Escrivá, il santo che aprì ai banchieri
di Wall Street
Ho
un ricordo, a suo modo significativo, del 26 giugno del
1975. Trent'anni fa, giusto oggi. Arrigo Levi, allora
direttore della Stampa, mi aveva spostato nella piccola
équipe che diede vita al supplemento culturale,
Tuttolibri. Continuavo però a occuparmi anche di
informazione religiosa e i fattorini mi deponevano sulla
scrivania le notizie di agenzia che potessero interessarmi.
Quel
giorno, tornando in redazione dopo la sosta alla mensa
del giornale, trovai la striscia dell'Ansa: i flash, allora,
arrivavano per telescrivente, su rulli di carta. L'agenzia
comunicava che, a mezzogiorno, un infarto aveva stroncato
monsignor Josemaría Escrivá, 73 anni, fondatore
dell'Opus Dei. La notizia - posso confessarlo? - non mi
colpi più di tanto. Né mi venne alcuna sollecitazione
della direzione a occuparmene. Per il quotidiano del giorno
dopo se la sbrigò, credo, il collega vaticanista
a Roma.
Ho
riflettuto, in questi giorni del trentennale della scomparsa,
sulla quasi indifferenza di allora. Innanzitutto, Nuestro
Padre - come lo chiamavano e lo chiamano i fedeli dell'Opus
Dei -aveva spesso ripetuto, sorridendo, di adeguarsi al
consiglio che gli diedero appena giunto in Italia: «A
Roma bisogna fare il morto per non essere ammazzato».
Per questo, oltre che per obbedienza alla discrezione
che doveva contrassegnare la sua Opera, era attivissimo
tra i suoi, per curarne la formazione, ed era ben conosciuto
all'interno della Curia, dove conduceva la battaglia per
giungere allo status canonico che desiderava e che, alla
fine, prese la forma della prima «prelatura personale»
della Chiesa. Quanto all'esterno, poche apparizioni in
pubblico, nessun comunicato per la stampa, praticamente
niente interviste: il poco che appariva di lui erano risposte
scritte a domande scritte, pubblicate solo dopo previo
esame. Rare, e «autorizzate», anche le foto.
Inoltre,
in quei suoi ultimi anni, la contestazione ecclesiale
era al vertice: i preti, i frati, le suore, eccitatissimi,
scoprivano gli «ismi» della modernità
e spesso - almeno uno o una su quattro - convolavano a
polemiche nozze. Per questa folla clericale in rivolta,
che aveva scoperto il «mondo» e le sue ideologie
ottocentesche, scambiandole per il futuro, l'Opus Dei
era una sorta di oggetto oscuro e misterioso che, comunque,
non valeva la pena di conoscere, ma che, anzi, occorreva
combattere. C'erano complicità, si diceva, con
l'agonizzante franchismo (il Caudillo morì proprio
in quel 1975); i preti, lì, non si sposavano né
sfilavano in corteo, ma portavano ancora, addirittura,
la tonaca da cui uscivano eleganti gemelli per i polsini;
non affollavano gli studi degli psicoanalisti; per la
formazione si usava il vecchio catechismo di san Pio X,
a domande e risposte.
Soprattutto,
scandalo supremo per quei tempi, i capitalisti non erano
maledetti, non si inveiva contro di loro esortandoli a
spogliarsi dei beni e a chiedere perdono. Si diceva, fremendo
di indignazione, che quello spagnolo mezzo falangista,
quel don Escrivá, aveva osato affermare che a lui
e ai suoi interessavano i contadini delle Ande ma anche
i banchieri di Wall Street e di Zurigo, i nomadi africani
ma pure gli industriali dell'Occidente. E nessuno, per
far parte dell'Opera, doveva pentirsi di nulla o nulla
abbandonare, bensì proseguire serenamente il suo
lavoro, dandogli un contenuto spirituale nuovo e considerando
l'eventuale ricchezza non come un peccato da confessare,
ma come un dono da condividere, secondo i precetti della
irrisa «carità cristiana», quella contro
la quale Marx e discepoli inveivano e maledivano. Insomma,
tutto congiurava perché la morte di quel don Josemaría
fosse valutata nei giornali come notizia da taglio basso
a due, massimo tre colonne, nelle pagine interne delle
cronache italiane.
Quanto
a me, non feci mai parte delle turbe di contestatori,
attendevo impaziente la fine, che sapevo inevitabile,
di quel carnevale pretesco, lavoravo per ritrovare il
buon senso nella Chiesa, stavo addirittura scrivendo un
libro di «apologetica» (sconcia parola, allora),
convinto che il Vaticano II non fosse una rottura, ma
un approfondimento della Tradizione di sempre. Eppure,
da quel poco che sapevo di un'Opera che sembrava interessata
soprattutto a non far notizia, sospettavo che fosse una
sorta di congregazione come tante, una cosa nata nella
Spagna prima ancora della guerra civile e dunque poco
adatta a cogliere e a vivere tempi nuovi, che non enfatizzavo
affatto, ma che certamente costituivano una sfida con
cui misurarsi, pur senza entusiasmi e rese.
Le
cose sono andate, invece, come sappiamo. E mi resi conto
del perché andarono così, quando, per soddisfare
la mia curiosità, scrissi un libro inchiesta sull'Opus
Dei che costituì una sorpresa per molti lettori,
ma innanzitutto per me. La pattuglia dei superstiti «contestatori»
è oggi sulla settantina e persino quegli anziani
reduci sembrano rassegnati: continuano a detestare l'Opus
Dei, che accoglie sotto lo stesso tetto «proletari»
e «capitalisti», ma la loro protesta è
sempre più marginale. Il prete aragonese, che,
ben più che i palchi e gli schermi, amava la penombra
delle tertulias, le conversazioni familiari dopo il pranzo,
è stato prima beatificato e poi santificato. E
ogni volta piazza San Pietro e via della Conciliazione
non sono bastate a contenere le folle cosmopolite, pur
inquadrate quasi militarmente. Non è finita qui:
un'indiscrezione, finora inedita, mi dice che in viale
Parioli, sede mondiale della Prelatura, si sta valutando
la possibilità di farlo proclamare «dottore
della Chiesa», titolo rarissimo e di massima gloria,
per la sua dottrina di santificazione nel lavoro, quale
che sia, di ogni cristiano.
Gli
uomini e le donne che hanno firmato un contratto con l'Opus
Dei (è l'impegno ufficiale e reciproco di formazione
spirituale) hanno superato gli 85 mila e sono onnipresenti
nella vita sociale e in quella ecclesiale, sempre più
vescovi vengono dalle sue file, le sue università
consolidano anno dopo anno il loro prestigio. Segno paradossale
di questa avanzata, discreta ma costante, è anche
il fatto che, come Dan Brown insegna, un'Opus Dei, seppure
travestita con panni grotteschi, è un buon ingrediente
per costruire un bestseller mondiale.
Nessuno,
all'interno della Obra, parla di «sant'Escrivá»
o di «monsignor Josemaría», ma tutti,
sempre e solo, dicono «Nostro Padre». Un termine
che può infastidire, quasi fosse il segno di un
culto della personalità (il «Migliore»
per Togliatti, il «Caro Leader» della Corea
del Nord), ma solo chi non sappia come stiano davvero
le cose. A differenza degli altri beati e santi che stanno
all'origine di ordini e congregazioni, quest'uomo non
fu un «fondatore». Lo ripeté sempre,
nel suo spagnolo: «Yo soy un fundadór sin
fundamento», sono un fondatore senza fondamento.
Continuò ad assicurare che non voleva fondare proprio
nulla, che voleva essere un buon sacerdote e niente più,
che ciò che nacque non venne da un suo piano, un
progetto, un'analisi.
L'Opus
Dei risale, assicurava, a un misterioso progetto divino,
era da sempre nella mente del Creatore, che abbisognava
solo di uno strumento umano per farla entrare nella storia.
Quello strumento fu un pretino di 26 anni, senza soldi
né prestigio, che, il 2 ottobre del 1928, era nella
stanza di una casa religiosa di Madrid per seguire degli
esercizi spirituali. Non sospettava di certo che, mentre
al vicino campanile suonava il mezzogiorno, un'esperienza
mistica, breve e improvvisa (e insolita in lui, uomo pragmatico,
diffidente verso i visionari, scettico con i milagreros)
lo avrebbe travolto: «Vidi l'Opus Dei e vidi che
toccava a me realizzarla. Mi ritrassi angosciato, cercai
di sottrarmi a un compito che mi sopravanzava di molto,
pregai Dio perché scegliesse un altro più
adatto, ma non ci fu nulla da fare. Dovetti obbedire a
una volontà che non era mia».
Uno
strumento, dunque, non un fondatore. Da qui il «Nostro
Padre» dei fedeli della Prelatura, consapevoli che
senza di lui - scelto da Dio stesso - non sarebbe stata
edificata l'organizzazione che assicura la loro vita spirituale
e dà un senso soprannaturale a quella professionale,
Non a caso, questa «cosa» si chiama Opera
di Dio: il titolare del copyright non è in terra,
è nell'alto dei cieli. Ma sì, sant'Escrivá
è un enigma per i laici. Ma, per i credenti, è
un Mistero cui la Chiesa stessa ha dato convalida ufficiale,
con la solenne canonizzazione celebrata da Giovanni Paolo
II, grande devoto dell'uomo e grande ammiratore di ciò
che fu «forzato» realizzare, perché
la volontà di Dio fosse fatta. Il titolo di «dottore
della Chiesa», se arriverà, non farà
che ribadire quel Mistero.