Il cammino dell'Opera
Nel
settembre dell'anno scorso la rivista americana Inside the Vatican ha fatto
un elenco di quelle realtà ecclesiali che vengono attaccate perché
considerate «troppo attive». L'elenco comprendeva: Focolarini,
Neocatecumenali, Comunione e Liberazione, Legionari di Cristo e Opus Dei.
Fra tutte queste realtà, quella più bersagliata - specie dalle
riviste politically correct - è forse l'Opus Dei. Roba da ricchi, massoneria
cattolica, e via insultando.
Siamo andati alla sede dell'Opus Dei - Roma, quartiere Parioli - a trovare monsignor Javier Echevarría, il Prelato dell'Opera, secondo successore (il primo fu Álvaro Del Portillo) del beato Josemaría Escrivá de Balaguer, il fondatore. Madrileno, 64 anni, due lauree, prelato dal '94, Javier Echevarría non è uomo che rilasci facilmente interviste. Dunque, sentire il suo pensiero (sull'Opus Dei, ma non solo) ci sembra cosa di notevole interesse. Ecco, qui di seguito, la conversazione di quel nostro incontro.
Padre, perché tante accuse all'Opera? Associazione segreta, potentissima
e ricchissima, dalle marcate preferenze conservatrici...
Chiunque ha messo piede in un centro della Prelatura, o semplicemente ha conosciuto
persone dell'Opera nella vita di tutti i giorni ha sotto gli occhi una realtà
ben diversa da quella descritta nelle accuse: una realtà normale, trasparente.
Quindi non ci preoccupiamo: la verità delle cose insegna più
delle chiacchiere.
L'Opus Dei è un fenomeno religioso: eppure, viene quasi sempre analizzata,
nel cosiddetto media system, con categorie politiche, sociologiche, economiche.
Perché?
Forse perché non pochi, purtroppo, tralasciano altre categorie.
Quando si esclude l'aspetto trascendente della vita, la visione d'insieme
viene danneggiata. Se guardiamo le cime di una catena montuosa senza tener
conto delle falde sottostanti, non capiremo niente dei venti, del clima, del
paesaggio.
È vero che siamo una realtà della Chiesa, ma immersi nel mondo, che amiamo appassionatamente. Perciò non ci limitiamo a dispiacerci perché qualcuno non capisce che si può agire nel mondo per «portarlo a Dio»: piuttosto ci adoperiamo perché, prima o poi, capisca che questa è la via migliore per comprendere il mondo fino in fondo e per essere felici.
E
come mai queste «cattiverie» sull'Opus Dei vengono anche da certi
«buoni cattolici», come li chiamava, se non sbaglio, monsignor
Escrivá?
Come ho visto fare al beato Josemaría, non mi soffermo mai su
queste cattiverie. Dentro la Chiesa vedo tanto affetto e tanto interesse.
In realtà quella battuta sui «buoni» del nostro fondatore
- che la riprendeva da Teresa d'Avila - si riferisce ad alcune tappe storiche
della nostra crescita: tappe in cui il Signore ha permesso che alcuni facessero
- e che altri continuino a fare - opposizione, pensando di rendere ossequio
a Dio. Ma mi sento di difendere anche il diritto di chi non ci capisce: li
rispetto e voglio loro bene. Il beato Josemaría diceva che avrebbe
dato volentieri la vita per difendere la libertà di chi la pensava
proprio al contrario di lui. Tuttavia, a quelli che non ci capiscono chiedo
almeno di rispettarci.
Alla morte del beato Josemaría Escrivá, l'Opus Dei contava sessantamila
membri. Ora ne ha ottantamila di ottanta Paesi, e in questi vent'anni sono
stati ordinati sacerdoti alcune centinaia di vostri membri. Nella Chiesa di
oggi il vostro trend, come si usa dire, è uno dei pochi in positivo.
Mi permetta di esercitare il diritto, di cui abbiamo appena parlato, di non
essere d'accordo. Ci sono nella Chiesa tante istituzioni piene di vitalità.
E poi, non si può dividere così l'unico corpo della Chiesa:
non esiste la Chiesa di serie A e quella di serie B. È tutta la Chiesa
- la barca di Pietro - a navigare insieme sotto la guida dei Pastori.
Come
si avvicinano le persone all'Opus Dei?
Nel modo più naturale, con l'amicizia reale che nasce tra persone simili.
Avviene tutto normalmente: quando qualcuno conosce un fedele della Prelatura
nota che ha difetti, come qualunque altro, ma pure che si sforza di vincerli,
e che cerca di essere un buon lavoratore, un padre o una madre esemplare,
un amico leale. Col tempo, entra con lui in intimità sufficiente per
sapere che l'amico è uno che si rivolge a Dio da figlio a Padre, e
che il senso delle sue giornate lo trova così. E nascono i primi interrogativi
sull'indirizzo che si sta dando alla propria vita...
Poi, la scoperta della possibilità di essere dell'Opus Dei, come è sempre stato nella Chiesa, è un passo molto intimo, che riguarda l'orientamento da dare alla propria vita, a tu per tu con Dio. La questione essenziale, ciò che avviene in tanti uomini e donne, è che quando si scopre Gesù Cristo che passa nella vita degli altri, e nella propria, è come se sorgesse il sole. Illumina, riscalda, e non tramonta più.
Voi siete - lo sottolineate sempre - non un «movimento», ma una
«spiritualità per laici». Qual è la differenza?
L'Opus Dei è una prelatura personale, cioè una istituzione
gerarchica della Chiesa universale, formata da sacerdoti e laici, sotto la
guida del Prelato, che si occupa di questa porzione del popolo di Dio. La
sua finalità pastorale è ricordare a moltissimi cristiani che
Dio li cerca al loro posto, a casa loro, e lì debbono cercare di vivere
eroicamente le virtù cristiane. I fedeli dell'Opus Dei sono cattolici
comuni e cittadini comuni. L'essere fedeli alla Prelatura non modifica affatto
la loro condizione nella Chiesa e nella società. Le persone dell'Opus
Dei non formano un gruppo né agiscono come gruppo. Ricevono la formazione
cristiana e poi la diffondono sparpagliati dappertutto.
Dite che bisogna santificare il lavoro di ogni giorno. Lo capisco per un medico,
o uno scrittore, o un insegnante. Ma il beato Escrivá raccontava, di
Juan el lechero, Giovanni il lattaio, che ogni mattina, prima di portare le
cassette con le bottiglie di latte, passava in chiesa e diceva: Signore, ti
offro il mio lavoro di oggi». Mi scusi: ma come si fa a santificare»
il lavoro di uno che consegna casse di latte? O avvitando bulloni sulla catena
di montaggio o riparando un motore?
Come si fa a fare il falegname per anni e anni essendo il Figlio di Dio,
il Redentore? Gesù l'ha fatto, e l'ha fatto molto bene: è una
delle cose che il Vangelo testimonia con chiarezza. Mette i brividi a pensarci:
Dio che per anni «avvita bulloni», come dice lei. In questa luce
il beato Josemaría predicava che davanti al Signore non esistono lavori
più importanti e lavori insignificanti; che il rilievo divino del lavoro
non si misura col metro umano. Il loro valore dipenderà dall'amore
che ci mettiamo: e sarà un valore eterno, se lo viviamo da figli di
Dio. E, parlando in termini umani, se i bulloni non sono ben avvitati, tutta
la struttura crolla.
Perché dite che i membri dell'Opera hanno il «dovere» di
emanciparsi nel proprio lavoro, di essere sempre «più bravi»?
C'è bisogno di far carriera per diventare santi?
Semmai è il contrario: diventare santi è l'unica carriera
che conti davvero per la vita eterna. E siccome questo equivale a identificarsi
ogni giorno di più con Cristo - pur con tutte le debolezze di ciascuno,
purché si cerchi di combatterle -, si scopre una grande responsabilità
nei confronti del mondo: ci sta davvero a cuore come vanno le cose intorno
a noi.
E si vuole contribuire, per quanto si può, a renderle migliori. La perfezione umana è una componente importante nel lavoro cristiano. Ma non significa perfezionismo, né carrierismo. Significa lavorare bene, essere generosi, mettersi davvero al servizio degli altri. Il successo non è il vertice delle proprie aspirazioni, è ben altro ciò che decide il valore della propria vita.
Alcuni membri dell'Opus Dei sono rimasti implicati nelle inchieste su Tangentopoli.
Siete intervenuti? E che spiegazione date a questo fatto che, tra i fedeli,
avrà pure ingenerato qualche perplessità?
Non credo esista una sola persona che possa permettersi di giudicare
un passato così recente e complesso, che ha trasceso le colpe personali
fino a risuonare come un'accusa verso un intero sistema sociale. La verità
andrà chiarita con calma e nel tempo. E non ci è permesso di
giudicare le coscienze.
Sono certissimo della buona fede di ciascuno dei fedeli della Prelatura, perché non si vive nell'Opus Dei senza un sincero desiderio di santità e di giustizia. Ammesso e tuttora non concesso che queste implicazioni, come le chiama lei, rispondano a verità, posso dire che la Prelatura ha il dovere di aiutare affinché tutti gli atti delle persone siano orientati al giudizio di Dio. Per chi cerca di santificare il lavoro, l'etica professionale diventa del tutto necessaria.
Don Giussani una volta ha detto a Vittorio Messori, che l'ha riportato in
un libro, che i ciellini sono «i balilla, gli irregolari che tirano
le pietre», mentre «quelli dell'Opera hanno i panzer: vanno avanti
ben corazzati, con i cingoli, anche se li hanno rivestiti di gomma. Il rumore
non si sente, ma ci sono, eccome. E ce ne renderemo conto sempre di più».
Ricordo con affetto don Giussani e la sua amicizia, in particolare, con
il mio predecessore. Prego Dio che, al di là delle battute, il peso
dei cristiani si avverta sempre di più in tutti gli ambienti degli
uomini. E - in questo senso - penso che tutti i cattolici abbiano molto da
imparare dallo slancio apostolico di don Giussani e della gente di Comunione
e Liberazione.
Una contraddizione. Voi dite che l'Opus Dei, dando tanta importanza al ruolo
dei laici nella Chiesa, ha anticipato il Concilio Vaticano II. E quindi sarebbe,
per usare un'espressione infelice, «all'avanguardia». Invece,
quelli che ritengono di essere la vera «avanguardia» del mondo
cattolico vi accusano di essere tradizionalisti, per non dire troppo conservatori,
o peggio ancora oscurantisti. Come stanno le cose?
Noi non diciamo di aver anticipato il Concilio. Riconosciamo che il Signore
- ed è una realtà voluta da Dio - ha ispirato al beato Josemaría
l'Opus Dei e che il Concilio ha insegnato con forza la dottrina dell'importanza
dei laici nella vita della Chiesa. Nessuno può vantarsi di avere il
copyright dei disegni di Dio. Cinquant'anni fa il beato Josemaría per
qualcuno era un eretico, perché si spingeva troppo avanti. Oggi per
qualcuno siamo reazionari.
Gliel'ho già detto: giudizi del genere dimostrano soltanto che è bene leggere la storia, e la Chiesa nella storia, con categorie giuste. La Chiesa non procede per progressi e per reazioni: procede per tradizione, per adesione a un annuncio divino dato una volta per tutte, ma sempre da approfondire e da applicare in modo vivo.
Che rapporti avete con Giovanni Paolo II?
Filiali, affettuosi, fiduciosi. Sono stato da lui per confermare ancora una
volta la piena adesione dell'Opus Dei al Magistero del Papa ed alla sua guida
come Pastore di tutta la Chiesa, quella di Pietro, del vicario di Cristo.
Lei ha vissuto per vent'anni accanto a Josemaría Escrivá
de Balaguer. Che uomo era?
Un sacerdote di Dio, un uomo notevolissimo, un padre affettuoso e un
santo molto umile e molto allegro. Il risultato di queste doti era che accanto
a lui si stava veramente bene. Contagiava la gioia di essere cristiani. Fra
il molto che gli devo spicca l'esempio pratico che mi ha dato; è dalla
sua vita, prima ancora che dalle parole, che ho appreso come si può
trovare Dio nelle faccende di ogni giorno. Sono molto fortunato ad avere conosciuto
da vicino un gigante dello spirito come il fondatore dell'Opus Dei. Una fortuna
che mi riempie di responsabilità.
Racconta Vittorio Messori, nel suo libro Opus Dei: un'indagine, che quando
venne nella vostra sede centrale rimase impressionato dalla «solidità»
della costruzione, dai marmi, dalle colonne... e il giovane che lo accompagnava
gli rispose: «Certo, ma è per risparmiare. Tutto questo dovrà
durare nei secoli». Credete davvero che nel futuro della Chiesa ci sarà
«sempre» l'Opus Dei?
Sì. Ci crediamo perché quando Dio si impegna è più
fedele di noi uomini, più forte delle nostre debolezze. Sarà
quel che Dio vorrà. E siamo certi che il Signore non lascia l'uomo
se l'uomo non lo lascia.