Per
una lettura "civile" della proposta di Josemaría
Escrivá
Chi
frequenta la storia religiosa s’imbatte non di rado in alcune
torsioni interpretative, di evidente origine ideologica, che deformano
la conoscenza degli avvenimenti ed oscurano la loro comprensione.
L’Historia rerum gestarum, più che tendere alle
res gestae, sembra volersene distaccare, come attratta
irresistibilmente da una finalità estrinseca di
utilità rispetto ad un mal confessato progetto, o approdo
generale della vicenda umana. Ecco allora il postulato del progresso
nel tempo, per cui l’oggi – grossolanamente
– è tendenzialmente “migliore”
dello ieri, salvo essere a sua volta superato dal domani. Anche se non
è necessariamente lineare, e non esclude ritorni e
contorsioni limitate ed occasionali, il “corteo”
dell’umanità, come lo pretende lo storico inglese
Carr, si volge al meglio. Ne deriva un pregiudizio di orientamento ad
indefiniti traguardi superiori di civiltà, bene espressi
dalle citatissime, leopardiane “magnifiche sorti e
progressive”.
Se
è così, se a questi nuovi idoli si inchina il
lavoro dello storico, le conseguenze sono importanti. Il passato si
riduce ad un fiume, ricco di bracci morti ed insignificanti rispetto
all’unico ramo che noi, i posteri, eleggiamo meritevole di
significato e valore. Tutta l’esperienza dei predecessori si
fa poca cosa, se non ordinata ai nostri interessi, ai nostri criteri di
giudizio. Si interrompe (per i cristiani) la comunione dei santi, e per
tutti il vitale rapporto tra le generazioni. L’oggi si asside
come giudice supremo ed inappellabile del tempo, e quel che non gli
serve, è inesorabilmente respinto nel buco nero del nulla.
C’è
dell’altro. La democrazia politica, o almeno una sua
presuntuosa vulgata, ribalta addosso alla ricerca di Dio e
all’organizzazione ecclesiale in cui storicamente si
è espressa dal conferimento a Pietro di quelle tali chiavi.
Ha preso forma, da almeno un secolo, una sorta di pregiudizio
antigerarchico, per cui si postula una melior condicio della
“base” rispetto al “vertice”:
del laico rispetto al prete, di questo rispetto al vescovo, e quindi
del vescovo rispetto alla curia e al deprecato Vaticano. Il postulato
è indimostrabile, ma si fa moda e riflesso condizionato per
ricerche, studi, ipotesi di lavoro, griglie interpretative.
Infine,
la bipolarità assoluta e oserei dire maniacale
ortodossia-dissenso. E’ inutile dire quale sia il fronte
preferito, dove s’incentrino le simpatie, le consonanze e gli
interessi. Esiste quasi una doverosità della contestazione,
e simile atteggiamento si ribalta anche all’indietro,
pervenendo – almeno nelle intenzioni – alla
costruzione di un albero genealogico dei
“virtuosi”, degli illuminati o
“perfetti”, con il che si vorrebbe disporre di una
legittimazione almeno storiografica di valutazioni o tendenze odierne.
E’ un caso esemplare di esorbitanza dell’ideologia,
anche religiosa, sul vissuto delicatissimo dello spirito, che si
vorrebbe piegare altrimenti o addirittura riscrivere.
Nulla
di tutto ciò si trova negli scritti di Josemaría
Escrivá: non la pretesa di scegliersi un’idea di
progresso, non il rovesciamento della gerarchia cattolica
com’è uscita da due millenni di vissuto religioso,
non il soggettivismo relativistico così diffuso oggi da
essere divenuto quasi “normale”. Prevale
assolutamente, invece, il senso di fedeltà,
l’appartenenza filiale alla Chiesa, e ciò sgombra
il campo dalle topiche consuete, anche se superare il conformismo
storiografico esige un supplemento d’attenzione con una cura
per il diverso, il singolare, l’originale davvero fuori dal
comune. Ecco perché è possibile tentare un
profilo “civile” degli insegnamenti di
Josemaría Escrivá, ma sempre tenendo conto... che
la voce “politica” non compare – come
tale – nei pur accuratissimi indici per materia posposti ai
nuovi scritti, essendo questione riservata alla esclusiva
responsabilità personale dei suoi figli spirituali e del
lettore ansioso di trovarvi una parola utile nell’ora che
volge.
Escrivá
non aderisce all’idea, prevalente fra Otto e Novecento, di un
tempo ordinato al progresso, inteso come obbligata evoluzione dal buio
alla luce, sia nella versione rettilinea sia in quella, più
problematica, che ammette possibilità di occasionali cadute
e temporanee involuzioni.
Per
Escrivá il tempo è segnato dalla venuta del
Salvatore e dalla operosa attesa del suo ritorno: esso si configura
come il tempo della prova, in cui i nostri comportamenti saranno
osservati, valutati e giudicati secondo un rigoroso criterio di
responsabilità. L’uomo non pencola
sull’abisso dell’insignificanza ma è
chiamato a dare il meglio di sé. In questo senso, il tempo
è davvero un “tesoro” (Amici, 39 ss.)
per cui «non ci deve avanzare nemmeno un secondo di tempo:
non sto esagerando (...). Se ti avanza tempo, rifletti un momento:
è quasi certo che sei caduto nella tiepidezza, o che,
soprannaturalmente parlando, sei un paralitico. Immobile, inerte,
sterile, non sviluppi tutto il bene che dovresti comunicare a coloro
che ti stanno accanto, nel tuo ambiente, nel tuo lavoro, nella tua
famiglia» (Amici, 42).
Tutto
s’incentra sul discorso evangelico dei talenti, che non
possono essere sperperati né tenuti nascosti.
Quand’anche avessimo una sola moneta «dissotterra
il talento! rendilo proficuo (...) l’essenziale è
dare tutto ciò che siamo ed abbiamo, fare in modo che il
talento renda, e impegnarci senza sosta a produrre un buon frutto. Dio
ci concede forse ancora un solo anno per servirlo. Non pensare a cinque
né a due. Bada solo a questo: uno solo, quello che
è appena cominciato. Bisogna
darlo, non sotterrarlo!» (Amici, 47).
Davvero,
allora, «il tempo è il nostro tesoro, il
“denaro” per comprare
l’eternità» (Solco, 882). Non
c’è distacco dalla contemporaneità, e
neppure sudditanza. Piuttosto, eliminate tante separatezze diffuse
anche da una vecchia tradizione credente, respinta la teoria dei fili
(rossi, ma altresì di ogni possibile variazione cromatica),
ne esce rafforzata l’idea della storia aperta alla libera
estrinsecazione delle potenzialità personali (e quindi anche
collettive) dell’uomo. Non l’acquiescenza al tempo,
ma la creatività è doverosa, col segno che chi
crede, chi spera è fortemente indotto ad imprimere sul
“mondo”.
Il
vecchio contemptus mundi è ridotto ad una vocazione,
circoscritta da una rivisitazione di quel mondo, che correttamente vien
ricondotto alla gravitas della materia, e purificato da
un’arbitraria estensione alla secolarità tutta. Il
tempo torna ad essere, come nella proposta evangelica, il teatro, il
luogo normale di estrinsecazione dell’avventura umana, la
nostra specifica tappa del cammino che dobbiamo percorrere tra la prima
e la seconda venuta del Salvatore.
Le
classiche immagini, tempo come eterno ritorno, tempo come magazzino
d’immagini retoricamente più o meno utili, tempo
come contagio e contaminazione da parte del male, cedono compiutamente
il passo all’idea, che è poi quella della
più robusta tradizione cattolica, della stagione di prova e
valutazione dei risultati. Nessun meccanicismo, nessuna
arbitrarietà, ma slancio delle potenzialità umane
verificate all’apertura dell’uomo e della storia,
ad un altro tempo, quello ultimo e definitivo.
Ma
il tempo amico che ci prospetta Escrivá de Balaguer, quello
pieno di attese e fiducioso nella nostra creatività non
è figlio dell’ottimismo pragmatico contemporaneo,
a sua volta antidoto alla dissipazione e all’angoscia. Esso
si rifà addirittura alla lezione del secondo libro della
Genesi, che vede l’uomo, antecedentemente alla caduta,
inviato nel giardino dell’Eden perché lo lavorasse
e lo custodisse (2,15). Non l’ozio era protagonista
dell’originario progetto divino ma, appunto, il lavoro, e
specificamente quello agreste, così trasparente e
verificabile nei risultati e negli appuntamenti. Semmai, mancava ancora
la fatica e il dolore, ma questi saranno effetti del gran mistero del
libero arbitrio. Escrivá libera il lavoro
dall’ipoteca servile che un lungo percorso esteso
dall’otium degli antichi al “disoccupato
lettore” cui s’appella Cervantes in esordio al suo
Don Chisciotte, aveva accumulato. Il lavoro è
l’attività tipica ed esclusiva
dell’uomo, la sua nobile dignità. Il lavoro
produce le opere, e queste riconducono l’esistenza dal cupo
frantoio che distrugge la vita al giardino originario.
Per
questa via, Escrivá dissolve un’altra leggenda
nera, quella del disdegno iberico per il lavoro, che si pretendeva
tollerabile solo se decantato in servizio civile e militare allo Stato,
e per il resto emarginato ai ceti inferiori come vergognoso per la
condizione signorile. Se è vero che dalla Spagna muovono
Escrivá e la sua “Opera”, essi si fanno
presto romani ed universali, e comunque ricchi della secolare
tradizione di rischio e di ardimento, che non rifiuta gli impegni
più difficili. Domenico, Ignazio e Teresa lo confermano.
L’intuizione
a suo modo rivoluzionaria di Escrivá non distingue tra
l’uno e l’altro tipo di impegno quotidiano: non
cosa fai ma come lo fai. Con ciò, le secolari separatezze
tra lavoro degno e fatica servile vengono meno, subordinate come sono
ai valori incorporati. «L’uomo nasce per lavorare,
come gli uccelli per volare» (Amici, 57). Le conseguenze sono
importanti, e sarebbe riduttivo comporle in una sorta di ecclesiologia
(o teologia del laicato come ha detto Giovanni Paolo II) del laicato,
perché si estendono all’intera sfera del
temporale. «Voi restate in mezzo al mondo non
perché Dio si sia dimenticato di voi, non perché
il Signore non vi abbia chiamati. Vi ha invitati a permanere in mezzo
alle attività e agli impegni terreni facendovi capire che la
vostra vocazione umana, il vostro lavoro, le vostre doti, lungi
dall’essere estranee ai disegni divini, sono le cose che Egli
ha santificato» (E’ Gesù, 20).
Il
laico non è più un nonreligioso, o un suddito,
come ancora voleva il codice piano benedettino del 1917. A pieno titolo
è compartecipe del disegno divino perché tutta la
sua azione del tempo storico – il lavoro, lo studio,
l’amore... – può essere ricondotta
all’azione del disegno di salvezza formulato dal Signore. In
altri termini, «la vostra vocazione umana è parte
importante della vostra vocazione divina». La
serialità può essere santificata,
«Santificando precisamente il vostro lavoro e il vostro
ambiente, e cioè la professione o il mestiere che riempie i
vostri giorni, che dà una fisionomia peculiare alla vostra
personalità umana, che è il vostro modo di essere
presenti nel mondo» (Amici, 46). Tutto l’agire
nella storia, se buono e ordinato a Dio, viene rivalutato e gli viene
restituita l’antica dignità, che si era troppo a
lungo nella separatezza e nella differenza.
«Non
ci può essere una doppia vita, non possiamo essere come gli
schizofrenici, se vogliamo essere cristiani: vi è una sola
vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che
dev’essere – nell’anima e nel corpo
– santa e piena di Dio» (La Chiesa, p. 19).
Ecco
allora che si chiude un lungo fraintendimento, che aveva voluto vedere
nell’umana intrapresa un effetto della caduta. Al contrario
«Il lavoro è la prima vocazione
dell’uomo, è una benedizione, e si sbagliano,
purtroppo, quelli che lo considerano un castigo» (Il lavoro,
p. 57).
Davvero,
«Studio, lavoro (sono) doveri ineludibili di ogni
cristiano» (Solco, 483). Le vecchie gerarchie sono
accantonate, e con esse le stratificazioni sociali di un millennio.
«Il lavoro ordinario non è un particolare di
scarsa importanza, bensì il cardine della nostra
santificazione» (Santi, p. 187). Ogni «lavoro
umano, anche quando può sembrare umile e insignificante,
contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà
temporali (...) e viene assunto e incorporato all’opera
mirabile della Creazione e della Redenzione del mondo» (La
Chiesa, p. 18). Per questa via, all’operare nel tempo si
può conferire la massima dignità possibile, con
la sua elevazione «all’ordine soprannaturale, e
diventare un’occupazione divina» (Forgia, 687).
Siamo
agli antipodi della materializzazione della storia, che si pretendeva
vincente negli anni centrali del Novecento. E contro
l’alienazione, si proclama la densità spirituale
della fatica trasformatrice. L’imperativo diventa la
rigenerazione dell’azione, con Escrivá si tratta
di «realizzare in modo santo le più diverse
occupazioni, anche quelle che sembrano più
indifferenti» (Solco, 496). «Quel tuo lavoro
– umile, monotono, piccolo – è orazione
tradotta in opere» (Cammino, 825). In simile prospettiva
declina e scompare un altro postulato dell’età
industriale, il conflitto di classe. Già il rifiuto della
cosiddetta mercificazione del lavoro va in questo senso, ma
l’introduzione di un “terzo” (che non
è lo Stato corporativamente assiso sopra i due classici
contendenti, capitale e lavoro) vissuto come termine ad quem
dell’agire umano, scompagina le categorie di giudizio e gli
stili relazionali consueti.
Santificare
«il vostro lavoro e il vostro ambiente, e cioè la
professione o il mestiere che riempie i vostri giorni, che
dà una fisionomia peculiare alla vostra
personalità umana, che è il vostro modo di essere
presenti nel mondo; e, assieme al lavoro, il focolare, la vostra
famiglia e, infine, la nazione ove siete nati e che amate»
(Amici, 46). Assolutamente «non ci può essere una
doppia vita, non possiamo essere come degli schizofrenici se vogliamo
essere cristiani» (La Chiesa, p. 49).
Escrivá,
restituisce al lavoro l’originaria dignità
facendolo parte integrante del generale progetto di santificazione del
tempo.La gran questione non è la riduzione dello spazio
dedicato al lavoro, come vorrebbe il laburismo novecentesco, ma la sua
piena e non vocale esaltazione come via ordinaria di espressione della
genialità creativa dell’uomo. Anzi, la chiesa, lo
studio, il campo dell’esperienza benedettina sono qui rifuse
e riplasmate in modo più confacente lo spirito contemporaneo
e come sottratte al gran frantoio della storia attraverso una
stringente dedicazione. «Le opere umane soffrono
l’usura del tempo; ma questo non succede con le opere divine,
a meno che gli uomini non le facciano decadere. Solo quando si perde
l’impulso divino, giunge la corruzione, la
decadenza» (Il lavoro, p. 126). Ancora:
«Santificare il proprio lavoro non è una chimera,
bensì è missione d ogni cristiano»
(Solco, 372).
L’universale
ricapitolazione in Dio è capace di trasfigurare, con il
lavoro, la prosa quotidiana, come quello che «prima sbucciava
patate “soltanto”; adesso si sta santificando
sbucciando patate» (Solco, 498). E cioè
«il lavoro umanamente degno, nobile e onesto può
– e deve! – essere elevato all’ordine
soprannaturale, e diventare un’occupazione divina»
(Forgia, 687). D’altra parte, vi concorre l’esempio
di Gesù: «Che il Signore sia venuto a cercarti
nell’esercizio della tua professione? Così
cercò i primi: Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo accanto
alle reti: Matteo seduto al banco degli esattori... E sbalordisci!
Paolo nel suo accanimento di metter fine alla semenza dei
cristiani» (Cammino, 799). Ma se «il vero fine del
tuo lavoro (è) la gloria di Dio» (Il lavoro, p.
103), tutta la qualità o il valore del lavoro può
e deve essere riconsiderata. Siamo così al bivio consueto,
da cui si diparte la via frequentatissima del disprezzo per il lavoro
poco gratificato che conduce alla liberazione dal lavoro attraverso il
suo contenimento temporale, l’aumento delle ferie,
l’as-senteismo, la prostrazione adolescenziale,
l’anticipo del pensionamento. Qui il lavoro è
irredimibile e va tendenzialmente ridotto o soppresso, con una
deificazione del tempo libero. Ma c’è anche il
cammino ecologico-ruralista, coll’incremento del part-time e
del lavoro domiciliare, che, almeno nella sua prevalente vulgata,
nasconde la solitudine, annulla il contatto umano e fa trionfare un
destino effimero e precario.
Quella
di Escrivá è una via nuova e diversa, che
apprezza il lavoro senza zuccherosi sentimentalismi, conferendogli
invece una sorta di straordinario valore aggiunto. Senza retorica
può allora proclamare che «la santità
“grande” consiste nel compiere i “doveri
piccoli” di ogni istante» (Il lavoro, p. 94), e,
insieme, che «la vera povertà non consiste nel non
avere, ma nell’essere distaccato: nel rinunciare
volontariamente al dominio sulle cose» (Il lavoro, p. 78).
Di
questo pensiero troviamo una traccia (successiva)
nell’insegnamento di Primo Mazzolari che distingueva
attentamente tra ricchi, non-ricchi ma desiderosi di esserlo, e poveri:
un giudizio andato purtroppo perduto, almeno nella cultura politica
dell’Italia contemporanea. In ogni caso, siamo ben lontani
dagli epidermici entusiasmi del tipo “piccolo è
bello”, o dalle suggestioni del fai-da-te, dai rigurgiti
passatisti e pre-industriali. Nessuna sfida del moderno è
troppo alta e ardua per Escrivá, è il cuore
dell’uomo che gli interessa e che vuole indirizzare al
servizio di Dio, proprio sull’esempio dei grandi santi della
sua terra. Edifica un’opera di Dio, e si tiene lontano, non
dal giusto sollievo dalla fatica, ma dall’endemico
divertimento inteso proprio come divaricazione da ciò che ha
senso e valore.
Ecco
perché bisogna lavorare “bene”:
«siamo obbligati a lavorare, e a lavorare coscienziosamente,
con senso di responsabilità, con
amore e perseveranza, senza trascuratezze e leggerezze:
perché il lavoro è un comandamento di
Dio» (Forgia, 681). E quindi, «lavora con allegria,
con pace, alla presenza di Dio» (Forgia, 744). La
compatibilità tra tempo degli uomini e tempo di Dio, dona
alla vicenda di questo mondo un’importanza senza pari,
persino il peccato può stimolare gli anticorpi del bene:
«La lotta interiore non ci allontana dalle nostre occupazioni
terrene: ci induce a portarle a termine meglio!» (Forgia,
735). Ma tutto si regge sul ripristino dell’ordine vero dei
significati e dei valori che esige «dà un motivo
soprannaturale alla tua ordinaria occupazione professionale, e avrai
santificato il lavoro» (Cammino, 359).
Le
conseguenze sono decisive. L’irruzione del santo nella
scansione normale dell’esistenza permette di attingere
traguardi ultimi senza gestualità eccezionali, restando
nelle collocazioni “normali” della vita civile: la
famiglia, l’occupazione, i cerchi concentrici
dell’organizzazione sociale e, sì, anche
politica.Il relativismo spicciolo che ha impolverato e un po’
anche immiserito la quotidianità di tanti credenti viene
spazzato via e sostituito da una ricerca dell’esattezza e
dell’eccellenza che un certo orgoglio laicista riservava a
chi fosse finalmente approdato alle sfere superiori del sapere e
dell’operare.
La
perfezione non è più, per il cristiano, sigillo
caratteristico dello straniamento dal mondo. Anche qui si
può, si deve tendere al miglior risultato possibile, come
ben sapevano generazioni di nostri predecessori, che non avevano remore
a superare i traguardi più alti, certi di far cosa gradita
al Signore senza opporvi una fuorviante vittoria del male nel tempo del
mondo. «Una persona devota, dalla vita di pietà
non bigotta, compie il suo dovere professionale con perfezione,
perché sa che questo lavoro è preghiera innalzata
a Dio» (Forgia, 739). Cadono i cascami di un secolare
difensivismo cattolico, timoroso della diffusione della cultura,
prudentissimo di fronte all’avanzamento di scienza e
tecnologia. Escrivá vuole l’audacia della ricerca,
e fa della rinuncia una dimensione interiore, non pavidamente
rinunciataria delle conquiste possibili attraverso anche il lavoro
professionale, l’educazione, lo studio, la cultura in tutte
le sue espressioni (Cammino, 343-347).
In
altre parole incita amici devoti e semplici estimatori ad un compito
che è un’apertura all’avvenire:
«tu, in quanto cristiano – ricercatore, letterato,
scienziato, politico, lavoratore... -, hai il dovere di santificare
queste realtà» (Solco, 311). Il recupero della
modernità si fa possibile e doverosa, ma si avanza
un’ulteriore difficoltà.
Dai
tempi – invero non lontanissimi – della presa di
coscienza della cosiddetta questione sociale molte energie della
comunità ecclesiale si sono rivolte alla rimozione delle
maggiori ingiustizie provocate dall’industrializzazione e dai
suoi corollari: nascita del proletariato, crescita di anarchia e
socialismo, declino della presunta armonia sociale dei tempi andati,
protesta, di classe, spettro e speranza della palingenesi: la
rivoluzione. Il culto della perfezione e la tensione
all’eccellenza possono sembrare un’esaltazione
dell’individualismo, un abbandono al suo destino del meno
fortunato, capace e meritevole, con tutte le conseguenze e le
implicazioni, anche ecclesiali, che si possono facilmente immaginare.
Ma nella proposta di Escrivá, forte è la
consapevolezza delle possibilità, anzi della
necessità di una ricaduta sociale potentemente riformatrice.
Ecco perché non vi troviamo arcaismi, né oniriche
fughe dalla realtà, troppo spesso diffuse
nell’opinione cattolica.
Il
tempo, come tale, non legittima soluzioni pratico-politiche.
E’ possibile e anzi doveroso guardare avanti: proprio come
scienza e tecnologia sono al servizio dell’uomo, e non idoli
cui sacrificare la creatività incessante cui siamo
chiamati.La proposta di Escrivá è impiantata anzi
ad un equilibrato ottimismo storico: «un errore fondamentale
da cui devi guardarti: pensare che le esigenze ed i costumi –
nobili e legittimi – del tuo tempo e del tuo ambiente, non
possano
essere ordinati e adattati alla santità della dottrina
morale di Gesù Cristo» (Solco, 307).
L’oggi
non è irriducibile, e non c’è scontro
preconcetto tra la condizione di cittadino e quella di
cristiano.«Servire fedelmente la società
civile» è possibile e doveroso (Solco, 301).
Ancora più importante, se possibile,
dell’enunciazione di principio sono le sue implicazioni
concrete. Tutto deriva infatti da
quell’”unità di vita” su cui
insiste Escrivá (Amici, 165). Il monito Caesaris Caesari,
Dei Deo obbliga all’intervento per il bene comune, e non
c’è separatezza possibile.
«In quanto cristiano, hai il dovere di intervenire, di non
astenerti, di prestare la tua collaborazione per servire con
lealtà, e con libertà personale, il bene
comune» (Forgia, 714). Le forme e i luoghi di questa presenza
trasformatrice sono le associazioni, le istituzioni, e il genere le
organizzazioni espresse dalla società e dallo Stato
praticabili secondo coscienza (Forgia, 717, 718). Non è
lecito «disinteressarsi della realtà storica che
(ci) circonda» (Solco, 320). Al contrario, occorre
«essere esemplare in tutti i campi, anche come
cittadino» (Forgia, 695).
Esistono
dei criteri per rendere trasmissibile e fruttuoso
l’intervento nella storia. Certamente, chi aderisce
all’insegnamento del sacerdote aragonese o, semplicemente,
chi vi ha trovato un consiglio ed un aiuto spirituale, non
può pretendere d costituirsi in un’aristocrazia
dominatrice, in una melior condicio rispetto ai fratelli (Il lavoro, p.
125). Del tutto superata è la formula – magari
fruttuosa nella temperie degli anni Trenta e Quaranta – che
vorrebbe «operai cattolici», «medici
cattolici», «ingegneri cattolici»,
«come se i cattolici formassero un gruppetto separato dagli
altri uomini, perché così si dà la
sensazione che esista un fossato tra i cristiani e il resto
dell’umanità» (E’
Gesù, 53). Ancora oggi, peraltro, compare nei media la
figura del cosiddetto «scrittore cattolico», e
persino dello «Storico cattolico», come se fosse
una razza a parte, in bilico tra rappresentatività e
limitatezza di orizzonti... Escrivá ha in mente cittadini
uguali agli altri nei diritti, nei doveri e nelle
possibilità. Rispetta ed ama l’esperienza
millenaria dei religiosi, ma suggerisce un modello di vita ordinaria
nel tempo (Colloqui, 118): essere «comuni cittadini che
vogliono essere dei buoni cattolici» (Colloqui, 61).
Vuole
insomma «la giustizia fra gli uomini» (E’
Gesù, 52), ma la declina secondo un’ampiezza
insolita, perché le fa ricomprendere, oltre le dimensioni
usuali, i doveri verso Dio, non riconducibile ad un riferimento neutro
e simbolico. Rifiuta il «clericalismo», e ricerca
una sincera «mentalità laicale», capace
di audace iniziativa e piena responsabilità (Colloqui, 117).
Occorre servire la Chiesa e non servirsene per veicolare opinioni e
propositi di gruppi e gruppetti.
Occorre
un laicato maturo, che esca da superstiti condizioni minorili. Non
stupisce allora l’estrema confessione che regge il tutto:
«ho sempre predicato il criterio della libertà
personale e della corrispondente responsabilità. Ho cercato
e cerco la libertà, per tutta la terra, come Diogene cercava
l’uomo. L’amo ogni giorno di più,
l’amo al disopra di tutte le cose terrene: è un
tesoro che non apprezzeremo mai abbastanza” (E’
Gesù, 184). La libertà è la chiave che
apre l’altro tempo, quello definitivo, se è vero
che «senza libertà è impossibile
corrispondere alla grazia».
Nota
Le citazioni si riferiscono a Amici di Dio, Cammino, La Chiesa nostra
madre, Colloqui con mons. Escrivá, E’
Gesù che passa, Forgia, Il lavoro rende santi, Solco (varie
edizioni).