Tante
sètte, una Prelatura
Attaccata
da "fuori" con continue e ripetute campagne di stampa, denunce,
tentativi di interdizione che giungono fino alle interrogazioni
parlamentari; attaccata da "dentro" da parte di quei cattolici che
condannano come "integrismo preconcìliare" il suo
radicalismo evangelico e come "volontà di restaurazione" la
sua fedeltà rocciosa al Magistero papale, la Obra
è sotto il tiro - in tutto l'Occidente, ma in particolare
negli States - dei "movimenti antisètte".
È
un aspetto poco noto, anche agli stessi cattolici, della lotta intorno
a questa prima Prelatura della Chiesa cattolica. Vale la pena di
parlarne per confermare quanto alta sia, qui, la posta in gioco.
Poiché
non riuscirei a trovare parole più precise e informate, vi
allegherò più avanti quanto scrive, per
inquadrare il problema, il saggista italiano Massimo Introvigne, tra i
maggiori conoscitori internazionali di quel pullulare selvaggio di
"nuove religioni" che hanno realizzato il contrario esatto - comme
d'habitude - di quanto profetizzavano i soliti "esperti": sociologi,
futurologi, ma anche teologi e specialisti vari di questioni religiose,
molti preti e vescovi non esclusi.
Del
resto, sapete anche voi che non va mai dimenticata la più
attendibile tra le definizioni di "esperto": "Un signore, il cui
compito principale consiste nello spiegare periodicamente, a pagamento,
perché egli stesso e i suoi colleghi hanno sbagliato tutte
le previsioni".
Per
stare al nostro caso, negli anni Cinquanta e Sessanta (ma anche oltre),
questi specialisti della cantonata in confezione severamente
"scientifica", teorizzavano cose come "l'eclissi del sacro nella
civiltà industriale"; assicuravano che il futuro sarebbe
stato "secolarizzato"; giuravano che non c'era più posto,
nella cultura tecnologica e postmoderna, per la dimensione religiosa.
Ci
fu, tra i mille, un biblista, il famoso tedesco Rudolf Bultmann, che,
già negli anni Venti, impressionato dalle radio a galena e
dalle lampadine elettriche a filamento nelle case, sentenziò
che era impossibile che l'uomo potesse maneggiare pulsanti per
ascoltare voci a distanza o avere luce artificiale e continuare a
prendere sul serio qualunque Sacra Scrittura.
Così,
dallo sbigottimento naif per il "progresso" di un professore da
biblioteca teutonica, nacque la demitizzazione dei vangeli, da
"depurare" da tutto ciò che non sapesse di "scienza" e di
"ragione" in senso tardo-ottocentesco. E ancora adesso, negli attardati
"pensatoi" clericali, c'è chi prende sul serio la caricatura
bultmanniana, tutta teorica, di presunto "uomo moderno".
È
capitato, naturalmente, l'opposto di quanto previsto. A Est, il
maggiore e più prolungato sforzo di tutta la storia per
sradicare ogni fede nel Trascendente dal cuore dell'uomo e convenirlo
all'ateismo materialista, non solo non ha raggiunto i suoi obiettivi,
ma alla fine è stato vinto anche (o, forse, soprattutto)
proprio perché i popoli non volevano rinunciare alla
religione: anzi, di essa, smentendo ogni teoria, facevano motivo non di
"alienazione", bensì di tenace impegno pure sociopolitico.
Vediamo
di non dimenticare ciò che già certa
disinformazia cerca di oscurare: l'inizio della fine, per tutto il
blocco marxista, ha una data precisa, quella dell'agosto 1980, quando
gli operai polacchi di Danzica si barricano nei cantieri simbolo del
regime comunista (non a caso intitolati a Lenin) dando vita al primo -
ripeto: primo - sciopero che non si abbia il coraggio di reprimere con
la violenza, in tanti decenni e in tanti Paesi a regime marxista.
Sui
cancelli, quei lavoratori appendono due immagini che provocano uno choc
nei "progressisti" dell'Occidente che le vedono alla televisione: una
Madonna di Czestochowa e il ritratto del "loro" papa, eletto due anni
prima e che, nell'estate precedente, era stato in visita in patria, ben
mostrando da quale parte stesse il popolo sotto quei regimi "popolari".
Quei
filmati degli ingressi dei cantieri sbarrati, "protetti" dalla Madonna
e dal papa e dischiusi solo per far entrare, acclamatissimi, il
cardinale primate o qualche vescovo; quelle immagini degli operai in
fila, in attesa di confessarsi, davanti a preti in abito talare e in
stola violacea seduti su sgabelli nei cortili delle officine; tutto
questo (come ben sa chi lo vide allora, per settimane, nei
telegiornali) sconvolse di colpo scherni che sembravano granitici e
segnò davvero l'uscita dai miti della "modernità"
ideologica.
Quanto
all'Ovest, la prevista "secolarizzazione" è stata
sostituita, tutto al contrario, da un'esplosione senza precedenti di
sètte, chiese, chiesuole, conventicole più o meno
esoteriche, culti orientaleggianti, con centinaia di denominazioni, con
un numero impressionante e crescente di adepti spesso fanatizzati.
Così che ogni tanto ci scappano la strage, l'omicidio
rituale, lo scandalo sessuale o fiscale. Dando, comunque, ulteriore
conferma alla diagnosi di Gilbert K. Chesterton; "II guaio dell'uomo di
oggi non consiste nel non credere in niente. Al contrario, il suo guaio
consiste nel credere in tutto".
Geovisti,
mormoni, hare krishna, scientologi, bambini di Dio, new age, moonisti;
questi nomi e realtà ben conosciuti e con schiere di adepti
anche in Italia (i testimoni di Geova, per esempio, sono ormai la
seconda confessione religiosa nella penisola dopo i cattolici), non
sono che poche delle punte emergenti da un mondo formicolante su cui
quel Massimo Introvigne di cui vi dicevo ha incentrato la sua ricerca.
Dalla
quale risulta che si cerca di implicare anche l'Opus Dei in questa
esplosione sospetta di una "nuova religiosità" che, accanto
a discepoli ferventi, ha fatto emergere pure avversari altrettanto
intransigenti, se non ugualmente fanatici.
Sentiamo,
dunque, Introvigne. Una citazione un po' lunga, ma su cui credo valga
la pena di riflettere. In effetti, in genere non se ne sa molto, mentre
i problemi posti qui riguardano un numero crescente di persone: pare
che in Occidente ciascuno abbia già - o avrà in
un prossimo futuro - un parente o un amico o almeno un conoscente
coinvolti in qualche modo nella "esplosione mistica" che prelude a quel
XXI secolo che avrebbe dovuto essere quello della "secolarizzazione
compiuta".
Per
venire al nostro esperto: "Di fronte al proliferare delle nuove
religioni - che non mancano talora di aspetti francamente
discutìbili - nascono fenomeni contrari che vanno sotto il
nome dì "movimento antisètte", ormai oggetto a
sua volta di analisi sociologiche e psicologiche di notevole impegno.
Tali analisi hanno messo in luce come il "movimento
antisètte" (Anticult Movement) che si oppone alle nuove
religioni - definendo alcune di esse "culti distruttivi della
personalità", insistendo sull'ipotesi di 'lavaggio del
cervello" e richiedendo allo Stato misure repressive - sia una
realtà sostanzialmente diversa dai gruppi che contrastano le
nuove religioni a partire da una religione "ufficiale", "storica",
maggioritaria.
"Mentre
la protesta contro le "sètte" può dare
l'impressione di essere un fenomeno unitario, in realtà non
è affatto così, e l'osservatore più
attento non può non notare l'intreccio tra due movimenti
diversi, che nascono da origini contrapposte, hanno interessi
divergenti e le cui contraddizioni talora esplodono.
"Da
una parte vi è la tradizionale avversione verso le nuove
religioni che viene dalle Chiese e comunità tradizionali, le
quali formulano un giudizio negativo dì carattere
prevalentemente dottrinale. Tale giudizio presuppone che esista una
verità, anche in campo religioso, che l'uomo, seppure con
difficoltà, può in qualche misura attingere: e
che vi siano quindi criteri di verità e di valore sulla cui
base le nuove religioni possono essere esaminate e fatte oggetto di una
valutazione.
"A
questa critica di matrice religiosa si oppone - più di
quanto non si affianchi - il "movimento antisètte" (le cui
origini si situano normalmente al di fuori degli ambienti religiosi),
che prende spunto dall'allarme sociale suscitato dalle nuove religioni
per proporre in realtà una critica di tutte le esperienze
religiose "forti", avvengano queste nell'ambito di religioni
maggioritarie o minoritarie.
Mentre
la critica, per così dire, ''religiosa'' delle nuove
religioni mette in luce gli aspetti discutibili delle
"sètte" in nome della verità e dei valori,
l'Anticult Movement, al contrario, considera "settario" chiunque non
accetti il relativismo e si ostini a credere che esista, anche in campo
religioso, una verità".
Ne
deduce l'Introvigne che stiamo seguendo: "È una polemica le
cui motivazioni ideologiche sono facilmente identificabili e che
facilmente scivola dalla critica delle "sètte" alla critica
della religione in generale. Sul bollettino ufficiale di una delle
principali associazioni europee dell'Anticult Movement, l'ADFI
("Associazione di difesa delle famiglie e dell'individuo"), francese,
uno dei maggiori protagonisti del movimento, Alain Woodrow, scriveva
recentemente che "a priori non c'è nessuna ragione per
mostrarsi più indulgenti verso le Chiese che verso le
sètte".
A
proposito del cristianesimo, Woodrow scrive per esempio che "nel corso
della sua lunga storia [...] la Chiesa cristiana - cattolica, ortodossa
e protestante - è stata accusata degli stessi eccessi,
spesso giustamente, di cui ci si lamenta a proposito delle
sètte...". Anche se, aggiunge Woodrow, "dopo l'ultimo
Concilio della Chiesa cattolica, bisogna riconoscere che il clima
è molto cambiato" e che "lo spirito settario della
Controriforma è finalmente morto"".
In
particolare, si rallegra Woodrow, ""i digiuni e le altre forme di
ascesi sono praticamente scomparsi, e il regolamento all'interno dei
seminari e delle case religiose è molto umanizzato dopo il
Concilio".
A
queste condizioni, il nostro autore può dire che la Chiesa
cattolica non è (o meglio non è più)
una "sètta": ma ci si chiede quale sia il giudizio che il
movimento dà su realtà - che peraltro vivono
tranquillamente all'interno delle Chiese e comunità
maggioritarie - dove "i digiuni e altre forme dì ascesi" non
sono affatto scomparsi, insieme al "catechismo imparato a memoria",
allo "spirito della Controriforma" e all'idea di costituire la "sola
vera Chiesa".
Si
tratta di critiche assolutamente consuete e tradizionali in un certo
ambiente ideologico laicista nei confronti della Chiesa cattolica e di
altre esperienze religiose cristiane. Facendone, tuttavia, il criterio
principale di critica delle "sètte" si rischia di rendere
non più comprensibile le categorie di "sètte" o
di "nuove religioni" - in quanto distinte dalla religione tradizionale
- e di ridursi a una generale polemica antireligiosa".
Prosegue
sempre Introvigne: "Una figura di punta del movimento "laico" anticulti
scriveva del resto che "tra chiese e sètte, esiste solo una
differenza di grado e di dosaggio", e perfino che "legalmente, la linea
di demarcazione tra la conversione e il lavaggio del cervello
è difficile da tracciare"".
E
qui arriviamo finalmente a ciò che più ci
interessa: "Da questo punto di vista, mentre il movimento
antisètte rivolge i suoi attacchi anche contro
realtà come l'Opus Dei, che evidentemente fanno parte a
pieno titolo del mondo cattolico, c'è da attendersi in
futuro - una volta rimossi alcuni equivoci e ingenuità - una
crescente divaricazione tra la critica religiosa (in Italia,
soprattutto cattolica) delle nuove religioni condotta in base a criteri
dottrinali di verità e di valore (e generalmente diffidente
nei confronti degli interventi dello Stato sul terreno della religione)
e l'attacco di matrice laica alle "sètte" e al "settarismo",
il cui punto di partenza è precisamente il rifiuto della
possibile esistenza di ogni verità religiosa, "vecchia" o
"nuova" che sia, insieme alla denuncia - con proposta di reprimerla
legislativamente - di ogni esperienza religiosa "forte", avvenga questa
nell'ambito di religioni tradizionali o alternative".
Fin
qui Massimo Introvigne.
Nel lucido inquadramento generale dato da lui al problema, la nostra
Obra sembrerebbe un obiettivo tra i tanti. In realtà, da
anni gli Anticult Movements ne hanno fatto un bersaglio privilegiato,
come mi confermava, in un incontro, lo stesso studioso: "Nei loro
giornali e riviste, un articolo virulento contro l'Opus Dei non manca
mai, magari finendo con la richiesta alle autorità di
metterlo fuori legge.
Tra
i loro cavalli da battaglia c'è lo scandalo per l'uso del
cilicio, praticato personalmente e consigliato ai suoi (seppure con
doverosi limiti e precisazioni) dal beato Escrivà. Sembrano
ossessionati, questi Anticults, proprio dal cilicio, quasi che non
fosse una scelta libera e volontaria di altre persone libere e adulte,
ma un'imposizione fatta a loro" (ma su questo tipo di contestato
"ascetismo", cilicio e "frusta" compresi, torneremo più
avanti)
Nel
convegno internazionale dal titolo esplicito Totalitarian Groups and
Cultism, tenuto a Barcellona nell'aprile del 1993, un sociologo
spagnolo - Alberto Moncada: un "ex", mi dicono - al termine di un
violento j'accuse contro l'Istituzione fondata dal suo connazionale
Escrivà, ne auspicava "l'inclusione nell'elenco delle
sètte pericolose per l'infanzia".
Richiesta
peraltro singolare, visto che l'Opera non accetta - e solo "in prova" -
che chi abbia compiuto 18 anni e, dunque, non è di certo
più "infante". Comunque, il professor Moncada annunciava
compiaciuto la fondazione a Pittsfield, Massachussets, di un network,
una "rete" dedicata soltanto a combattere in ogni modo l'Opus Dei in
tutto il mondo.
Secondo
Massimo Introvigne, "in realtà ciò che disturba,
spesso scandalizza, nell'Opus Dei, è il processo di
conversione che molti vi vivono, prendendo la prospettiva evangelica
"troppo sul serio" per i gusti di chi - oggi magari nella Chiesa stessa
- vorrebbe ridurla a etica, a morale, a educazione civica, a impegno
sociopolitico accettabili da tutti".
È
comunque sorprendente che, tra le motivazioni sulla cui base si
combattono i "culti" - mettendo nel calderone anche, se non
soprattutto, l'Opera - ci sia la speculazione economica che sempre
sarebbe praticata dai dirigenti dei gruppi religiosi.
È
sorprendente, dico, perché anche questi Movements
dall'apparenza tanto virtuosa sembrano essere divenuti un fruttuoso
affare; oltre che un'attività al di fuori delle leggi. In
effetti, il "plagiato dalla sètta" (la quale, dunque, spesso
è l'Opus Dei: pare che nella sola Spagna, per non parlare
degli Stati Uniti, alcune decine di giovani aspiranti membri siano
stati vittime delle violente "cure" di costoro) viene bloccato,
cacciato in un furgone, trasportato e recluso in un alloggio segreto o
nella camera di un motel.
Qui si procede a quella che chiamano "deprogrammazione", per guarirlo
dal "lavaggio del cervello" che gli sarebbe stato praticato nella
"sètta".
Ma
una "deprogrammazione" (dall'esito, tra l'altro, spesso deludente per i
rapitori) viene fatta pagare in media 50 mila dollari a coloro -
parenti o amici - che hanno richiesto l'intervento dei movement-men,
che spesso hanno fatto di questo la loro lucrosa ed esclusiva
professione.
Secondo
molti studiosi dell'inquietante fenomeno, l'insistenza nel presentare
anche l'Opus Dei come una sètta pericolosa (la quale,
pertanto, giustificherebbe la "deprogrammazione" coatta) nascerebbe da
una strategia precisa. Soprattutto negli Stati Uniti, i movimenti
antisètte fermentano in ambienti di protestantesimo radicale
o di liberalism agnostico o di ebraismo fondamentalista o tra i molti
"massonismi" spesso impazziti e trasformati in schegge incontrollabili:
per tutti costoro il "nemico" vero, quello da battere a ogni costo,
è la Chiesa cattolica
Non,
certo, la Chiesa di alcuni Paesi, ormai estenuata, come arresa al
"mondo", dì profilo volontariamente basso, che sembra quasi
implorare il perdono per ancora esistere, seppure come ecumenica
"organizzazione umanitaria". No: la lotta è evidentemente
con la Chiesa del papa, di un papa "tosto" che reagisce alla
mentalità dominante e ricorda le esigenze di un vangelo che,
necessariamente, divide, provoca contrasti. Una Chiesa che,
più che inseguire gli indici di gradimento, non dimentica
l'inquietante (e, oggi, intollerabile per molti) avvertimento di
Gesù: "Credete forse che sia venuto a portare la pace sulla
terra? No, vi dico, ma la divisione" (Lc, 12,51).
Così,
l'attività di questi ambienti contro l'Opus Dei mira
più in alto, ha come bersaglio vero il vertice vaticano
stesso, utilizzando la diffamazione dell'Istituzione dì
Escrivà che - per la sua fedeltà al Magistero -
è vista come la temibile Compagnia di Gesù dei
tempi moderni, come una schiera di nuovi templari, sbaragliando i quali
si farebbe cadere una delle ultime difese dei bastioni romani.
Da
qui, anche, il sostegno ai movimenti antisètte - sostegno
talvolta palese, talaltra celato - da parte di certi avversari
cattolici della Obra, quei cattolici preoccupati soprattutto di una
cosa: che si creda "troppo", che si prendano "troppo" sul serio il
paradosso e la radicalità del vangelo. Ma è un
sostegno forse un po' masochista perché quei supporter
clericali sono spesso dei religiosi - con tanto di voti di
castità, povertà, obbedienza - e, dunque,
rientrano essi stessi nella condanna liberal di ogni esperienza
religiosa "forte". Sarebbero anch'essi dei "fanatici" da
"deprogrammare".
Tutto
questo tramestìo, così spesso ignorato, al riparo
delle quinte, non è - badate bene - la solita fantateologia;
né (Dio scampi!) è una caduta in quella
dietrologia della quale dianzi si parlava con l'ironia che merita. Si
tratta di dinamiche e di fatti accertati.
E'
successo, tra l'altro, un fatto che ha sorpreso chi non conosca la vera
posta in gioco in questa lotta senza esclusione di colpi. I giornali
del mondo li scorrete pure voi e, dunque, sapete quanto me che la
stampa anglosassone di solito non dedica che scarna, magari sprezzante
attenzione alle cose cattoliche: roba da papisti, da hispanics, da
irlandesi, da macaroni-eaters... Folclore pittoresco, nel migliore dei
casi, roba da cartolina turistica con guardia svizzera, sedia
gestatoria, flabelli...
Ebbene,
proprio questa stampa generalmente distratta (per usare un eufemismo),
in vista della beatificazione di monsignor Escrivà ha
lanciato in prima pagina - e ha poi continuato, per settimane, con una
campagna martellante - articoli virulenti contro ciò che il
papa aveva in programma. Ora: è stato possibile documentare
come dietro quelle campagne stessero i legami tra quei giornali (la cui
proprietà risale agli ambienti duramente, spesso
fanaticamente anticattolici cui si accennava) e i neworks degli
antisètte, soprattutto americani.
Se si esamina con un minimo di attenzione la rassegna stampa, si
constata come il tentativo fosse quello di far credere che il papa -
sanzionando "l'esaltazione di uno spagnolo fanatico, creatore di una
lobby segreta, forgiatrice a sua volta di altri fanatici" - non solo
mostrava il suo vero volto di nemico della tolleranza liberal, ma
copriva con la sua autorità un processo di beatificazione
truccato, condotto in porto solo grazie al denaro, magari al ricatto di
una potenza occulta.
Si
è sostenuto, tra l'altro, che, in cambio del titolo di
"beato" al suo fondatore, l'Opera si impegnava a riempire il buco
creato nelle finanze della Santa Sede dalle speculazioni spericolate
del vescovo americano di origine lituana con lo storico titolo di Horta
presso Cartagine (una delle antiche diocesi del Nordafrica travolte
dall'alluvione musulmana) e meglio conosciuto come responsabile della
banca vaticana: il "sinistro" Paul Marcinkus...
Poiché,
stando ai teologi in beatificazioni e canonizzazioni il papa impegna la
sua infallibilità, lo "scandalo Escrivà" e
"l'operazione Opus Dei" avrebbero tolto credibilità al dogma
stesso. La riuscita della campagna di stampa, dunque, avrebbe aperto
una crepa vistosa nello stesso edificio dottrinale della Chiesa
cattolica. La scure, dunque, non è posta ai rami, ma alle
radici stesse dell'albero ecclesiale.
Insomma,
è ora di venire al dunque: che cos'è davvero
questo Opus Dei che - sin dai suoi inizi, e ovunque operi - suscita
tanto amore e tanto odio? Com'è nato, com'è
cresciuto, com'è organizzato questo autentico "segno di
contraddizione"?
Potrei
rispondervi subito che, "nata" nel 1928 (vi renderete conto che le
virgolette sono necessarie, dopo che vi avrò spiegato come
è da intendersi quella "nascita"), dal 28 novembre 1982 -
cioè, da sette anni dopo la morte del fondatore, avvenuta il
26 giugno del 1975 - la Societas Sanctae Crucis et Operis Dei, come
dice il suo nome ufficiale, è la prima e sinora unica
"Prelatura personale" della Chiesa cattolica.
Al
che, però, seguirebbe di certo l'ovvia reazione:
già, ma che cos'è una "prelatura personale"?
La
risposta più precisa è, naturalmente, quella
ufficiale; la definizione, cioè, che ne è data
nello spesso volume rilegato in rosso e con lettere in oro che
è l'Annuario pontifìcio e la cui redazione
è presso la stessa Segreteria di Stato della Santa Sede.
Quel
libro così autorevole, che sta sui tavoli "che contano" di
tutto il mondo (dai giornali alle ambasciate, fino alle sedi dei
servizi segreti...), così recita: "Le prelature personali
sono strutture giurisdizionali non circoscritte in un ambito
territoriale, aventi come finalità la promozione di una
adeguata distribuzione dei presbìteri o l'attuazione di
speciali iniziative pastorali o missionarie per le diverse regioni o
categorie sociali".
Ricordato
che questo istituto - nuovo nella storia della Chiesa che pure, in
quasi duemila anni, sembrava avere ormai tutto sperimentato quanto a
forme canoniche - fu auspicato dal Concilio Vaticano II e fu precisato
e regolamentato in seguito da alcuni motu proprio e da altri documenti
pontifici, l'Annuario continua: "Spetta alla Sede Apostolica, dopo aver
sentito le Conferenze episcopali interessate, erigere le prelature
personali e stabilirne gli statuti. Esse sono rette da un prelato, come
ordinario proprio, il quale ha il diritto di erigere un seminario
nazionale o internazionale e di incardinarne gli alunni".
E,
tanto per infliggervi altro "ecclesiastichese" e darvi tutto il
complesso delle norme, aggiungo che il redattore vaticano conclude in
questo modo: "È prevista la possibilità che laici
si dedichino, mediante convenzioni stipulate con la prelatura, alle
opere apostoliche della medesima. L'ordinamento canonico vigente
prevede, inoltre, che negli statuti siano definiti i rapporti della
prelatura con gli ordinari del luogo nelle cui Chiese particolari la
stessa svolge, previo consenso del vescovo diocesano, le sue opere
pastorali o missionarie".
Linguaggio
da diritto canonico. Peraltro necessario, anzi indispensabile: in
queste materie che riguardano l'ordinamento istituzionale della Chiesa
ogni parola è pesata, è passata al vaglio di
decenni se non di secoli di studio, di dibattito, soprattutto di
esperienza. Nella comunità ecclesiale, la vita precede
sempre il diritto. La proverbiale lentezza vaticana nasce anche dal
rifiuto dell'astrattezza "illuministica", dall'allergia allo
schematismo "ideologico", per il quale degli intellettuali a tavolino
organizzano la realtà secondo le loro teorie e utopie.
Per
tornare alla definizione ufficiale di "prelatura", è
necessariamente linguaggio criptico per i non iniziati.
Può
forse essere più comprensibile la risposta data, in
un'intervista, da monsignor Del Portillo alla domanda: "Che
cos'è una prelatura personale, e la Prelatura dell'Opus Dei
in particolare?". "È una struttura gerarchica della Chiesa
che riunisce sacerdoti e laici sotto la giurisdizione di un prelato,
per realizzare un determinato fine apostolico tra i cristiani comuni
che vivono in mezzo al mondo, insegnando a trasformare il lavoro
normale di ciascuno in orazione, in occasione di un incontro con Dio".
Per
provare a capirci con un'altra definizione che mi sembra tra le
più efficaci per la sua sinteticità: "Una
prelatura personale costituisce un programma pastorale della Chiesa
giurìdicamente strutturato".
Sappiate
subito, comunque, che l'Opus Dei ha impiegato 54 anni per ottenere
questo status "prelatizio" che (dicono i suoi dirigenti) realizza in
pieno le sue aspirazioni ed è da considerarsi, dunque, come
il punto definitivo dì arrivo.
Più
di mezzo secolo, in cui l'Opera ha cercato un posto che non trovava nel
diritto canonico del tempo, "versando molte lacrime" (parole di
Escrivà), accettando come male minore - con riserva e nella
prospettiva della provvisorietà - le approvazioni che le
venivano dalla Santa Sede, ma che la facevano "attraccare a un molo
che, nel porto della Chiesa, non era il suo".
Espressione,
anche quest'ultima, del fondatore: il quale morì prima che
l'Opera potesse gettare l'ancora in quell'approdo tanto a lungo
desiderato, cercato, perseguito. Ma del quale non ha mai dubitato.
Scrìveva nel 1951 Escrivà ai suoi: "Non so quando
verrà il tempo di una soluzione giuridica appropriata per
noi. Anche se non conosco quel momento, anche se penso che
richiederà parecchi anni, torno a ripeterlo: non dubito che
quel tempo verrà...".
Forse,
vi giungerà l'eco di un'altra disputa interna alla Chiesa
circa quello che viene chiamato "l'itinerario giuridico dell'Opus Dei".
È un'altra bagarre anch'essa assai enfatizzata (pare sia
destino per questa Istituzione...) ma - da quel che mi sembra di avere
capito studiando questo ennesimo dossier - mi pare che tutto si riduca
a quanto segue.
Da
una parte ci sono quelli dell'Opus Dei che sostengono che - avendo
monsignor Escrivà "visto" in modo misterioso ciò
che avrebbe dovuto creare - tutto era già chiaro sin
dall'inizio e la sua lotta è stata tesa a realizzare il
contenuto di quella visione. Dall'altra parte si dice invece che anche
l'Opera - come altri istituti cattolici - procedette per
approssimazioni successive, cercando il suo "posto" canonico sulla base
dell'esperienza via via accumulata.
Non
mi sembra un contrasto insanabile.
Comunque
sta qui, tra l'altro, una delle ragioni della fama di discrezione
eccessiva, anzi dì segretezza: costretta per decenni ad
accettare - per mancanza di un'altra "casella" istituzionale nel
diritto della Chiesa dell'epoca - lo status canonico di "istituto
secolare" (che sembrava fare dei suoi membri, che si vogliono
interamente "laici", quasi dei "religiosi" travestiti), l'Opera tendeva
a non pubblicizzare le sue regole, gli statuti datile dalla Santa Sede.
Quelle
norme canoniche non erano "segrete", com'è stato ed
è tuttora detto: erano liberamente consultabili da chiunque
lo desiderasse (oltre che esplicitamente accettate da ogni membro), ma
c'era un certo ritegno nell'insistere su una struttura che era
considerata inadeguata, temporanea.
Da questa discrezione, segno di un disagio, le voci di "leggi segrete",
di "statuti occulti e inconfessabili".
Ma
onestà impone di riconoscere che, raggiunta la
mèta agognata della Prelatura, il Codex juris particularis
Operis Dei (cioè le norme che reggono l'Istituzione e gli
impegni dei membri) è diffuso senza problemi e sta in
appendice a quasi tutti i libri che si occupano di questa
realtà, anche quelli scritti da "opusdeisti".
In
ogni caso, essendo ormai morto il fondatore, quando si
arrivò in porto il ruolo di primo Prelato della
"Società della Santa Croce e Opus Dei" fu assunto
dall'allora quasi settantenne, ma in gran forma, Alvaro Del Portillo:
ingegnere civile, poi laureato in filosofia e quindi in diritto
canonico, era stato per oltre quarant'anni il collaboratore
più stretto del beato, tanto che il suo diritto e dovere di
succedergli fu votato subito e all'unanimità dal Congresso
generale dell'Opera.
La
quale ha proseguito nel suo slancio metodico e inarrestabile senza
alcun problema, in piena continuità con quanto aveva
preceduto: non si è, cioè, in nessun modo
verificata quella crisi (da molti temuta, da altri sperata) che spesso,
nella Chiesa, segue la scomparsa di un leader carismatico che ha dato
vita a una nuova istituzione.
La
scelta di Del Portillo è stata del resto del tutto gradita
alla Santa Sede, come conferma tra l'altro il fatto che nel 1991 quel
sacerdote è stato consacrato vescovo in San Pietro dallo
stesso Giovanni Paolo II.
Benché
una prelatura personale sia, per esprimerci in termini rozzi ma
comprensibili, simile a una "diocesi con un popolo, ma senza territorio
definito" (territorio dell'Opus Dei è il mondo intero, il
suo "popolo" sono i suoi membri) e benché a capo di una
diocesi ci sia, per definizione, un vescovo, il Prelato può
non essere rivestito della dignità episcopale. Nulla dunque
mancava, sul piano canonico, a Del Portillo allorché -
essendo semplicemente prete, seppure con il titolo onorifico di
"monsignore" - dal 1982 al 1991 resse la prima prelatura della storia
della Chiesa.
L'elevazione
a vescovo - oltre a costituire un ulteriore segno del favore della
Chiesa - gli ha dato la possibilità di consacrare egli
stesso il clero incardinato nella sua Prelatura, aumentandone
così ulteriormente il prestigio: e, dunque, con nuove
inquietudini da parte degli ostili; con rinnovati sospetti e accuse di
essere una sorta di "Chiesa parallela".
In
realtà, questa accusa deve fare i conti (tra l'altro) con un
dato di fatto inconfutabile: l'Opus Dei non è un gruppo di
"fratelli" e "sorelle" consacrati, una congregazione, un ordine, un
"istituto di perfezione", dipendente dunque - a norma del diritto
canonico - dalla apposita Congregazione vaticana per i religiosi.
L'Opus Dei - non essendo governato da un qualunque "superiore" ma da un
"prelato" e dipendendo dalla Congregazione per i vescovi - fa parte
della stessa struttura gerarchica della Chiesa. Dunque è
anch'esso "la Chiesa", ne forma una parte essenziale, non
può dunque (per la stessa logica canonica) esserle
"parallelo".
In
ogni caso, pericoli di questo genere sembrano ancor più
improponìbili in quanto - al vertice - l'Opera professa
(seguendo le norme cui è vincolata) una fedeltà
alla Santa Sede, e al papa in particolare, che suscita la diffidenza
proprio di quegli stessi che la sospettano (dunque, con qualche
incoerenza) di voler "far da sé", dì andare per
la sua strada "restauratrice".
Alla
base, poi, i suoi statuti le impongono di non installare i propri
Centri (o anche solo di iniziare l'apostolato con qualche suo membro)
senza il consenso previo ed esplicito del vescovo del luogo,
informandolo poi periodicamente della sua attività e
inserendosi pienamente nella pastorale locale.
Dunque,
la Prelatura deve affiancarsi ai vescovi e alle loro diocesi, non
sostituirli Una collaborazione, non un antagonismo. Che le cose, in
concreto, funzionino così, sembra confermarlo il fatto che
ricordavamo: il plebiscito - mai visto prima - di oltre un terzo
dell'episcopato mondiale per "implorare" dal papa la beatificazione di
monsignor Escrivà.