La passione per Roma, città-simbolo universale

«E sarai meco sanza fine cive/di quella Roma onde Cristo è romano». La stessa intuizione di Roma quale nuova Gerusalemme, espressa in sublime sintesi poetica e teologica da Dante, spinse l’aragonese Josemaría Escrivá a venire nella Città Eterna per "impiantare" sé e la sua Opera nella cattolicità tout court.

Persino fisicamente presso la cattedra di Pietro. «Mi sento romano - spiegava ai suoi figli spirituali - perché romano vuol dire universale, cattolico; perché così mi sento spinto ad amare teneramente il Papa. Essere romano non racchiude nessun significato di particolarismo, bensì di ecumenismo autentico; presuppone il desiderio di allargare il cuore, di aprirlo a tutti».

L’amore del nuovo santo per Roma si esprimeva in due canti: il “Credo" che gli usciva spontaneo ad ogni visione di basilica, ma anche “Quanto sei bella Roma". Con spirito e cuore, cantava l’anima immortale e le fattezze monumentali di Roma. La decisione di trapiantarsi nel 1946 nella capitale del cattolicesimo, fu una scelta di “strategia teologica". In nessun punto del mondo, come a Roma, si può stare sapendo di trovarsi perciò stesso in tutto il mondo.

San Pietro e le catacombe di San Callisto nel ricordo dei martiri, realizzavano le coordinate spazio-tempo del suo essere cattolico. Ma l’amore per Roma era tale da traboccare in canti popolari e stornelli che a casa gli cantavano Francesco Angelicchio e Mario Lantini, il primo italiano accolto nell’Opera e il primo vicario per l’Italia, entrambi “romani de’ Roma". Una volta andò persino a Squarciarelli perché citata in “Arrivederci Roma". Ma anche la canzone napoletana avrà da domenica un suo santo estimatore: la preferita di Escrivá era "Anema e core". E, incredibile a dirsi ma comprensibile per un santo allegro, disse ai suoi che gli cantassero in morte "Aprite le finestre al nuovo sole" che vinse a Sanremo nel ’56.

Un’altra categoria che può rivendicare il suo patrono è certamente quella... dei rigattieri. Un santo a via Margutta. Da quando a prezzo di grandi sacrifici aveva trasferito la sede centrale in una residenza d’ambasciata a viale Bruno Buozzi, don Josemaría andava alla ricerca di elementi architettonici e artistici da cui trarre ispirazione per la costruzione della casa. Una volta, a via Margutta, comprò un’imitazione di statua romana antica che ritraeva un uomo in toga, che lui chiamava scherzosamente il «senzatesta».

La prima grande opera sociale a Roma dell’Opus Dei fu il Centro Elis, una serie di scuole professionali e sportive. Per Escrivá fu una ideale quadratura del cerchio: il centro venne eretto con i doni dei cattolici di tutto il mondo a Pio XII per i suoi 80 anni; Giovanni XXIII l’affidò all’Opus Dei e Paolo VI, lui presente, lo inaugurò. Ed era una presenza educativa in una delle zone allora socialmente più depresse della Città, il Tiburtino, per professionalizzare i giovani insegnando loro a spiritualizzare qualsiasi tipo di lavoro.

Quel 21 novembre 1965, il futuro santo disse al Papa: «L’Opus Dei vuol servire la Chiesa come la Chiesa vuole essere servita». Come cinque dita di una mano tesa per stringerla cordialmente alla Città Eterna, l’Opera ha realizzato la Fondazione Rui (residenze universitarie), l’Università Campus Bio Medico, la Pontificia Università della Santa Croce e il Centro di Convegni di Castel Romano.

Al clero della Prelatura della Santa Croce sono affidate, infine, tre parrocchie romane: S. Eugenio alle Belle Arti, dove si svolse il suo funerale ed ora sono esposte le sue spoglie; S. Giovanni Battista al Collatino, adiacente al Centro Elis, e la parrocchia intitolata proprio al beato Escrivá all’Ardeatino, come dono dei fedeli dell’Opus Dei dopo la beatificazione del fondatore.