturale spagnola del dopoguerra. Membro dell'Opus Dei, Calvo Serer è un monarchico liberale, fieramente avverso al regime franchista. Nel 1953 viene espulso dal Consiglio superiore per la ricerca scientifica per aver pubblicato a Parigi un saggio critico verso la politica interna del governo spagnolo. Nel 1966 è direttore del quotidiano "Madrid", che durerà cinque anni: nel novembre 1971 la censura ne impone la chiusura.
Calvo Serer, che ha già dovuto affrontare numerose accuse e processi giudiziari, è costretto all'esilio, a Parigi. Al rientro in Spagna dovrà subire gravi difficoltà, e poi non gli sarà possibile riaprire il suo giornale. Sarà tra i fondatori della Junta democràtica (tra i quali c'è anche Santiago Carrillo, segretario del partito comunista spagnolo), che in clandestinità prepara l'avvento della democrazia in Spagna.
Un altro membro dell'Opus Dei nel quotidiano "Madrid", di cui era il caporedattore, è Antonio Fontàn. Così descrive il clima del giornale: "Noi del "Madrid" ci vedevamo come gli avvocati della libertà pubblica, specie della libertà di associazione politica, sindacale e di opinione [...]. Si trattava propriamente dell'introduzione di una democrazia parlamentare, di libere elezioni e di un arco di partiti politici. La libertà non andava concessa passo dopo passo, ma in modo globale" (7).
È da notare che Fontàn, ordinario di filologia classica, fra i più conosciuti oppositori di Franco, nel nuovo clima postfranchista del 1977 sarà eletto al senato. Da presidente del senato parteciperà in modo decisivo all'elaborazione della Costituzione democratica della Spagna.
Casi analoghi riguardano l'agenzia Europa Press e il quotidiano "El Alcàzar" (100 mila copie), in cui lavoravano giornalisti allora e tuttora famosi in Spagna. Alcuni (una decina su duecento) erano dell'Opus Dei. Europa Press fu sottoposta a innumerevoli vessazioni, e nel 1967 "El Alcàzar" fu sottratto con le cattive all'editore e alla redazione.
"Madrid",
Europa Press ed "El Alcàzar", secondo voci diffuse, passavano
(e talora passano) tout court per essere "dell'Opus Dei".
Ma tutto questo accade mentre nel governo di Franco che li perseguita sono
presenti, e "vincenti", altri membri dell'Opus Dei. Come combacia
questo con l'immagine di un'Opus Dei proteso verso il "monopolio politico"
dalla parte del dittatore?
Poco prima di morire (di tumore, nel 1988), Calvo Serer scrive una breve nota autobiografica in cui fra l'altro compaiono le seguenti parole: "Non sono mai stato né posso essere l'ideologo dell'Opus Dei. Se sono ideologo di qualcosa, lo sono delle mie convinzioni intellettuali, delle mie personali idee culturali, politiche e professionali, che non hanno niente da spartire con la dottrina dell'Opus Dei, che si limita al campo meramente spirituale [...]. Non ha senso parlare di una frattura interna nella gerarchia dell'Opus Dei, basandosi sul fatto che io dissento rispetto ad altri membri dell'Opera in questioni politiche e professionali. Ciascuno dei membri dell'Opera agisce secondo i dettami della propria coscienza personale, e mai secondo quelli della coscienza di un altro: agiscono con totale libertà e responsabilità personali. Non ho mai ricevuto, né dai dirigenti né dai sacerdoti dell'Opus Dei, altro che consigli spirituali, e ho sempre avuto e ho la libertà di seguirli o di non seguirli" (8).
"Frattura interna"? Evidentemente in Spagna qualcuno pensava e diceva che, vista la netta contrapposizione fra le posizioni di questo e quel membro dell'Opera, dovevano esservi almeno due linee di pressione. Ma questo non corrisponde all'immagine accreditata di una strategia unitaria, in cui i diversi membri sono esecutori di un piano occulto per la conquista e il mantenimento del potere.
Dunque, troviamo una discrepanza: l'Opus Dei è un gruppo monolitico? Oppure è un gigante diviso? O hanno ragione i diversi membri che, dalle posizioni individuali più varie, sostengono di muoversi secondo criteri esclusivamente personali?
Per dovere di completezza devo citare un altro tipo di letteratura, che nega che nell'Opus Dei esistessero disegni politici e la volontà di perseguirli; e lo fa addirittura per le ragioni opposte. Guardando alla Spagna sotto l'ottica di un presunto "nazionalcattolicesimo", si asserisce: "In realtà l'Opus Dei né formula un programma politico [...] né possiede gli strumenti con i quali elaborare teologicamente l'autonomia della sfera politica e il conseguente pluralismo su questo piano. C'è nell'Opus una separazione implicita, di fatto, della religione dalla politica. E a una concezione deideologizzata della politica come tecnica, corrisponde un'interiorizzazione della fede di chiara natura borghese. Per paradossale che appaia, è la povertà politica dell'Opus a spiegarne la collocazione e il ruolo nel franchismo" (9).
Dunque, ci sarebbe l'assenza del disegno egemonico e anche della lucidità teoretica che, ci fosse stata, l'avrebbe imposto. Ma, a onor del vero, riesce difficile dar credito all'analisi storica di chi definisce Cammino un "precettano di banalità, devozione e pietà tradizionali", e lo ritiene "privo della pur minima consapevolezza teologica" (10).
Diamo la parola a un'altra parte in causa. Rodolfo Martin Villa è stato direttore generale del ministero spagnolo dell'Industria nel periodo in cui era ministro Gregorio Lopez Bravo, membro dell'Opus Dei. In occasione della morte di quest'ultimo, in un incidente aereo nel 1985, Martin Villa ha scritto: "Io non sono dell'Opus Dei. Questa però era una delle leggende che circolavano, perché si supponeva che qualsiasi direttore generale o collaboratore principale di un ministro dell'Opera dovesse appartenere necessariamente a questa organizzazione. Io stesso, nell'entrare a far parte dei quadri del ministero dell'Industria, incorsi in tale supposizione: credevo che tutti fossero dell'Opera, e risultò che a tutti, tranne che a uno, accadeva lo stesso: vale a dire, che non lo erano" (11).
E poco sopra: "Nel 1968, durante la discussione della legge finanziaria, fu proposto un emendamento contro una sovvenzione all'Università della Navarra. Io lo sostenni, votando a favore. L'emendamento vinse e l'aiuto fu soppresso [...]. Secondo un'opinione diffusa a quei tempi si sarebbe immaginato che un ministro dell'Opus Dei avrebbe dovuto arrabbiarsi con il suo direttore generale che, in quanto parlamentare, aveva votato contro gli interessi dell'Università della Navarra. Non dico che ci si sarebbe dovuto aspettare un licenziamento, ma almeno un rimbrotto sarebbe rientrato fra le regole del gioco.
Ebbene, il primo
giorno che lo incontrai fui io, con naturalezza, a proporre la questione,
spiegando le mie ragioni. Le comprese perfettamente e l'episodio non produsse
la minima ombra nei nostri rapporti successivi" (12).
"Un'opinione diffusa" e nessun fatto documentato. Come andavano
davvero le cose?
Per capirlo bisogna
allargare l'obiettivo.
Il vero problema non riguarda l'Opus Dei e il franchismo, ma i rapporti del
franchismo con la gerarchia ecclesiastica spagnola. Così ne ha parlato
il successore del fondatore, l'attuale Prelato dell'Opus Dei, monsignor Alvaro
Del Portillo: "Nel caso del franchismo, bisogna ricordare che la conclusione
della guerra civile segnò il rifiorire della vita della Chiesa, delle
associazioni, delle scuole cattoliche, con una netta presa di posizione della
gerarchia a favore del generale Franco, che ovunque era considerato provvidenziale.
Basti pensare che, al termine della guerra civile, sulla facciata delle cattedrali
era stata apposta la scritta della Falange: "Caduti per Dio e per la
Spagna. Presenti!". Il fondatore dell'Opus Dei protestò più
volte per questo abuso" (13).
Antonio Fontàn è della stessa opinione: "II regime autoritario di Franco non dovette temere, all'origine, alcuna opposizione seria dal lato cattolico. Ciò soprattutto perché sussisteva il fatto sanguinoso che lo sconfitto Fronte Popolare aveva scatenato una crudele persecuzione contro la Chiesa. Nella Spagna "repubblicana" furono assassinati all'inizio della guerra civile più di seimila sacerdoti, fra i quali tredici vescovi [...]. Quando Franco prese il potere, terminò la politica discriminatoria verso la Chiesa.
Si cominciarono a ricostruire le chiese e i monasteri, che erano ridotti a cumuli di macerie. I gesuiti recuperarono i beni sottratti dai repubblicani. Molte scuole private, in gran parte confessionali, furono equiparate a quelle statali; nelle aule si tornò a poter appendere i crocifissi. Il diritto matrimoniale tornò a corrispondere alle leggi ecclesiastiche. E così i cattolici, dopo la dura prova, poterono di nuovo respirare liberamente riguardo ai loro interessi confessionali.
E tuttavia questo fu tutto, se si tiene presente che il regime del Generalissimo estirpò o sottomise completamente con mano autoritaria i diritti di libertà che a ciascuno spettano come persona: fra questi la libertà di associazione, di opinione, di stampa. Se non si tornò in massa alle barricate lo si dovette certo alla reintegrazione confessionale, ma anche al generale sfinimento dopo la guerra civile" (14).
"Lo Stato perfetto, per noi, è lo Stato cattolico. Non ci basta che un popolo sia cristiano perché si compiano i precetti di una morale di quest'ordine; sono necessarie leggi che mantengano il principio e correggano l'abuso. L'abisso, la differenza più grande fra il nostro sistema e quello nazifascista è la caratteristica cattolica del regime che oggi presiede i destini della Spagna. Né razzismo, né persecuzioni religiose, né violenza sulle coscienze, né imperialismo sui vicini, né la minima ombra di crudeltà hanno spazio sotto il sentimento spirituale e cattolico che presiede la nostra vita": sono parole di Francisco Franco (discorso del 14 maggio 1946) (15).
E "l'atteggiamento
della gerarchia ecclesiastica, romana e spagnola, davanti al regime di Franco
durante il periodo 1939-62, si potrebbe riassumere in tre parole: riconoscenza,
gratitudine, appoggio" (16).
Ma a questo punto è d'obbligo introdurre una ulteriore considerazione.
Questa: nella Spagna del franchismo è difficile trovare persone che
abbiano una vita pubblica e non siano cattoliche.
Non è soltanto una questione di convenienza, benché sia certo che non sarebbe possibile esprimersi altrimenti in uno Stato tirannico che si professa tale; è anche un fatto, un fatto di fede espressa e praticata. Per il 31 maggio 1964, a Madrid, viene indetto un appuntamento pubblico di carattere particolare: recita del rosario. Vi partecipa più di un milione di persone; il vicepresidente del governo guida il primo mistero. Fra le autorità presenti primeggiano il principe ereditario e la consorte. A un giornalista che lo interroga sull'iniziativa, Juan Carlos risponde: "E un atto personale, intimo, anche se vi prende parte un milione di persone" (17).
Non si capisce la Spagna, né la Spagna franchista, se non si capisce che la fede cattolica in quel Paese era un fatto diffuso, popolare, spontaneo. Si può dire, anzi, che i rapporti tra Chiesa e Stato, con i grandi cambiamenti avvenuti tra il 1936 e il 1975, sono in buona parte cambiamenti della Chiesa e nella Chiesa (e più precisamente nel clero, prima che nella popolazione): la Chiesa che riceve nuove luci dal Concilio Vaticano II, la Chiesa che risente, come dappertutto, della secolarizzazione.
Chi parla di "nazionalcattolicesimo" come fatto soltanto politico e opportunistico dovrebbe spiegare come mai, tanto per fare un esempio, un uomo come Manuel Azana, colui che disse: "La Spagna ha cessato di essere cattolica", il membro del comitato rivoluzionario repubblicano, indi ministro della Guerra del governo "rosso" e infine presidente della Repubblica spagnola durante lo scontro con Franco, fuggito poco prima della disfatta, muore esule a Parigi nel 1940, ma chiedendo i sacramenti e riconoscendosi in pieno nella fede della Chiesa romana. I cattolici sono dappertutto, al governo e fuori: semplicemente, la fede non è un elemento che faccia distinzione; e ciò spiega, fra l'altro, come non sia avvertita l'esigenza di un "partito cattolico" che sia anche nominalmente tale.
Il 1° luglio 1937 i vescovi spagnoli avevano sottoscritto collettivamente una lettera aperta di questo tenore (soltanto due presuli rifiutarono di firmarla): "Malgrado il suo spirito di pace e il suo desiderio di evitare la guerra e di non prendervi parte, la Chiesa di Spagna non poteva assistere indifferente alla lotta. Da una parte si sopprimeva Dio, del quale la Chiesa deve realizzare l'opera in terra, e si causava alla stessa Chiesa un torto immenso, nelle persone, nelle cose e nei diritti, forse più di quanto non sia mai successo nella storia. Dall'altra parte si ergeva lo sforzo cosciente di chi combatteva per la conservazione del vecchio spirito spagnolo e cristiano.
Affermiamo che il sollevamento civil-militare ha una duplice radice: il sentimento patriottico, che ha visto nella sollevazione l'unica maniera di risollevare la Spagna ed evitare la sua definitiva rovina; e il sentimento religioso che lo considerò come la forza che doveva ridurre all'impotenza i nemici di Dio" (18).
Tra il 13 e il 17 settembre 1971 si svolse a Madrid la prima "Assemblea congiunta di vescovi e sacerdoti". La mozione numero 34, non approvata per una questione formale, ma votata a grande maggioranza, suona così: "Reconocemos humildemente y pedimos perdón (riconosciamo umilmente e chiediamo perdono) di non aver saputo, a suo tempo, comportarci come avremmo dovuto, da veri ministri di Dio, mentre il nostro popolo era diviso da una guerra tra fratelli" (19).
Tra queste due dichiarazioni, come tra due parentesi, si inscrivono il complesso rapporto tra la Spagna cattolica e la dittatura franchista, la lacerazione tra le "due Spagne" di ieri e di oggi, una guerra civile i cui effetti hanno lungamente diviso fra loro gli spagnoli.
Indubbiamente, l'eliminazione della Chiesa era stata un obiettivo primario dei "rossi", e la controparte "nazionalista" offriva ben maggiori garanzie di sopravvivenza e di libertà ai cattolici e ai loro vescovi. Altrettanto indubbiamente el Alzamiento capeggiato da Franco ha cercato e ottenuto una legittimazione in ambito ecclesiastico, mantenendo con la gerarchia spagnola un rapporto privilegiato anche negli anni successivi alla conclusione della guerra civile. Per esempio, nel concordato del 1953 fu stabilito che i vescovi dovessero giurare davanti al generale Franco: "Davanti a Dio e ai santi vangeli prometto e giuro di rispettare e di fare in modo che il mio clero rispetti il Capo dello Stato e il governo, secondo le leggi spagnole" (20).
Dunque, è
logico che quanti si opponevano al regime vedessero nella Chiesa il più
grave degli avalli al loro avversario politico.
La gerarchia spagnola, dal canto suo, anche perché davvero grata per
l'aiuto ricevuto da Franco, non lesinò questo appoggio, andando talora
anche al di là della prudenza (malgrado taluni moniti che giungevano
dal Vaticano): in effetti non erano tutti cattolici da un lato, e i cattolici
non mancavano dall'altro. La Chiesa, in quelle circostanze, non fu al disopra
delle parti. Ciò le ha attirato, e ancora le attira, le critiche sia
di molti "democratici" sia dei "revanscisti" di sinistra.
"In quella situazione" commenta monsignor Del Portillo "il Padre, pur riconoscendo a Franco il merito della pacificazione, dovette opporre resistenza a due pericoli: da una parte la strumentalizzazione della fede, con la pretesa di monopolizzare la rappresentanza dei cattolici nella vita pubblica da parte di determinati gruppi; dall'altra la tendenza di alcuni ambienti cattolici a servirsi del potere pubblico come di un braccio secolare: le due facce del clericalismo, insomma" (21).
In questo contesto va analizzata la novità dell'Opus Dei, un'istituzione che offre a comuni cristiani la formazione affinché cerchino Dio nel proprio lavoro, senza "fare gruppo", senza ostentare la propria fede attraverso le appartenenze, ma piuttosto con l'esempio della vita. A quanti fra i membri dell'Opera hanno la ventura di impegnarsi direttamente in politica (e sono pochissimi rispetto al totale) anziché esercitare qualsiasi altro tipo di mestiere, questa loro decisione ha creato, per quel che è dato di vedere, parecchie incomprensioni. Ne elenco alcune per comodità e per dare al lettore un materiale il più possibile distinto; ma è ovvio che nella realtà le motivazioni si incrociano e talora si sovrappongono.
Innanzitutto, l'incomprensione più evidente risale agli avversati di Franco e insieme della Chiesa, cui non servivano scuse per attaccare l'Opus Dei. E, dal loro punto di vista, certo non pareva plausibile che "taluni" membri dell'Opera, notoriamente cattolici, appoggiassero il regime "a titolo personale", quando ben pochi cattolici, in quel frangente, agivano a titolo personale. Un esempio fra tutti: il presidente dell'Azione Cattolica spagnola, Alberto Martin Artajo, il 25 luglio 1945 diviene ministro degli Esteri del nuovo governo di Franco. Prima di accettare chiede e ottiene il permesso dell'autorità ecclesiastica.
In secondo luogo, il nuovo corso degli eventi politici non piace alla Falange, che nel 1945 perde la preminenza assoluta in campo politico, con l'avvento del Fuero de los espanoles (Carta dei diritti, di impronta più liberale), l'alleanza sempre più stretta del regime con la gerarchia cattolica e la formazione del nuovo governo, in buona parte composto da cattolici (22).
Il risentimento perdura e si accresce negli anni successivi. Un membro dell'Opus Dei che fu tra i ministri "tecnocrati" entrati nel governo con il giro di boa del 1957, Laureano Lopez Rodò, rammenta il sentimento di gelosia diffuso nell'ambito della Falange: "Nel settore falangista non mancarono le incomprensioni [verso l'Opus Dei]. Benché la sua pubblicazione sia abbastanza successiva (5 febbraio 1964), citerò ora un articolo apparso su "Pueblo" sotto il titolo L'Opus Dei, perché riflette un'opinione abbastanza diffusa in quel settore.
Nell'articolo si dice: "sono apparsi dalla notte al giorno degli uomini nuovi, senza tradizione politica", e non ci si spiega "come i membri dell'Opus Dei siano arrivati a posti di rilievo senza che vi sia sotto una struttura coesiva", nonostante che, pochi paragrafi più sopra, si affermi: "conosciamo molti membri dell'Opus Dei e abbiamo alta stima della loro preparazione, delle loro qualità e delle loro iniziative". Sarebbe stato logico concludere l'affermazione dicendo che erano arrivati a quei posti per le loro capacità e i loro meriti, senza necessità di una "struttura coesiva"" (23).
Lopez Rodò prosegue con un'analisi rigorosa che conviene seguire. Inizia spiegando che la Falange, in quanto partito politico, ha un proprio apparato e mira al potere; l'errore dei falangisti è attribuire struttura e fini analoghi a chiunque altro. I membri dell'Opus Dei impegnati in politica, invece, in buona parte sono "professionisti indipendenti", una mezza dozzina fra i molti altri chiamati da Franco in quel periodo; hanno inoltre regolarmente seguito la trafila necessaria per giungere alle cariche più elevate.
D'altra parte sarebbe strano che, contandosi a decine di migliaia i membri dell'Opus Dei in Spagna sotto Franco, nessuno agisse in politica: "Ci sarebbe stato da sospettare che nell'Opus Dei esistesse una proibizione rispetto all'azione nella vita pubblica o rispetto a un determinato orientamento politico, quando in realtà siamo liberissimi di comportarci secondo il nostro criterio e sotto la personale ed esclusiva responsabilità di ciascuno" (24).
Infine, quanto a posizioni personali, non potrebbero essere più variegate: "Si era diffusa anche la voce infondata che i membri dell'Opus Dei che intervenivano in politica formassero un gruppo omogeneo. Ma è evidente che, come logica conseguenza della piena libertà politica, le loro posizioni e opinioni erano molto diverse. A titolo di esempio, ricordiamo che Fernando Herrero Tejedor, Javier Domìnguez Marroquìn e José Ramón Herrero Fontana erano falangisti; Juan Maria de Araluce Villar e Pedro Mendizabal Uriarte, tradizionalisti; Mariano Navarro Rubio, sindacalista; Hermenegildo Altozano Moraleda, Antonio Fontàn Pérez e Fiorentino Pérez Embid appartenevano al Consejo privado del conde de Barcelona e, invece, Gregorio Lopez Bravo de Castro, Vicente Mortes Alfonso e io stesso eravamo sostenitori della restaurazione della monarchia nella persona di don Juan Carlos di Borbone; Alberto Ullastres Calvo e Juan José Espinosa San Martin erano politici indipendenti; altri, infine, si ponevano in opposizione al regime, e fra costoro la figura più rilevante era Rafael Calvo Serer" (25).
Negli anni successivi la Falange, per i propri fini politici, darà vita contro l'Opus Dei a una vera e propria campagna, che è in buona parte all'origine della leyenda negra. In effetti, come nota la storiografia più recente, era ovvio che la Falange avversasse quei giovani ministri tecnócratas, che proponevano una cultura e un clima distanti anni luce dal modo in cui in Spagna era stato tradizionalmente concepito lo Stato e gestito il potere: un modo europeo, che più tardi avrebbe creato le premesse per il cambio incruento del governo nazionale.
Antonio Fontàn, che non può essere sospettato di simpatie per il regime, descrive così la situazione: "[Tendere a un accrescimento delle libertà] preparava un lungo conflitto con gli immobilisti rappresentanti della Falange, quel partito unico cui Franco si era appoggiato dall'inizio, senza però collocarlo in una situazione di potere illimitato [...]. La situazione economica, alla fine degli anni Cinquanta, era sempre più critica, e Franco cercò disperatamente esperti che potessero risollevare il paese dall'economia pianificata dalla Falange, che era in crisi.
Infine chiese collaborazione ad alcuni validi uomini nuovi che avevano goduto di una formazione specializzata, negli Stati Uniti e nella Repubblica federale tedesca, e sembravano capaci di introdurre le riforme economiche da lungo tempo rinviate. Fra questi c'erano, insieme ad altri cattolici, alcuni membri dell'Opus Dei, come il successivo ministro dell'Economia Alberto Ullastres e quello dell'Industria Navarro Rubio. Costoro si ritrovarono, da indipendenti, sotto il fuoco incrociato dei funzionali della Falange, che avevano accolto la nomina di quei nuovi esperti economici con grande risentimento.
Li apostrofavano con il termine di tecnócratas, rinfacciavano loro di non condividere l'ideologia della Falange e di voler introdurre cambiamenti politici camuffati da riforme economiche. In effetti, non pochi cattolici "dentro il sistema" contribuirono a far sì che i diritti individuali di libertà fossero tenuti sempre più in considerazione. Irritata contro le tendenze liberalizzatrici, la Falange scatenò infine una campagna organizzata, anche contro l'Opus Dei, che nei circoli del partito unico era visto come un terreno fertile per le spinte riformiste" (26).
Così si spiega l'opposizione della Falange. Tale opposizione è documentata nella lettera che monsignor Escrivà scriverà il 28 ottobre 1966 al ministro José Solis, capo della Falange. Di questa lettera, assai significativa, fu vietata la pubblicazione in Spagna (27). È riportata per intero in Intervista sul fondatore dell'Opus Dei e chiede senza mezzi termini di "por fine a questa campagna contro l'Opus Dei, dato che l'Opus Dei non è responsabile di nulla" (28).
Vi sono state anche vicende piuttosto complesse, come il "caso Matesa", una storia di finanziamenti internazionali che nel 1969 costò il posto ad alcuni ministri membri dell'Opus Dei. Il caso nacque in modo confuso e fu troncato bruscamente da Franco. Anche in quella circostanza fu chiamato in causa il nome dell'Istituzione. Non ci interessa qui chiarire i reali termini dell'accaduto (29).
Ma siccome l'affaire ha avuto risonanza internazionale, e di tanto in tanto torna a galla, vale la pena almeno di citare alcuni dati che pochi hanno sottolineato: a dare il via allo scandalo fu la denuncia di un membro dell'Opus Dei, Victor Castro, direttore generale delle Dogane, e uno dei ministri nominati dal capo del governo subentrante era falangista e membro dell'Opus Dei. "Non era un attacco all'Opus Dei in quanto tale" commenta Gómez Pérez "ma una strumentalizzazione politica del fatto, non politico, che alcune persone erano membri di quell'Istituzione" (30).
Tra quanti non
hanno reso un buon servizio alla verità vanno purtroppo annoverati
anche storici e giornalisti stranieri, che spesso si sono lasciati trascinare
dalla foga in affermazioni non corrispondenti alla realtà delle cose.
A posteriori possiamo sorriderne; tuttavia in questo modo si sono perpetuati
equivoci che potevano essere evitati. Gómez Pérez, nel suo saggio,
fornisce una piccola rassegna di "insospettabili": per il "New
York Times" il ministro Fernàndez de la Mora era dell'Opus Dei;
secondo "Le Nouvel Observateur" vi apparteneva Carrero Bianco; Max
Gallo, storico citatissimo da chi parla di franchismo, nella sua Histoire
de l'Espagne franquiste asserisce che l'Opus Dei è proprietario del
quotidiano "Ya" (che allora era invece espressione dei vescovi spagnoli)
(31). Sbagliare si può. Ma se sbaglia un cronista, o uno storico, come
farà a capire e a spiegare i fatti?
Infine, tra gli oppositori si contano (e non sono i meno numerosi) ampi settori del mondo clericale. È anche da questo lato che giungono e si sviluppano le critiche nei confronti dei "ministri dell'Opus Dei". Qui la realtà diventa, se possibile, ancora più delicata e difficile da distinguere.
Quando, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, la vita politica prende ad animarsi, cominciano a rivelarsi casi di opposizione al regime da parte di uomini che non per questo si considerano meno cattolici: "È sintomatico, in questo senso, che esistesse l'intenzione di approfittare del cattolicesimo per tentare strade di opposizione: una prova ulteriore del fatto che il cristianesimo di fondo della Spagna era un dato di cui tener conto" (32).
Ma il problema più serio è un altro. Fin dall'immediato dopoguerra sono entrati in politica uomini che qualcuno ha definito "cattolici ufficiali", ben visti dal regime e dalla gerarchia come esponenti di un comune disegno sociale e politico. Alcuni di costoro vorrebbero che l'Opus Dei in quanto istituzione desse, come loro, un appoggio largo, totale e ufficiale alla politica del governo.
Più tardi, quando si verificherà il raffreddamento nei rapporti con il regime, un identico appoggio verrà sollecitato per le ragioni dell'opposizione. Un appoggio che in entrambi i casi l'Opus Dei non può e non vuole dare, per motivi spirituali e per la lungimiranza del fondatore. Questi motivi non vengono compresi. Anche in questo caso le facili schematizzazioni sono ingiuste: abbiamo già visto come si trovino membri dell'Opus Dei nel governo e nell'opposizione.
"È curioso" commenta nelle sue Memorias Laureano Lopez Rodò, "che a stracciarsi le vesti perché alcuni membri dell'Opus Dei, usando della loro legittima libertà, accettarono cariche pubbliche nell'epoca di Franco, fossero precisamente i "cattolici ufficiali" che collaborarono con quel regime nelle sue prime tappe, quando le libertà erano più limitate. Non è la stessa cosa essere stati ministro nel 1945 (anno in cui Alberto Martin Artajo entrò nel governo) o nel 1951 (quando Joaquin Ruiz Giménez fu nominato ministro dell'Educazione), quando ancora non si era iniziato a costruire lo Stato di diritto, o entrare nel governo nel 1957, quando la legge di esproprio forzoso del 1954 aveva già riconosciuto il principio di responsabilità dell'amministrazione e la legge di giurisdizione contenzioso-amministrativa del 1956 permetteva il ricorso contro gli atti e le disposizioni generali emanati dal governo o dai ministri" (33).
Alvaro Del Portillo racconta in proposito un episodio concreto. "Quando il fondatore, nel 1947, rientrò temporaneamente in Spagna per predisporre il modo di continuare a governare l'Opera da Roma, si incontrò con il ministro degli Affari esteri Martin Artajo, che prima di entrare nel governo era stato presidente dell'Azione Cattolica spagnola. Il Padre raccontò che, con sua grande meraviglia, il ministro gli aveva detto di non capire "come si potesse contemporaneamente essere consacrato alla Chiesa, anche con vincolo di ubbidienza, e servire lo Stato".
Il Padre gli spiegò che non c'era alcuna difficoltà, poiché la materia dell'ubbidienza dovuta alla Chiesa era la stessa per lui che per gli altri cattolici, consacrati o no a Dio: e tale obbligo era di grado uguale, anche se a diverso titolo. Ma il ministro non riuscì a comprendere tale luminosa e palmare verità, e diede ordine di non ammettere nel corpo diplomatico dei membri dell'Opus Dei, o persone considerate tali, anche se avessero vinto il relativo concorso. Contro ogni senso di giustizia, tale ordine fu efficace in diversi casi concreti" (34).
"Famiglia Cristiana", in un numero di poco precedente la beatificazione di Josemaria Escrivà, ha pubblicato un ampio servizio sull'Opus Dei, indagando anche sulle riserve espresse da qualche parte circa l'opportunità di questa decisione pontificia. Veniva a galla pure il problema dell'asserita compromissione con il regime franchista.
A questo proposito "Famiglia Cristiana" pubblicava ampi stralci di una lettera fino ad allora inedita di monsi-gnor Escrivà a Paolo VI. La lettera risale al 1964. Leggiamo quanto riporta l'autore dell'indagine: "Anche sul versante dell'impegno nella società si erano moltiplicate le critiche all'Opus Dei, accusato di mirare alle leve del potere politico ed economico. Soprattutto in Spagna, dove alcuni membri erano stati ministri di Franco e qualche altro era stato coinvolto in disavventure finanziarie.
Nella lettera a Paolo VI monsignor Escrivà risponde: "Mi si conceda far presente, Santo Padre, che i membri numerari e soprannumerari dell'Opus Dei che collaborano con Franco in posti di governo o di sottogoverno, lo fanno liberamente, sotto la loro personale responsabilità: e non come tecnici, ma come politici, allo stesso modo degli altri cittadini - senz'altro più numerosi - che collaborano in posti analoghi e che appartengono all'Azione Cattolica, alla Asociación católica nacional de propagandistas, ecc. Per quanto io sappia, l'unico che chiese permesso alla gerarchia per collaborare con il governo di Franco fu Martin Artajo (presidente dell'Azione Cattolica spagnola), per tredici anni ministro degli Affari esteri [...]. Quando, invece, il professor Ullastres e il professor Lopez Rodò, ambedue dell'Opus Dei, furono nominati rispettivamente ministro del Commercio e commissario del piano di sviluppo economico e sociale, la notizia di queste due nomine, che essi avevano accettato liberamente, l'appresi dalla stampa"".
Prosegue l'articolo: "Nella lettera a Paolo VI, monsignor Escrivà si mostra preoccupato, già nel 1964, del dopo-Franco e respinge l'accusa di filofranchismo lanciata all'Opus. Racconta al papa d'aver parlato recentemente con cardinali e vescovi spagnoli, con i quali "mi sono preso la libertà di dir loro anche che, se la rivoluzione si scatena, sarà molto difficile fermarla: e perciò - usando parole della Sacra Scrittura - 'non pensiate che sarà sufficiente un solo capro espiatorio [l'Opus Dei, N.d.R.]: capri espiatori sarete tutti voi'.
Perché si possono riunire delle buone collezioni degli elogi pubblici e smisurati che tanti vescovi hanno indirizzato al regime, cosa che non si può dire, invece, di me, anche se riconosco che Franco è un buon cristiano". E aggiunge: "Penso che sarebbe opportuno preparare al più presto un'evoluzione del regime spagnolo, per evitare l'anarchia, il comunismo, che spazzerebbero via dalla Spagna la Chiesa...". Non ritiene utile per la Spagna un partito unico dei cattolici, che gli sembrerebbe anzi assai pericoloso "perché potrebbe incominciare servendo la Chiesa e finire facilmente con il servirsi della Chiesa, che non sarà più in grado di liberarsene, dovendo così sopportare una specie di ricatto morale.
Questa libertà dei cattolici sembra che dovrebbe dar luogo a una conveniente varietà - non a una atomizzazione - nelle soluzioni temporali: e, allo stesso tempo, dovrebbe condurre a una solida unità in ciò che è essenziale per la Chiesa, che stia al disopra di tutti i compromessi di gruppo e di partito"".
"L'italiano
della lettera" conclude "Famiglia Cristiana" "non è
elegante, ma il pensiero è lucido e attuale" (35).
C'era dunque una disparità di vedute tra il fondatore dell'Opus Dei
e parecchi altri cattolici spagnoli, anche in seno alla gerarchia. E sembra
di comprendere che l'avversione per l'Opus Dei nascesse pure dal persistente
rifiuto del fondatore e dei membri di agire in politica secondo un criterio
ufficiale, da "partito unico".
Peraltro va notato che la decisione di monsignor Escrivà di trasferirsi a Roma nel 1946, e di trasferire quanto prima nella Città Eterna il governo centrale dell'Opus Dei, mostra il chiaro desiderio di assicurare all'Istituzione la dimensione universale propria della sua essenza e con la quale era nata, e pure di sottrarsi a pressioni politiche locali, anche forti. In un numero di "Limes", rivista di geopolitica, Salvatore Abbruzzese sottolinea che "per Escrivà de Balaguer l'espansione internazionale è inscritta nella sostanza stessa dell'Opus Dei, è una sua condizione di esistenza" (36).
Di fatto il fondatore aveva progettato di iniziare l'apostolato in altri Paesi europei già nel 1935-36, ma la guerra civile e poi la guerra mondiale imposero che ci si limitasse al Portogallo. Immediatamente dopo la fine delle ostilità membri dell'Opus Dei si trasferirono in Inghilterra, in Francia, in Italia, negli Stati Uniti, in Messico. Frattanto si attivavano tutti i tramiti per ottenere le approvazioni pontificie consone a questo carattere internazionale.
A fronte di tutto
ciò è chiaro che l'Istituzione non poteva lasciarsi considerare
un "fatto spagnolo", quale non era, nonostante la sua nascita a
Madrid e i suoi primi sviluppi oltre i Pirenei.
Le critiche alla "mentalità da partito unico", non consona
allo spirito dell'Opus Dei in quanto istituzione che non può e non
vuole obbligare le scelte temporali dei membri, tornano spesso negli scritti
editi del beato Escrivà, e risultano illuminate dalla citata lettera
a Paolo VI. Vi si colgono anche l'originalità e la diversità
dell'Opus Dei, nell'ambito di quella "teologia del laicato" che
sarà esposta in tutta la sua ampiezza nel Concilio Vaticano II.
Per esempio:
"Mi ha sempre infastidito il contegno di coloro che si servono del nome
di cattolico per farne una qualifica professionale; come pure il contegno
di coloro che negano la responsabilità personale, che è il principio
su cui si basa tutta la morale cristiana. Lo spirito dell'Opera e quello dei
suoi membri è questo: servire la Chiesa e tutti gli uomini, senza servirsi
della Chiesa. A me piace che il cattolico porti Cristo non nel titolo ma nella
condotta, e offra una testimonianza reale di vita cristiana" (37).
E, più dettagliatamente, rispondendo alla domanda se il "fatto che ci siano dei membri dell'Opera nella vita pubblica spagnola non è servito a politicizzare in qualche modo l'Opus Dei in questo paese": "Questo non succede né in Spagna né in alcun altro paese [...]. Persone formate a una concezione militaristica dell'apostolato e della vita spirituale, saranno portate a interpretare il lavoro libero e personale dei cristiani come un'azione di gruppo. Ma io le dico, e non mi stanco di ripeterlo dal 1928 a questa parte, che la diversità delle opinioni e delle scelte pratiche, nelle questioni temporali e nel campo teologico lasciato alla libera discussione, non costituisce affatto un problema per l'Opera: anzi, il pluralismo che esiste ed esisterà sempre fra i membri dell'Opus Dei è una manifestazione di buono spirito, di onestà di vita, di rispetto delle legittime opzioni di ciascuno" (38).
Quanto ai rapporti
diretti tra il fondatore dell'Opus Dei e il generale Franco, i due si conoscevano,
e sarebbe stato difficile il contrario, vista la notorietà di entrambi.
Franco, uomo di vita cristiana, conosceva la buona fama di cui godeva il fondatore
dell'Opus Dei; in una occasione, anzi, questi fu invitato a predicare gli
esercizi spirituali al Capo dello Stato. L'episodio ebbe aspetti poco protocollari,
che evidenziano la preoccupazione pastorale del fondatore.
È riportato da Berglar: "Quando, negli anni Quaranta, monsignor Escrivà diresse alcuni giorni di ritiro spirituale a Franco e alla sua famiglia, pensò bene che non sarebbe stata superflua una meditazione sulla morte. Il Capo dello Stato ascoltò attentamente le considerazioni spirituali su tale argomento e commentò che aveva pensato qualche volta a un tale evento, come era naturale, e che aveva preso le misure opportune. Evidentemente, in quel momento la morte era per lui un problema essenzialmente politico [...]. Più tardi, quando il vescovo di Madrid seppe queste cose, disse a don Josémaria la prima volta che si incontrarono: "Dopo questo, in Spagna lei non diventerà mai vescovo". "Mi basta essere sacerdote" fu la risposta del fondatore" (39).
Mi si consenta una deduzione: è plausibile che a monsignor Escrivà, una volta residente a Roma, non sfuggisse l'opinione che di Franco si aveva all'estero (complici la guerra mondiale, il crollo delle dittature italiana e tedesca e il generale sentimento antitotalitario), opinione che invece in Spagna era più difficile formarsi.
Se le cose stanno così, egli dovette accettare consapevolmente il rischio di una leyenda negra internazionale, e dura da cancellare negli anni successivi, come prezzo da pagare per il rispetto della libertà di quei figli suoi che, responsabilmente, avevano scelto di stare con Franco in politica. Lo suggeriscono pure alcune parole che, pronunciate in pubblico nel 1964 durante una visita in Spagna, apparvero su "Le Monde", che era un canale privilegiato per far giungere in Spagna ciò che non si poteva scrivere entro i suoi confini: "Forse il mio unico fanatismo è quello della libertà. Come potrei essere libero, io, se non rispettassi la libertà degli altri? Nell'Opus Dei ciascuno pensa come vuole, a condizione di non offendere Cristo. Per questo siamo amici della libertà delle coscienze" (40).
Nel libro Intervista sul fondatore dell'Opus Dei si narra di un altro incontro successivo con il Generalissimo, chiesto dal beato Escrivà per difendere la libertà di opinione di un membro dell'Opus Dei.
"Era successo che un membro dell'Opera aveva scritto un articolo di dissenso nei confronti del regime franchista. La reazione delle autorità fu molto dura e lo costrinsero all'esilio. Su questo fatto il Padre non aveva nulla da ridire, poiché si trattava di questioni in cui egli non entrava: riguardavano esclusivamente i suoi figli in quanto cittadini liberi e responsabili di se stessi.
Ma, tra le altre ingiurie scagliate contro quel membro dell'Opera, dissero che "era una persona senza famiglia". Il nostro fondatore reagì come un padre che difende i suoi figli. Si recò immediatamente in Spagna, chiese un'udienza a Franco e fu ricevuto subito; senza entrare nel merito delle divergenze politiche, affermò con molta chiarezza di non poter tollerare che di un figlio suo si dicesse che era un uomo senza famiglia: aveva una famiglia soprannaturale, l'Opera, ed egli si considerava suo padre.
Franco gli domandò: "E se lo mettono in carcere?". Il Padre rispose che avrebbe rispettato le decisioni dell'autorità giudiziaria, ma nessuno gli avrebbe impedito di portare a quel figlio suo tutta l'assistenza spirituale e materiale di cui aveva bisogno, se davvero lo mettevano in prigione" (41).
Monsignor Del Portillo cita anch'egli la lettera al papa del 1964, aggiungendo qualche particolare interessante: "Lo preoccupava il problema della successione a Franco. Non esitò a farlo sapere direttamente all'interessato, e non trascurò di sensibilizzare su questo delicato argomento i vescovi spagnoli che lo venivano a trovare. Il fondatore seppe anche resistere a sollecitazioni che gli vennero dal Vaticano affinché prendesse iniziative in questo campo: egli rifiutò di farsi tramite di alcunché, perché non era sua missione immischiarsi in politica. Il punto su tutta questa materia venne fatto dal Padre stesso in una lettera di coscienza indirizzata il 14 febbraio 1964 a Paolo VI, senza dar adito ad alcuna possibilità di equivoco" (42).
Torniamo al punto da cui siamo partiti. Da una parte l'Opus Dei, l'unanime pronunciamento del fondatore e di tutti i membri circa la libertà e la responsabilità di ciascuno. Dall'altra una congerie di accuse, di illazioni, di addebiti. In mezzo i fatti, che, se un merito hanno, è di andare per conto loro.
Ciascuno, se
il viaggio gli è servito, tragga le sue conclusioni.
Però credo che, a questo punto, sia lecito azzardare una domanda fino
a qualche anno fa quasi impronunciabile: e se fosse proprio così? E
se l'Opus Dei fosse davvero un fenomeno raro, forse unico, in cui ci si vincola
soltanto per fini spirituali e si cerca di far bene, per proprio conto, ciò
che a ciascuno va in coscienza di fare? E se sotto, per una volta, non ci
fosse niente di tutto ciò che si è voluto vedere? Se non ci
fosse niente, e basta?
A ben vedere, è proprio questo che più affascina dell'Opus Dei. Sapere che esiste un'Istituzione (un'Istituzione della Chiesa) che non ingloba, non lottizza. Che chiede tutto ("tendi alla santità, in unione con Cristo") e non chiede niente ("scegli tu come agire"); e per giunta dà gli aiuti spirituali necessari. Un'Istituzione il cui fondatore era così pazzamente paterno da affrontare un faccia a faccia con il Generalissimo senza nessun altro fine pratico che non fosse l'affetto per un suo figlio offeso.
I mezzi di comunicazione spesso hanno fissato l'attenzione sulle questioni politiche, o comunque pubbliche, in cui intervengono membri dell'Opus Dei. Ma questa chiave di lettura, come ho cercato di mostrare, è limitante. Al di là dei bagliori della cronaca, dal punto di vista storico sembra assai più significativo e ricco di prospettive percepire il fenomeno composto da migliaia di persone che, giorno dopo giorno, nelle occupazioni più diverse, cercano di tradurre in realtà un messaggio che si compendia in poche parole del fondatore: "Conoscere Gesù Cristo. Farlo conoscere. Portarlo dappertutto".
È accidentale che si svolga un lavoro piuttosto che un altro. Fondamentale e senza precedenti è, invece, il "fatto cristiano" costituito da una vera e propria mobilitazione di uomini e di donne, di tutto il mondo, che si sforzano di vivere nelle loro attività temporali la pienezza della vocazione evangelica.