Il panorama storico

II 2 ottobre 1928 don Josemaria Escrivà conosce la volontà di Dio in tutta la sua portata: vede l'Opus Dei nitidamente definito nei suoi contorni fondamentali. La luce ricevuta non è un'ispirazione generica; è un'illuminazione precisa e determinata che gli consente di dire che il compito che Dio gli affida "non è un'impresa umana, ma una grande impresa soprannaturale nella quale si compie letteralmente, fin dal primo istante, quanto è necessario perché possa essere chiamata senza presunzione Opera di Dio".

Da questo momento il fondatore potrà descriverla dettagliatamente a coloro che ricevono le sue confidenze, dando loro l'impressione di parlare di cosa già realizzata. Nei primi scritti riguardanti l'Opera, ne espone tutta la novità: ogni uomo, chiunque egli sia, è chiamato alla santità e all'apostolato, senza che debba uscire dal mondo; bisogna che soprannaturalizzi le realtà temporali nelle quali è immerso: innanzitutto il lavoro professionale e i doveri familiari e sociali.

Ciò che oggi sembra evidente, allora non lo era. Sono necessari alcuni cenni storici per comprendere la novità di questo messaggio (1): una novità radicale per chi vive nel mondo e vi esercita una professione.
L'invito alla santità del fondatore dell'Opus Dei sarebbe privo di fondamento se non si affermasse che le realtà terrene sono santificabili e santificanti.

Tutto cambia, invece, quando si percepisce il senso cristiano dì queste realtà e quando, come il fondatore esorta a fare, ci si impegna a santificarle in virtù di una vera vocazione, nel senso proprio del termine, in tutti gli stati e in tutte le situazioni umane. Mons. Escrivà non si limita a proclamare in astratto la dottrina della santificazione in mezzo al mondo: egli promuove presso persone in carne e ossa la ricerca della santità e lo zelo apostolico nel bel mezzo dei compiti secolari e per mezzo di questi. Un autentico fenomeno pastorale prende consistenza storica (2); esso è "suscitato nei nostri tempi - ricordava mons. Carboni nella cerimonia inaugurale della Prelatura Opus Dei - dalla Provvidenza divina per il bene della Chiesa e di tutte le anime, benedetto ampiamente da cinque Pontefici".

 

1. Lavoro e vita religiosa
Ben presto, nella vita del popolo cristiano, il lavoro non appare come un bene in sé, bensì come un mezzo ascetico che consente di combattere l'ozio, padre di tutti i vizi. Tale è il pensiero di sant'Atanasio e di Cassiano.
Infatti, acquista importanza la vita cenobitica. San Giovanni Crisostomo, che presta grande attenzione al lavoro, è, tra i Padri della Chiesa, l'ultimo dei grandi a parlare della santificazione della vita ordinaria nei termini che ritroveremo soltanto col Concilio Vaticano II. Dopo di lui si ha l'impressione che il cristiano comune non sia chiamato a vivere pienamente il Vangelo. Siamo nel quinto secolo.

Quanto all'apostolato, sembra che non faccia parte degli obblighi del cristiano. Nella regola di san Benedetto, più che il monaco è il monastero a esercitare l'apostolato.

L'apparizione degli ordini mendicanti esalta il ruolo della predicazione, che viene portata di città in città. Ma questa non mette l'accento sul valore del lavoro professionale. Al contrario sembra che se ne allontani più che mai. In realtà, il lavoro manuale eseguito nel chiostro aveva una certa somiglianza materiale con il lavoro eseguito nel mondo; proporre la santificazione di questo lavoro era dunque teoricamente possibile. Ma la polemica che oppose nel XIII secolo gli ordini mendicanti al clero secolare, come pure ai rappresentanti di certe istituzioni monastiche, condusse i primi a difendere la possibilità di santificarsi senza lavorare: per guadagnarsi da vivere poteva bastare l'elemosina.

I teologi degli ordini mendicanti non portano le loro riflessioni su quella fondamentale dimensione dell'uomo che è il lavoro: essi affermano il carattere non obbligatorio del lavoro manuale. San Tommaso considera le occupazioni secolari come un ostacolo alla contemplazione. San Bonaventura e vari altri sostengono opinioni analoghe.

Altre istituzioni, più direttamente impegnate nel mondo (ordini cavallereschi e confraternite medievali), non appaiono dotate di preparazione ascetica e dottrinale capace di favorire la consapevolezza del bisogno di santificare il lavoro.

Nei secoli successivi permane il disinteresse per il lavoro. L'autore dell'Imitazione di Cristo giudica il lavoro in modo ancor più negativo dei Padri del deserto. L'opposizione che costoro vedevano tra ozio e lavoro subisce una distorsione per il fatto che il lavoro è ora inteso nel senso restrittivo di sforzo legato alla lotta ascetica. Tale è la concezione di Cisneros nel suo Esercitatorio e di sant'Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi spirituali che si ispirano largamente al primo.

Nel Rinascimento si accenna una certa evoluzione positiva grazie a uomini come san Tommaso Moro e Erasmo. Ma è un fuoco di paglia. Nel XVI secolo, la scissione luterana da Roma, che porta alla nascita del protestantesimo, ritarderà la scoperta del valore santificante del lavoro. Vi si oppongono decisamente la concezione protestante del peccato originale come corruzione radicale della natura umana, e il rifiuto di attribuire alle opere umane, anche se compiute in stato di grazia, qualsiasi utilità salvifica.
L'altro grande sconvolgimento del XVI secolo, la scoperta di nuovi popoli da evangelizzare, avrebbe potuto favorire l'adeguamento del sacerdozio e della vita di perfezione alle esigenze di un apostolato più efficace e più consono alle necessità del momento.

Tuttavia, la teologia cattolica del Rinascimento e dell'epoca barocca è in parte contaminata dalle idee di un'aristocrazia che disprezza il lavoro manuale e da un moralismo gretto e mal ispirato. Essa teme anche gli eccessi, specialmente quelli del misticismo, e proclama, con Melchor Cano, che i laici non possono aspirare ai vertici della perfezione cristiana. Il gesuita Francisco Suarez elabora la teoria degli stati, secondo la quale i religiosi e i vescovi - e per analogia i sacerdoti - sono, per vocazione, in stato di perfezione acquisita, ovvero da partecipare agli altri, mentre il semplice fedele è impotente a stabilirsi in un grado determinato di perfezione. Questa teoria condizionerà nel futuro in forma rigida il modo di ravvisare coloro che sono chiamati alla santità.

Nel XVII secolo si intravvede una reazione, volta a guidare i comuni fedeli per i sentieri della preghiera. San Francesco di Sales è il più illustre rappresentante di questa tendenza; tuttavia si limita, il più delle volte, a proporre ai laici, con gli opportuni adattamenti, i mezzi di santificazione che utilizzano i religiosi.

D'altronde, la teologia spirituale dell'epoca presenta sovente, come espressione del lavoro umano, le attività ecclesiastiche volte a un fine soprannaturale. Le attività secolari, invece, sono considerate poco idonee a condurre alla santità.

Dopo la Rivoluzione francese, la spiritualità dei religiosi evolve verso una maggiore presenza nel mondo e una più viva attenzione a tutte le attività temporali, e non più solo al lavoro manuale. Malgrado ciò, il distacco dal mondo rimane un atteggiamento fondamentale: si tratta di vivere "come" gli altri, di "andare verso" il mondo, di "avvicinarsi" o di "unirsi" a coloro che lavorano, ecc. D'altra parte, le istituzioni religiose di nuova fondazione continuano a porre il centro della vita spirituale fuori dal mondo. Lo stesso apostolato è visto come una presenza che, venuta dall'esterno, si sovrappone alla presenza nel mondo.

Pertanto, all'epoca in cui nasce l'Opus Dei, i laici cristiani si sentono ordinariamente divisi tra il desiderio di santificarsi, desiderio che sembra implicare il distacco dal mondo, e la preoccupazione di permanere nel mondo a motivo dei doveri familiari e professionali.

Taluni si orientano verso una vita di devozioni e di opere di carità tendente a imitare, "nei limiti delle proprie possibilità", lo stato dei religiosi nella loro vita di perfezione evangelica. Ne derivano tre conseguenze: a) l'aspirazione alla santità esigeva che i momenti di raccoglimento venissero cercati al margine delle attività quotidiane; b) questo fatto supponeva una concezione della santità laicale come radicalmente minore rispetto alla santità maggiore dei religiosi; c) essendo la virtù di religione, secondo san Tommaso, una virtù naturale, una spiritualità di questo tipo non inseriva il laico, come tale, nella vita soprannaturale. Cercando di "collezionare" atti religiosi, virtuosi e caritativi, volgendo le spalle agli impegni quotidiani, il "devoto" secolare considerava spesso il lavoro e i doveri di stato come un intralcio alla sua santificazione.

Per altri, la santità dei laici aveva un carattere essenzialmente morale, e si raggiungeva impregnando di bontà ogni cosa: essere buon padre di famìglia, compiere bene i propri doveri coniugali, lavorare bene, avere una condotta retta, ecc. Ma era sempre come restare a un livello naturale, con il rischio - reale - di deviare verso il santo laico - magari ateo - che si accontenta di essere "irreprensibile", senza preoccuparsi della chiamata alla santità (3).

 

2. L'Opus Dei
L'evoluzione della condizione religiosa e la nascita dell'Opus Dei coincidono più o meno nel tempo. Ma la coincidenza finisce qui: "La strada della vocazione religiosa - afferma mons. Escrivà - la considero benedetta e necessaria alla Chiesa. Ma questa non è la mia strada, né la strada dei membri dell'Opus Dei.

Si può ben dire che tutti e ciascuno di loro hanno aderito all'Opus Dei con la condizione espressa di non cambiare di stato".
La differenza radicale tra le due vie si può esprimere considerandole come due movimenti di segno opposto. Il primo interpella il mondo dall'esterno, muovendo verso di esso per esercitarvi una presenza: è l'evoluzione dello stato religioso. L'altro è un "essere del mondo", un partire dal mondo stesso per santificarlo dal di dentro e condurlo a Dio. Tale è la spiritualità secolare dell'Opus Dei. Essa è rivolta a cristiani di ogni condizione che, "stando nel mondo, o meglio, appartenendo al mondo - sono infatti laici comuni -, aspirano, per vocazione divina, alla perfezione cristiana. La nostra vocazione fa sì che proprio la nostra condizione secolare, il nostro lavoro ordinario, la nostra situazione nel mondo, sia il nostro unico cammino per la santificazione e l'apostolato.

Non è che abbiamo assunto questa occupazione secolare per mascherare un lavoro apostolico: è la stessa occupazione che avremmo se non avessimo aderito all'Opus Dei, e la stessa che avremmo se ci capitasse la disgrazia di abbandonare la nostra vocazione. Noi, figli miei, siamo gente della strada. E quando lavoriamo nelle cose temporali lo facciamo perché quello è il nostro posto, quello è il luogo in cui incontreremo Gesù Cristo, il luogo in cui la nostra vocazione ci ha lasciati".

Il cardinale Luciani, il futuro Papa Giovanni Paolo I, poteva ben dire che, se san Francesco di Sales proponeva una spiritualità per laici, mons. Escrivà propone una spiritualità laicale, ossia pienamente secolare.
Il fenomeno pastorale dell'Opus Dei "non nasce in opposizione alle spiritualità dei religiosi; è un germoglio diverso della perenne ricchezza spirituale del Vangelo" (4); nasce "dalla base", dalla vita ordinaria, e "non si trova - afferma il fondatore - sulla linea di una mondanizzazione o dissacralizzazione della vita monastica o religiosa; non è l'ultimo stadio del processo di avvicinamento dei religiosi al mondo".

C'era dunque una soluzione di continuità di molti secoli, perché il messaggio dell'Opus Dei "vecchio come il Vangelo e come il Vangelo nuovo", si ricollega ai primi cristiani, che, abbracciata la fede, continuavano a vivere normalmente in seno alla società.