Chi frequenta la storia religiosa simbatte non di rado in alcune torsioni interpretative, di evidente origine ideologica, che deformano la conoscenza degli avvenimenti ed oscurano la loro comprensione. LHistoria rerum gestarum, più che tendere alle res gestae, sembra volersene distaccare, come attratta irresistibilmente da una finalità estrinseca di utilità rispetto ad un mal confessato progetto, o approdo generale della vicenda umana. Ecco allora il postulato del progresso nel tempo, per cui loggi grossolanamente è tendenzialmente migliore dello ieri, salvo essere a sua volta superato dal domani. Anche se non è necessariamente lineare, e non esclude ritorni e contorsioni limitate ed occasionali, il corteo dellumanità, come lo pretende lo storico inglese Carr, si volge al meglio. Ne deriva un pregiudizio di orientamento ad indefiniti traguardi superiori di civiltà, bene espressi dalle citatissime, leopardiane magnifiche sorti e progressive.
Se è così, se a questi nuovi idoli si inchina il lavoro dello storico, le conseguenze sono importanti. Il passato si riduce ad un fiume, ricco di bracci morti ed insignificanti rispetto allunico ramo che noi, i posteri, eleggiamo meritevole di significato e valore. Tutta lesperienza dei predecessori si fa poca cosa, se non ordinata ai nostri interessi, ai nostri criteri di giudizio. Si interrompe (per i cristiani) la comunione dei santi, e per tutti il vitale rapporto tra le generazioni. Loggi si asside come giudice supremo ed inappellabile del tempo, e quel che non gli serve, è inesorabilmente respinto nel buco nero del nulla.
Cè dellaltro. La democrazia politica, o almeno una sua presuntuosa vulgata, ribalta addosso alla ricerca di Dio e allorganizzazione ecclesiale in cui storicamente si è espressa dal conferimento a Pietro di quelle tali chiavi. Ha preso forma, da almeno un secolo, una sorta di pregiudizio antigerarchico, per cui si postula una melior condicio della base rispetto al vertice: del laico rispetto al prete, di questo rispetto al vescovo, e quindi del vescovo rispetto alla curia e al deprecato Vaticano. Il postulato è indimostrabile, ma si fa moda e riflesso condizionato per ricerche, studi, ipotesi di lavoro, griglie interpretative.
Infine, la bipolarità assoluta e oserei dire maniacale ortodossia-dissenso. E inutile dire quale sia il fronte preferito, dove sincentrino le simpatie, le consonanze e gli interessi. Esiste quasi una doverosità della contestazione, e simile atteggiamento si ribalta anche allindietro, pervenendo almeno nelle intenzioni alla costruzione di un albero genealogico dei virtuosi, degli illuminati o perfetti, con il che si vorrebbe disporre di una legittimazione almeno storiografica di valutazioni o tendenze odierne. E un caso esemplare di esorbitanza dellideologia, anche religiosa, sul vissuto delicatissimo dello spirito, che si vorrebbe piegare altrimenti o addirittura riscrivere.
Nulla di tutto ciò si trova negli scritti di Josemaría Escrivá: non la pretesa di scegliersi unidea di progresso, non il rovesciamento della gerarchia cattolica comè uscita da due millenni di vissuto religioso, non il soggettivismo relativistico così diffuso oggi da essere divenuto quasi normale. Prevale assolutamente, invece, il senso di fedeltà, lappartenenza filiale alla Chiesa, e ciò sgombra il campo dalle topiche consuete, anche se superare il conformismo storiografico esige un supplemento dattenzione con una cura per il diverso, il singolare, loriginale davvero fuori dal comune. Ecco perché è possibile tentare un profilo civile degli insegnamenti di Josemaría Escrivá, ma sempre tenendo conto... che la voce politica non compare come tale nei pur accuratissimi indici per materia posposti ai nuovi scritti, essendo questione riservata alla esclusiva responsabilità personale dei suoi figli spirituali e del lettore ansioso di trovarvi una parola utile nellora che volge.
Escrivá non aderisce allidea, prevalente fra Otto e Novecento, di un tempo ordinato al progresso, inteso come obbligata evoluzione dal buio alla luce, sia nella versione rettilinea sia in quella, più problematica, che ammette possibilità di occasionali cadute e temporanee involuzioni.
Per Escrivá il tempo è segnato dalla venuta del Salvatore e dalla operosa attesa del suo ritorno: esso si configura come il tempo della prova, in cui i nostri comportamenti saranno osservati, valutati e giudicati secondo un rigoroso criterio di responsabilità. Luomo non pencola sullabisso dellinsignificanza ma è chiamato a dare il meglio di sé. In questo senso, il tempo è davvero un tesoro (Amici, 39 ss.) per cui «non ci deve avanzare nemmeno un secondo di tempo: non sto esagerando (...). Se ti avanza tempo, rifletti un momento: è quasi certo che sei caduto nella tiepidezza, o che, soprannaturalmente parlando, sei un paralitico. Immobile, inerte, sterile, non sviluppi tutto il bene che dovresti comunicare a coloro che ti stanno accanto, nel tuo ambiente, nel tuo lavoro, nella tua famiglia» (Amici, 42).
Tutto sincentra sul discorso evangelico dei talenti, che non possono essere sperperati né tenuti nascosti. Quandanche avessimo una sola moneta «dissotterra il talento! rendilo proficuo (...) lessenziale è dare tutto ciò che siamo ed abbiamo, fare in modo che il talento renda, e impegnarci senza sosta a produrre un buon frutto. Dio ci concede forse ancora un solo anno per servirlo. Non pensare a cinque né a due. Bada solo a questo: uno solo, quello che è appena cominciato. Bisogna darlo, non sotterrarlo!» (Amici, 47).
Davvero, allora, «il tempo è il nostro tesoro, il denaro per comprare leternità» (Solco, 882). Non cè distacco dalla contemporaneità, e neppure sudditanza. Piuttosto, eliminate tante separatezze diffuse anche da una vecchia tradizione credente, respinta la teoria dei fili (rossi, ma altresì di ogni possibile variazione cromatica), ne esce rafforzata lidea della storia aperta alla libera estrinsecazione delle potenzialità personali (e quindi anche collettive) delluomo. Non lacquiescenza al tempo, ma la creatività è doverosa, col segno che chi crede, chi spera è fortemente indotto ad imprimere sul mondo.
Il vecchio contemptus mundi è ridotto ad una vocazione, circoscritta da una rivisitazione di quel mondo, che correttamente vien ricondotto alla gravitas della materia, e purificato da unarbitraria estensione alla secolarità tutta. Il tempo torna ad essere, come nella proposta evangelica, il teatro, il luogo normale di estrinsecazione dellavventura umana, la nostra specifica tappa del cammino che dobbiamo percorrere tra la prima e la seconda venuta del Salvatore.
Le classiche immagini, tempo come eterno ritorno, tempo come magazzino dimmagini retoricamente più o meno utili, tempo come contagio e contaminazione da parte del male, cedono compiutamente il passo allidea, che è poi quella della più robusta tradizione cattolica, della stagione di prova e valutazione dei risultati. Nessun meccanicismo, nessuna arbitrarietà, ma slancio delle potenzialità umane verificate allapertura delluomo e della storia, ad un altro tempo, quello ultimo e definitivo.
Ma il tempo amico che ci prospetta Escrivá de Balaguer, quello pieno di attese e fiducioso nella nostra creatività non è figlio dellottimismo pragmatico contemporaneo, a sua volta antidoto alla dissipazione e allangoscia. Esso si rifà addirittura alla lezione del secondo libro della Genesi, che vede luomo, antecedentemente alla caduta, inviato nel giardino dellEden perché lo lavorasse e lo custodisse (2,15). Non lozio era protagonista delloriginario progetto divino ma, appunto, il lavoro, e specificamente quello agreste, così trasparente e verificabile nei risultati e negli appuntamenti. Semmai, mancava ancora la fatica e il dolore, ma questi saranno effetti del gran mistero del libero arbitrio. Escrivá libera il lavoro dallipoteca servile che un lungo percorso esteso dallotium degli antichi al disoccupato lettore cui sappella Cervantes in esordio al suo Don Chisciotte, aveva accumulato. Il lavoro è lattività tipica ed esclusiva delluomo, la sua nobile dignità. Il lavoro produce le opere, e queste riconducono lesistenza dal cupo frantoio che distrugge la vita al giardino originario.
Per questa via, Escrivá dissolve unaltra leggenda nera, quella del disdegno iberico per il lavoro, che si pretendeva tollerabile solo se decantato in servizio civile e militare allo Stato, e per il resto emarginato ai ceti inferiori come vergognoso per la condizione signorile. Se è vero che dalla Spagna muovono Escrivá e la sua Opera, essi si fanno presto romani ed universali, e comunque ricchi della secolare tradizione di rischio e di ardimento, che non rifiuta gli impegni più difficili. Domenico, Ignazio e Teresa lo confermano.
Lintuizione a suo modo rivoluzionaria di Escrivá non distingue tra luno e laltro tipo di impegno quotidiano: non cosa fai ma come lo fai. Con ciò, le secolari separatezze tra lavoro degno e fatica servile vengono meno, subordinate come sono ai valori incorporati. «Luomo nasce per lavorare, come gli uccelli per volare» (Amici, 57). Le conseguenze sono importanti, e sarebbe riduttivo comporle in una sorta di ecclesiologia (o teologia del laicato come ha detto Giovanni Paolo II) del laicato, perché si estendono allintera sfera del temporale. «Voi restate in mezzo al mondo non perché Dio si sia dimenticato di voi, non perché il Signore non vi abbia chiamati. Vi ha invitati a permanere in mezzo alle attività e agli impegni terreni facendovi capire che la vostra vocazione umana, il vostro lavoro, le vostre doti, lungi dallessere estranee ai disegni divini, sono le cose che Egli ha santificato» (E Gesù, 20).
Il laico non è più un nonreligioso, o un suddito, come ancora voleva il codice piano benedettino del 1917. A pieno titolo è compartecipe del disegno divino perché tutta la sua azione del tempo storico il lavoro, lo studio, lamore... può essere ricondotta allazione del disegno di salvezza formulato dal Signore. In altri termini, «la vostra vocazione umana è parte importante della vostra vocazione divina». La serialità può essere santificata, «Santificando precisamente il vostro lavoro e il vostro ambiente, e cioè la professione o il mestiere che riempie i vostri giorni, che dà una fisionomia peculiare alla vostra personalità umana, che è il vostro modo di essere presenti nel mondo» (Amici, 46). Tutto lagire nella storia, se buono e ordinato a Dio, viene rivalutato e gli viene restituita lantica dignità, che si era troppo a lungo nella separatezza e nella differenza.
«Non ci può essere una doppia vita, non possiamo essere come gli schizofrenici, se vogliamo essere cristiani: vi è una sola vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che devessere nellanima e nel corpo santa e piena di Dio» (La Chiesa, p. 19).
Ecco allora che si chiude un lungo fraintendimento, che aveva voluto vedere nellumana intrapresa un effetto della caduta. Al contrario «Il lavoro è la prima vocazione delluomo, è una benedizione, e si sbagliano, purtroppo, quelli che lo considerano un castigo» (Il lavoro, p. 57).
Davvero, «Studio, lavoro (sono) doveri ineludibili di ogni cristiano» (Solco, 483). Le vecchie gerarchie sono accantonate, e con esse le stratificazioni sociali di un millennio. «Il lavoro ordinario non è un particolare di scarsa importanza, bensì il cardine della nostra santificazione» (Santi, p. 187). Ogni «lavoro umano, anche quando può sembrare umile e insignificante, contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà temporali (...) e viene assunto e incorporato allopera mirabile della Creazione e della Redenzione del mondo» (La Chiesa, p. 18). Per questa via, alloperare nel tempo si può conferire la massima dignità possibile, con la sua elevazione «allordine soprannaturale, e diventare unoccupazione divina» (Forgia, 687).
Siamo agli antipodi della materializzazione della storia, che si pretendeva vincente negli anni centrali del Novecento. E contro lalienazione, si proclama la densità spirituale della fatica trasformatrice. Limperativo diventa la rigenerazione dellazione, con Escrivá si tratta di «realizzare in modo santo le più diverse occupazioni, anche quelle che sembrano più indifferenti» (Solco, 496). «Quel tuo lavoro umile, monotono, piccolo è orazione tradotta in opere» (Cammino, 825). In simile prospettiva declina e scompare un altro postulato delletà industriale, il conflitto di classe. Già il rifiuto della cosiddetta mercificazione del lavoro va in questo senso, ma lintroduzione di un terzo (che non è lo Stato corporativamente assiso sopra i due classici contendenti, capitale e lavoro) vissuto come termine ad quem dellagire umano, scompagina le categorie di giudizio e gli stili relazionali consueti.
Santificare «il vostro lavoro e il vostro ambiente, e cioè la professione o il mestiere che riempie i vostri giorni, che dà una fisionomia peculiare alla vostra personalità umana, che è il vostro modo di essere presenti nel mondo; e, assieme al lavoro, il focolare, la vostra famiglia e, infine, la nazione ove siete nati e che amate» (Amici, 46). Assolutamente «non ci può essere una doppia vita, non possiamo essere come degli schizofrenici se vogliamo essere cristiani» (La Chiesa, p. 49).
Escrivá, restituisce al lavoro loriginaria dignità facendolo parte integrante del generale progetto di santificazione del tempo.La gran questione non è la riduzione dello spazio dedicato al lavoro, come vorrebbe il laburismo novecentesco, ma la sua piena e non vocale esaltazione come via ordinaria di espressione della genialità creativa delluomo. Anzi, la chiesa, lo studio, il campo dellesperienza benedettina sono qui rifuse e riplasmate in modo più confacente lo spirito contemporaneo e come sottratte al gran frantoio della storia attraverso una stringente dedicazione. «Le opere umane soffrono lusura del tempo; ma questo non succede con le opere divine, a meno che gli uomini non le facciano decadere. Solo quando si perde limpulso divino, giunge la corruzione, la decadenza» (Il lavoro, p. 126). Ancora: «Santificare il proprio lavoro non è una chimera, bensì è missione d ogni cristiano» (Solco, 372).
Luniversale ricapitolazione in Dio è capace di trasfigurare, con il lavoro, la prosa quotidiana, come quello che «prima sbucciava patate soltanto; adesso si sta santificando sbucciando patate» (Solco, 498). E cioè «il lavoro umanamente degno, nobile e onesto può e deve! essere elevato allordine soprannaturale, e diventare unoccupazione divina» (Forgia, 687). Daltra parte, vi concorre lesempio di Gesù: «Che il Signore sia venuto a cercarti nellesercizio della tua professione? Così cercò i primi: Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo accanto alle reti: Matteo seduto al banco degli esattori... E sbalordisci! Paolo nel suo accanimento di metter fine alla semenza dei cristiani» (Cammino, 799). Ma se «il vero fine del tuo lavoro (è) la gloria di Dio» (Il lavoro, p. 103), tutta la qualità o il valore del lavoro può e deve essere riconsiderata. Siamo così al bivio consueto, da cui si diparte la via frequentatissima del disprezzo per il lavoro poco gratificato che conduce alla liberazione dal lavoro attraverso il suo contenimento temporale, laumento delle ferie, las-senteismo, la prostrazione adolescenziale, lanticipo del pensionamento. Qui il lavoro è irredimibile e va tendenzialmente ridotto o soppresso, con una deificazione del tempo libero. Ma cè anche il cammino ecologico-ruralista, collincremento del part-time e del lavoro domiciliare, che, almeno nella sua prevalente vulgata, nasconde la solitudine, annulla il contatto umano e fa trionfare un destino effimero e precario.
Quella di Escrivá è una via nuova e diversa, che apprezza il lavoro senza zuccherosi sentimentalismi, conferendogli invece una sorta di straordinario valore aggiunto. Senza retorica può allora proclamare che «la santità grande consiste nel compiere i doveri piccoli di ogni istante» (Il lavoro, p. 94), e, insieme, che «la vera povertà non consiste nel non avere, ma nellessere distaccato: nel rinunciare volontariamente al dominio sulle cose» (Il lavoro, p. 78).
Di questo pensiero troviamo una traccia (successiva) nellinsegnamento di Primo Mazzolari che distingueva attentamente tra ricchi, non-ricchi ma desiderosi di esserlo, e poveri: un giudizio andato purtroppo perduto, almeno nella cultura politica dellItalia contemporanea. In ogni caso, siamo ben lontani dagli epidermici entusiasmi del tipo piccolo è bello, o dalle suggestioni del fai-da-te, dai rigurgiti passatisti e pre-industriali. Nessuna sfida del moderno è troppo alta e ardua per Escrivá, è il cuore delluomo che gli interessa e che vuole indirizzare al servizio di Dio, proprio sullesempio dei grandi santi della sua terra. Edifica unopera di Dio, e si tiene lontano, non dal giusto sollievo dalla fatica, ma dallendemico divertimento inteso proprio come divaricazione da ciò che ha senso e valore.
Ecco
perché bisogna lavorare bene: «siamo obbligati
a lavorare, e a lavorare coscienziosamente, con senso di responsabilità,
con
amore e perseveranza, senza trascuratezze e leggerezze: perché il
lavoro è un comandamento di Dio» (Forgia, 681). E quindi, «lavora
con allegria, con pace, alla presenza di Dio» (Forgia, 744). La compatibilità
tra tempo degli uomini e tempo di Dio, dona alla vicenda di questo mondo
unimportanza senza pari, persino il peccato può stimolare gli
anticorpi del bene: «La lotta interiore non ci allontana dalle nostre
occupazioni terrene: ci induce a portarle a termine meglio!» (Forgia,
735). Ma tutto si regge sul ripristino dellordine vero dei significati
e dei valori che esige «dà un motivo soprannaturale alla tua
ordinaria occupazione professionale, e avrai santificato il lavoro»
(Cammino, 359).
Le conseguenze sono decisive. Lirruzione del santo nella scansione normale dellesistenza permette di attingere traguardi ultimi senza gestualità eccezionali, restando nelle collocazioni normali della vita civile: la famiglia, loccupazione, i cerchi concentrici dellorganizzazione sociale e, sì, anche politica.Il relativismo spicciolo che ha impolverato e un po anche immiserito la quotidianità di tanti credenti viene spazzato via e sostituito da una ricerca dellesattezza e delleccellenza che un certo orgoglio laicista riservava a chi fosse finalmente approdato alle sfere superiori del sapere e delloperare.
La perfezione non è più, per il cristiano, sigillo caratteristico dello straniamento dal mondo. Anche qui si può, si deve tendere al miglior risultato possibile, come ben sapevano generazioni di nostri predecessori, che non avevano remore a superare i traguardi più alti, certi di far cosa gradita al Signore senza opporvi una fuorviante vittoria del male nel tempo del mondo. «Una persona devota, dalla vita di pietà non bigotta, compie il suo dovere professionale con perfezione, perché sa che questo lavoro è preghiera innalzata a Dio» (Forgia, 739). Cadono i cascami di un secolare difensivismo cattolico, timoroso della diffusione della cultura, prudentissimo di fronte allavanzamento di scienza e tecnologia. Escrivá vuole laudacia della ricerca, e fa della rinuncia una dimensione interiore, non pavidamente rinunciataria delle conquiste possibili attraverso anche il lavoro professionale, leducazione, lo studio, la cultura in tutte le sue espressioni (Cammino, 343-347).
In altre parole incita amici devoti e semplici estimatori ad un compito che è unapertura allavvenire: «tu, in quanto cristiano ricercatore, letterato, scienziato, politico, lavoratore... -, hai il dovere di santificare queste realtà» (Solco, 311). Il recupero della modernità si fa possibile e doverosa, ma si avanza unulteriore difficoltà.
Dai tempi invero non lontanissimi della presa di coscienza della cosiddetta questione sociale molte energie della comunità ecclesiale si sono rivolte alla rimozione delle maggiori ingiustizie provocate dallindustrializzazione e dai suoi corollari: nascita del proletariato, crescita di anarchia e socialismo, declino della presunta armonia sociale dei tempi andati, protesta, di classe, spettro e speranza della palingenesi: la rivoluzione. Il culto della perfezione e la tensione alleccellenza possono sembrare unesaltazione dellindividualismo, un abbandono al suo destino del meno fortunato, capace e meritevole, con tutte le conseguenze e le implicazioni, anche ecclesiali, che si possono facilmente immaginare. Ma nella proposta di Escrivá, forte è la consapevolezza delle possibilità, anzi della necessità di una ricaduta sociale potentemente riformatrice. Ecco perché non vi troviamo arcaismi, né oniriche fughe dalla realtà, troppo spesso diffuse nellopinione cattolica.
Il
tempo, come tale, non legittima soluzioni pratico-politiche. E possibile
e anzi doveroso guardare avanti: proprio come scienza e tecnologia sono
al servizio delluomo, e non idoli cui sacrificare la creatività
incessante cui siamo chiamati.La proposta di Escrivá è impiantata
anzi ad un equilibrato ottimismo storico: «un errore fondamentale
da cui devi guardarti: pensare che le esigenze ed i costumi nobili
e legittimi del tuo tempo e del tuo ambiente, non possano
essere ordinati e adattati alla santità della dottrina morale di
Gesù Cristo» (Solco, 307).
Loggi
non è irriducibile, e non cè scontro preconcetto tra
la condizione di cittadino e quella di cristiano.«Servire fedelmente
la società civile» è possibile e doveroso (Solco, 301).
Ancora più importante, se possibile, dellenunciazione di principio
sono le sue implicazioni concrete. Tutto deriva infatti da quellunità
di vita su cui insiste Escrivá (Amici, 165). Il monito Caesaris
Caesari, Dei Deo obbliga allintervento per il bene comune, e non cè
separatezza possibile.
«In quanto cristiano, hai il dovere di intervenire, di non astenerti,
di prestare la tua collaborazione per servire con lealtà, e con libertà
personale, il bene comune» (Forgia, 714). Le forme e i luoghi di questa
presenza trasformatrice sono le associazioni, le istituzioni, e il genere
le organizzazioni espresse dalla società e dallo Stato praticabili
secondo coscienza (Forgia, 717, 718). Non è lecito «disinteressarsi
della realtà storica che (ci) circonda» (Solco, 320). Al contrario,
occorre «essere esemplare in tutti i campi, anche come cittadino»
(Forgia, 695).
Esistono dei criteri per rendere trasmissibile e fruttuoso lintervento nella storia. Certamente, chi aderisce allinsegnamento del sacerdote aragonese o, semplicemente, chi vi ha trovato un consiglio ed un aiuto spirituale, non può pretendere d costituirsi in unaristocrazia dominatrice, in una melior condicio rispetto ai fratelli (Il lavoro, p. 125). Del tutto superata è la formula magari fruttuosa nella temperie degli anni Trenta e Quaranta che vorrebbe «operai cattolici», «medici cattolici», «ingegneri cattolici», «come se i cattolici formassero un gruppetto separato dagli altri uomini, perché così si dà la sensazione che esista un fossato tra i cristiani e il resto dellumanità» (E Gesù, 53). Ancora oggi, peraltro, compare nei media la figura del cosiddetto «scrittore cattolico», e persino dello «Storico cattolico», come se fosse una razza a parte, in bilico tra rappresentatività e limitatezza di orizzonti... Escrivá ha in mente cittadini uguali agli altri nei diritti, nei doveri e nelle possibilità. Rispetta ed ama lesperienza millenaria dei religiosi, ma suggerisce un modello di vita ordinaria nel tempo (Colloqui, 118): essere «comuni cittadini che vogliono essere dei buoni cattolici» (Colloqui, 61).
Vuole
insomma «la giustizia fra gli uomini» (E Gesù,
52), ma la declina secondo unampiezza insolita, perché le fa
ricomprendere, oltre le dimensioni usuali, i doveri verso Dio, non riconducibile
ad un riferimento neutro e simbolico. Rifiuta il «clericalismo»,
e ricerca una sincera «mentalità laicale», capace di
audace iniziativa e piena responsabilità (Colloqui, 117).
Occorre servire la Chiesa e non servirsene per veicolare opinioni e propositi
di gruppi e gruppetti.
Occorre un laicato maturo, che esca da superstiti condizioni minorili. Non stupisce allora lestrema confessione che regge il tutto: «ho sempre predicato il criterio della libertà personale e della corrispondente responsabilità. Ho cercato e cerco la libertà, per tutta la terra, come Diogene cercava luomo. Lamo ogni giorno di più, lamo al disopra di tutte le cose terrene: è un tesoro che non apprezzeremo mai abbastanza (E Gesù, 184). La libertà è la chiave che apre laltro tempo, quello definitivo, se è vero che «senza libertà è impossibile corrispondere alla grazia».
Nota
Le citazioni si riferiscono a Amici di Dio, Cammino, La Chiesa nostra madre,
Colloqui con mons. Escrivá, E Gesù che passa, Forgia,
Il lavoro rende santi, Solco (varie edizioni).