In
scena la rivoluzione del quotidiano
Ordinario,
quotidiano, comune. Insomma, niente di speciale. Ma nel
dizionario cristiano è proprio frugando dentro
l'aggettivazione dell'apparente grigiore che spunta il
segreto della riuscita esistenziale di quanti sono chiamati
a "stare" nel mondo: senza clamori ed eroismi
ostentati, inanellando giornate tra loro pressoché
identiche, alla scrivania o nei lavori domestici, in cattedra,
sui campi, crescendo i figli, indossando un camice o una
divisa.
È
esattamente lì che si scopre la grandezza della
vocazione all'umanesimo cristiano: tutti possono riuscirci,
ciascuno seguendo la propria strada, per quanto "normale"
essa sia. È il rincuorante messaggio della dottrina
conciliare: un'esistenza davvero riuscita, illuminata
in ogni frazione del suo svolgimento, non è appannaggio
di categorie specifiche o elette, non è riservata
ai titani della fede, ma è una chance alla portata
di tutti perché fa leva su una «chi amata»
trasversale che raggiunge ciascuno e interpreta al meglio
l'istinto vitale deposto in ogni cuore.
Una
meta impegnativa, certo: ma ce la si può fare.
Per davvero. Eppure la tentazione è al sorrisino
scettico. Santi? Non mi interessa, non è il mio
primo pensiero. Io voglio vivere e riuscire. Già.
Forse che la santità, sfrondata di orpelli, non
è questo essere felici "in situazione"?
Oppure, si pensa, è al di fuori delle mie possibilità,
un affare per specialisti del settore.
Già:
com'è possibile conciliare l'ordinarietà
con la perfezione? Stridono al solo citarle. Ma è
questo ossimoro esistenziale, quest'unione degli apparenti
opposti l'asse da cui si diparte una vita umanamente ricca,
professionalmente
esuberante. E dunque non deve stupire se oggi piazza San
Pietro si colmerà di «fedeli» laici
- a decine di migliaia, da tutto il mondo - per assistere
alla canonizzazione di Josemarìa Escrivà,
apostolo - diciamola la parola - della "santità"
laicale.
Uomini e donne qualsiasi, attratti dall'ideale che questo
sacerdote aragonese dalla dirompente personalità
che a Madrid, un bel mattino del 1928 - quarant'anni prima
del Concilio -, "vide" madri di famiglia e professionisti,
studenti e anziani, di tutte le condizioni economiche
e i livelli culturali, che dentro l'apparente anonimato
di una vita simile a tutte le altre s'impegnavano per
ricondurre a Cristo ogni realtà umana, assumendosi
in proprio responsabilità e scelte.
Laicamente,
appunto. E tutto questo, secondo una celebre espressione
di Escrivà, «amando il mondo appassionatamente»,
e dunque non ritenendolo una distrazione o un ostacolo
rispetto al «siate perfetti» evangelico. Cos'è
dunque la santità se non l'instancabile sforzo
di accendere una luce dentro a quella quoti dianità
che per troppi contemporanei è logorante banalità,
gioco narcisistico, corsa verso l'assurdo?
Escrivà
fondò l'Opus Dei perché diventasse strumento
e percorso di santità «nel bel mezzo della
strada», una «grande scuola» per formare
le anime una a una, una «organizzazione disorganizzata»
che muovesse all'apostolato e a iniziative sociali infinite
come infinita è la creatività dei laici.
Niente di più. «Le vere biografie degli eroi
della fede - disse - sono come la nostra storia personale:
lottavano e vincevano, lottavano e perdevano; in tal caso,
contriti, tornavano alla lotta». Cosa di più
incoraggiante di questo "segreto"?