Le
bufale de Il Codice da Vinci
Il
popolarissimo romanzo di Dan Brown racconta una storia già
mille volte raccontata e già mille volte sbugiardata. E dove
innova, sbaglia. Né verosimile né storico, non
convince nemmeno come fantasy. Leggete un altro libro.
«Ho
scritto 12 libri di saggistica sinora, e ho deciso di smettere. [...]
Credo che la verità si possa diffondere meglio attraverso i
romanzi». Lo dice – in una intervista rilasciata a
Francesco Garufi nel libro Rennes le Château:
un’inchiesta (Edizioni Hera, Roma 2004) – Michael
Baigent, colui che assieme a Richard Leigh e a Henry Lincoln ha dato il
la alla storia dei figli di Gesù attraverso best-seller
fortunati quali Il Santo Graal. Una catena di misteri lunga duemila
anni del 1982 (trad. it. Mondadori, Milano 2004) e
L’eredità messianica del 1996 (trad. it. Tropea,
Milano 1999). Lo dice lui e ne ha ben donde, giacché Il
Codice Da Vinci di Dan Brown (trad. it. Mondadori 2003, oggi alla 31a
ristampa) racconta le stesse storie dell’oggi disciolto trio
britannico, salvo però non dirlo (l’ultimo reprint
de Il Santo Graal strilla invece dalla fascetta: «Il libro
che ha ispirato “Il Codice da Vinci” di Dan
Brown»).
Ora,
i libri di Baigent, Leigh e Lincoln sono saggi che inventano una
storia, mentre il “giallo” di Brown è un
romanzo che si crede un libro di storia. Anzi, che fa credere ai
lettori di essere storicamente fededegno – magari proprio
perché tacitamente si basa su Il Santo Graal e
L’eredità messianica –, mentre invece
è fiction, quanto pura è da vedere.
Infatti,
la primissima edizione italiana del libro di Brown recava (come del
resto l’originale inglese) una paginetta intitolata
Informazioni storiche in cui si dava per vero quello che nel romanzo
non è nemmeno verosimile; ma, nelle ristampe, la paginetta e
le informazioni sono rimaste, mentre quel titolo a dir poco
imbarazzante è scomparso (resta invece nella versione
inglese).
Così, quello che continua a essere sempre e solo un romanzo
dà da bere al lettore che nel 1099 sia stato davvero fondato
quel Priorato di Sion, il quale, sia nei saggi di Baigent, Leigh e
Lincoln sia nel thriller di Brown, custodisce la “sacra
coppa” e la verità segreta sulla storia del mondo.
Mentre non è affatto vero.
Immaginiamo
Buddha...
«Immaginiamo questo scenario», scrive Massimo
Introvigne, fondatore del Centro Studi sulle Nuove Religioni di Torino
in un articolo di critica pubblicato sul sito della sua istituzione.
«Esce un romanzo in cui si afferma che il Buddha, dopo
l’illuminazione, non ha condotto la vita di
castità che gli si attribuisce, ma ha avuto moglie e figli.
Che la comunità buddhista dopo la sua morte ha violato i
diritti della moglie, che avrebbe dovuto essere la sua erede.
Che
per nascondere questa verità i buddhisti nel corso della
loro storia hanno assassinato migliaia, anzi milioni di persone. Che un
santo buddhista scomparso da pochi anni – che so, un Daisetz
Teitaro Suzuki (1870-1966) – era in realtà il capo
di una banda di delinquenti. Che il Dalai Lama e altre
autorità del buddhismo internazionale operano per mantenere
le menzogne sul Buddha servendosi di qualunque mezzo, compreso
l’omicidio».
E
prosegue: «Pubblicato, il romanzo non passa inosservato.
Autorità di tutte le religioni lo denunciano come
un’odiosa mistificazione anti-buddhista e un incitamento allo
scontro fra le religioni. In diversi paesi la sua pubblicazione
è vietata, fra gli applausi della stampa. Le case
cinematografiche, cui è proposta una versione per il grande
schermo, cacciano a pedate l’autore e considerano
l’intero progetto uno scherzo di cattivo gusto. Lo scenario
non è vero, ma ce n’è uno simile che
è del tutto reale. Solo che non si parla di Buddha, ma di
Gesù Cristo; non della comunità buddhista, ma
della Chiesa cattolica; non di Suzuki e del suo ordine zen ma di san
Josemaría Escrivá (1902-1975) e
dell’Opus Dei da lui fondata; non del Dalai Lama ma di Papa
Giovanni Paolo II».
Questo
è Il Codice da Vinci. Esiste insomma un complotto ruotante
attorno all’Opus Dei che, a Parigi, mira a impedire
all’ultimo Gran Maestro del Priorato di Sion, Jacques
Saunière, curatore del Museo del Louvre, di rivelare al
mondo la verità sottaciuta e repressa da sempre dalla
Chiesa. Vale a dire che Gesù non fondò su Pietro
la vera Chiesa, ma che il Messia diede origine a una stirpe nata dal
grembo di Maria Maddalena, moglie sua ma per bieco maschilismo relegata
alla subalternità.
Questa progenie è la linea del sang réal
così che il Santo Graal altro non è se non la
nascosta tomba di Maria Maddalena. Fra intrighi polizieschi, assassinii
e accuse incrociate, lo studioso statunitense di simbologia Robert
Langdon e la criptologa Sophie Neuve, nipote di Saunière,
arrivano addirittura all’ex presidente francese
François Mitterrand, “noto” esoterista e
massone che volle la piramide del Louvre per celarvi agli occhi del
mondo nientemeno che la tomba-Graal della Maddalena.
La
povera, infatti, attendeva da tempo la
“liberazione”. Depositaria della
priorità del principio femmineo su quello maschile, ella
sposò quel tale Gesù che mai peraltro pretese di
essere Dio. Costantino, poi, padre-padrone di quell’impero
che andava divenendo cristiano, s’inventò una
storia e una teologia nuove che potessero fare da instrumenta regni.
Via le donne, su gli uomini, ed ecco inventato il primato di Pietro. Ma
ci voleva una proclamazione solenne: ecco dunque il Concilio di Nicea
del 325, autoritario e antifemminista.
Qui,
fra i molti ricchi, belli e simbolici che esistevano, la Chiesa
petrino-romancostantinian-maschilista-cattolica scelse come canonici
quattro vangeletti innocui che non dicono alcunché di
toccante, pungente o piccante. Gli altri vennero reietti dal club dei
presentabili e bollati verboten giacché
“eretici” o “gnostici”.
Quindi,
scese in campo il suggello di quest’alleanza fra Trono
& Altare usurpatori. Ci volle un po’ più
di tempo, ma alla fine la dinastia dei merovingi venne fatta fuori dai
carolingi, poi capetingi. Dagoberto II, l’ultimo dei
mohicani-merovingi, fu infatti anche l’ultimo sovrano
legittimo della stirpe maddaleniana del sang réal fatta
fuori dal potere costantiniano. E dal papa, il quale benedisse il Cielo
il giorno in cui un Carlo dei franchi un po’ carlone gli
chiese di essere incoronato imperatore sacro e romano, in
realtà cavalier servente dei Successori di Pietro.
Fu
quel dì il trionfo della menzogna, la vittoria contro tutto
ciò che per la Chiesa cattolica era
“maddalenume”. Ma il
“maddalenume” è un lumicino che ancora
fumiga e così organizza la resistenza nel Priorato di Sion,
di cui sono Gran Maestri certi luminari del genere umano, tedofori
segreti della fiamma della verità vera, perseguitati
dall’alleanza menzognera fra Trono & Altare. Fra
questi vi è anche Leonardo da Vinci, che ha lasciato molti
indizi della verità vera nelle proprie opere.
Il potere iniziatico di una nipote
Sembra un po’ Il senso della vita di Monty Python mescolato a
Brian di Nazareth? In effetti... È una storia già
sentita? Certo. È infatti quella di Rennes le
Château, peraltro più volte demistificata (in
ultimo dal citato libro di Francesco Garufi, recensito sul Dom n. 41).
Addirittura i nomi sono gli stessi: Jacques Saunière
richiama don Bérenger Saunière (1852-1917),
parroco di quel paesino dei Pirenei.
Nel
romanzo, i cognomi Plantard e Saint Claire,
“tipici” degli ultimi discendenti merovingi di
Gesù e della Maddalena, appartenevano agli antenati di
Sophie Neuve prima che, per paura, essi lo cambiassero: ma è
una citazione di Pierre Plantard (1920-2000) – il truffatore
ben noto alla giustizia francese che fondò il Priorato di
Sion, non nel 1099, ma nel 1956, davanti a un notaio – il
quale rivendicò per sé il sacro lignaggio
iniziatico (lo stesso che nel romanzo porta a Sophie) inventandosi
un’aura merovingia con la creazione del nomignolo falsamente
nobile «Plantard de Saint-Claire».
Un’altra citazione, questa volta dal famoso “trio
britannico”, è il personaggio di Sir Leigh
Teabing, nel romanzo un «ex storico reale
britannico», che ammicca a Richard Leigh.
E
siccome chi di cabalismo di quart’ordine ferisce, di esso
pure perisce, si potrebbe anche insinuare che qualcosa di arcano, di
magico e d’iniziatico celi addirittura la scelta browniana di
dare a Sophie il cognome che ha, Neuve, termine francese per
“nipote” ma maschio: ne Il Codice Da Vinci, dove
l’ambiguità regna merovingicamente sovrana, Sophie
è invece evidentemente una femmina, nipote,
nièce, di un Saunière, l’ultimo Gran
Maestro del Priorato di Sion, che però è il
cognome di un prete dei Pirenei che per definizione non figlia, che
però aveva una perpetua chiacchierona e faccendiera, che
giocava volentieri con la stirpe maddaleniana, che... Cosa vorranno mai
dirci, insomma, gli astri di Brown con questo gioco di androginie
linguistiche? Probabilmente un bel nulla, come l’intero suo
tentar romanzescamente le improbabili essenze di una storia
autenticamente fasulla.
Uno
scherzo da prete
Dunque la stoffa del romanzo di Brown è la storia falsa del
tesoro inesistente di Rennes le Château, il cui poco
misterioso parroco, lungi dall’essere un massone o un
iniziato che trovò le prove della genealogia maddaleniana in
una cripta della propria chiesetta, era un trafficone che venne sospeso
a divinis perché vendeva lucrose Messe.
Eppure
se non fosse stato per la sua perpetua, Marie Denarnaud (1868-1953), la
storia sarebbe finita lì, una solenne e simoniaca
figuraccia. Don Saunière, infatti, la nominò
intestataria di tutti i propri beni e questo per impedire al suo
vescovo di entrarne in possesso. Fu poi la Denarnaud che
alimentò le leggende del tesoro da Mille e una notte. Quindi
giunse Noël Corbu (1868-1953), il personaggio che,
collaborazionista ai tempi della Seconda guerra mondiale, fornisce il
link con il nazismo magico alla ricerca di Graal, lance di Longino e
verità nascoste in Tibet. Corbu acquistò
dall’ex perpetua il complesso di don Saunière per
farne un ristorante, ma poi ci prese gusto e, a partire dal 1956,
cominciò a pubblicare sulla stampa locale vaneggiamenti di
preti misteriosamente miliardari. Se ne interessarono allora gli
esoteristi e i giornalisti.
Fra
i primi spicca Pierre Plantard, già animatore del gruppo
Alpha Galates; fra i secondi Gérard de Sède,
autore, nel 1967, de L’or de Rennes ou la vie insolite de
Bérenger Saunière, curé de
Rennes-le-Château. La consacrazione arrivò
però nella seconda metà degli anni Settanta
quando Baigent, Leigh e Lincoln s’interessarono alla vicenda,
pubblicando poi Holy Blood, Holy Grail, da noi Il Santo Graal.
Scoppiò insomma la mania per l’esoterismo fatto in
casa e a caso, e così la “storia
maddaleniana” diventa il “segreto”
più pubblicizzato del mondo, grazie anche (nota Introvigne)
«alla BBC, che batte la grancassa». Che il Santo
Graal sia il sang réal dei figli di Cristo lo si afferma
peraltro solo a partire da Plantard, pure lui già amico dei
nazisti. Detto questo – che non ammonta certo a plagio, ma a
riciclaggio sì –, il numero delle sciocchezze e
dei falsi di cui è irto il romanzo di Brown è
legione.
Antichissimo,
anzi nuovo
Partiamo dal Priorato di Sion, che esiste solo perché
è stato fondato a metà del secolo scorso. La
famosa nota sulle Informazioni storichede Il Codice da Vinci oramai
orbata di titolo, parla di documenti di quell’ordine
ritrovati nel 1975 alla Biblioteca Nazionale di Parigi: ma
lì stavano perché lì ce li aveva in
precedenza messi Plantard. Philippe de Chérisey, morto nel
1985, ha più volte confessato di esserne stato il principale
autore, per altro non pagato e quindi costretto (vi sono delle lettere,
questa volta autentiche) a ricorrere agli avvocati. Nel Medioevo
esistette sì un piccolo ordine religioso denominato Priorato
di Sion, ma ebbe vita brevissima e nessuna connessione con Maddalena,
il Graal, i merovingi e i Pirenei.
Ma,
una volta in più, anche lasciando da parte la vicenda di
Rennes le Château, l’attendibilità delle
notizie contenute ne Il Codice Da Vinci non aumenta.
Anzi. Anzi, proprio un libro come The Da Vinci Hoax: Exposing the
Errors in “The Da Vinci Code”, pubblicato
quest’anno per la Ignatius Press di San Francisco da Carl E.
Olson e Sandra Miesel, che ignorano completamente la vicenda di Rennes
le Château, rincara la dose.
Stando
al romanzo, Gesù non era di natura divina né mai
lo proclamò: fu solo al Concilio di Nicea che, con un colpo
di mano petrino da parte dell’imperatore Costantino che lo
convocò, si stabilì quel falso dogma. Olson e la
Miesel rispondono citando un classico, il fondamentale Early Christian
Doctrines, di John Norman Davidson Kelly del 1958, la cui seconda
edizione riveduta uscì nel 1978 (viene costantemente
ripubblicato: ultimamente nel 2000, dalla Continuum International
Publishing Group di Londra e New York) e che in italiano è
stato tradotto come Il pensiero cristiano delle origini (Dehoniane,
Bologna 1984).
Già
nei secoli precedenti Nicea, la natura sia divina sia umana di
Gesù era universalmente riconosciuta, con il
«Gesù è il Signore» della
Lettera ai romani (10,9) e il «Gesù Cristo
è il Signore» della Lettera ai filippesi (2,11)
quali prime e più antiche confessioni di fede. A Nicea, del
resto, non si stabilì affatto che Gesù, il Figlio
di Dio, fosse divino, giacché questo era appunto creduto: ci
si occupò invece di quale fosse l’esatta relazione
esistente fra il Figlio e il Padre. Uguali? Di un’unica
sostanza? Due persone distinte? Il Concilio giudicò quindi
eretica una dottrina all’epoca popolare,
l’arianesimo, secondo cui il Figlio era una
divinità inferiore, creata dal Padre a un certo momento del
tempo e non esistente ab aeterno.
Inoltre,
all’epoca del Canone Muratoriano (siamo attorno al 190), i
quattro Vangeli “sempliciotti” sono già
canonici e gli gnostici invece out, il tutto una novantina
d’anni prima della nascita di Costantino. Del resto, se
c’è una costante certa nella storia del
cristianesimo, fra ortodossia, scismi e ed eresie, è proprio
la canonicità dei Vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni.
Se Brown predilige lo gnostico Vangelo di Tomaso, va ricordato che si
tratta del testo che fonda la grandezza della
“moglie” di Gesù sul fatto che ella
«[...] si fa maschio».
Quello
che quando Simon Pietro dice: «Maria deve andare via da noi!
Perché le femmine non sono degne della Vita»,
Gesù replica: «Ecco, io la guiderò in
modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito
vivo uguale a voi maschi. Perché ogni femmina che si fa
maschio entrerà nel Regno dei cieli».
Il
romanziere afferma poi che i primi cristiani s’impadronirono
dell’uomo Gesù ammantandolo di una falsa
divinità onde legittimare ed espandere il potere della
Chiesa romana. Il vero Gesù, carico di umanità,
sarebbe infatti quello che restituiscono appunto solo i Vangeli
gnostici.
In
realtà, i sinottici e Giovanni tratteggiano, spesso
dettagliatamente, il Gesù falegname ebreo che diviene rabbi
con molti riferimenti storici oggettivi e riscontrabili, e talora
mostrano un attaccamento all’hic et nunc che ha pochi pari,
laddove il “Gesù gnostico” appare un
etereo conferenziere che tiene lunghi, complessi e criptici sermoni
sugli “eoni” e su “gli arconti”
adatti solo a una ristretta élite intellettuale.
L’Opus
Dei, Geova e Asterix
Ma Dan Brown non si arrende e, sul proprio sito Internet, crea una
pagina specifica con un titolo che non ammette dubbi, Bizarre True
Facts from “The Da Vinci Code”.
Uno
di questi è il fatto che l’Opus Dei «ha
recentemente terminato la costruzione di una sua sede centrale
nazionale, del costo di quarantasette milioni di dollari, situata al
numero 243 di Lexington Avenue, a New York City».
Embè? A parte il fatto che l’Opus Dei è
una prelatura personale e non una «chiesa», come
talora viene scritto nel romanzo, la cosa più assurda
è invece il personaggio di Silas, un
«monaco» albino che ne Il Codice Da Vinci
è un assassino dell’Opus Dei. Gli è
però che l’Opus Dei non è un ordine
religioso e che i suoi membri sono per la stragrande maggioranza laici;
i sacerdoti sono meno del 2%. Ma, come notano Olson e la Miesel,
l’Opus Dei assume nel romanzo di Brown il posto che
già fu della Compagnia di Gesù,
“notoriamente” un “truce”
“corpo speciale” a cui la Chiesa ha sempre affidato
i lavori sporchi. Un po’ come gl’inquisitori,
insomma.
Poi
il nome di Dio. Ne Il Codice Da Vinci, uno dei protagonisti, Robert
Langdon, esperto statunitense di simbologia, spiega coram populo
l’origine di YHWH (pronunciato Yahweh), ovvero il sacro nome
di Dio che gli ebrei osservanti credono non si debba mai pronunciare.
Per bocca di Langdon, il romanzo dice che YHWH deriva da Geova, il
quale sarebbe l’unione androgina del maschile Jah e del
femminile Havah, ossia il nome preebraico di Eva. In realtà,
qualsiasi enciclopedia seria informa sul fatto che
“Geova” è un termine della lingua
inglese (“Jehovah”) inesistente prima del secolo
XIII e comunque poco usato fino al XVI. Fu creato artificialmente
combinando le consonanti di YHWH (o JHVH) e le vocali di
“Adonai” (“Signore”), che
è il termine con cui, nell’Antico Testamento, gli
ebrei sostituirono l’impronunciabile YHVH.
Inoltre,
il nome ebreo (e non pre-ebraico) di Eva è hawwâ
(pronunciato “havah”), che significa
«madre dei viventi». Nulla di tutto questo ha
caratteristiche androgine.
E
come potrebbero mancare i templari? Secondo Brown, Papa Clemente V ne
bruciò centinaia, disperdendone le ceneri nel Tevere. Nel
romanzo lo dice lo storico Sir Leigh Teabing. Il fatto è
invece che i templari furono bruciati principalmente a Parigi, poi in
misura molto minore in altre tre cittadine francesi e forse a Cipro.
Traccia di roghi romani non ve n’è. E comunque
Papa Clemente V avrebbe potuto giocare ben poco con le loro ceneri nel
Tevere: si tratta infatti del pontefice che aprì la
Cattività avignonese e che dunque non stava
nell’Urbe, ma nell’entroterra della costa
mediterranea francese. Né i templari, nonostante Brown,
self-confessed edotto in storia dell’arte, ebbero
alcunché a che fare con l’architettura gotica.
In
ultimo, nel romanzo si dice che “tutti sanno” che i
merovingi hanno fondato Parigi. No: la città era un
villaggio gallico fondato con il nome di Lutetia Parisiorum dalla
tribù di quelli che in latino suonavano celti parisii; un
nome che fa probabilmente riferimento a Lug, il dio celtico del sole.
Per Olson e la Miesel, nessun parigino colto avrebbe mai commesso
l’errore. Ma certo nemmeno un lettore delle avventure di
Asterix, tradotto pure nella lingua di Brown.
Ora,
se fosse un romanzo storico, Il Codice Da Vinci andrebbe criticato sul
piano di Sir Walter Scott e di Alessandro Manzoni. Non essendolo, va
trattato come fantascienza; ma come fantasy è bruttino,
più simile alla serializzazione delle abbazie cum delicto di
Ellis Peters (1913-1995) che a Umberto Eco. Letterariamente, poi, un
passo come: «Da allora aveva la fobia dei luoghi chiusi:
ascensori, metropolitane, campi di squash» stronca anche i
più volenterosi.