Intervista
a monsignor Julián Herranz, presidente del Pontificio
Consiglio per i Testi Legislativi. Conobbe di persona
il fondatore dellOpus Dei, proclamato santo il 6
ottobre scorso, e condivise con lui venticinque anni di
vita. Una parola per descrivere Josemaría Escrivá?
«Innamorato di Cristo e del mondo»
«Allora
ero piuttosto lontano dalla Chiesa. Facevo il terzo anno
di Medicina e dirigevo una rivista di studenti. Un giorno,
a una riunione di redazione è arrivato un ragazzo
con un articolo sullOpus Dei, realtà che
non conoscevo, in cui scriveva che era una massoneria
bianca, che erano uomini misteriosi, cristiani quasi
eretici.
Letto
larticolo gli dico: Dobbiamo sentire le due
campane; bisogna parlare con qualcuno di questi perché
il tuo articolo è molto forte, è infamante.
Dato che ero anche rappresentante degli studenti e conoscevo
alcuni studenti dellOpus Dei, sono andato a trovarne
uno e gli ho chiesto perché facesse mistero di
questa sua appartenenza.
Lui
mi ha risposto in modo molto naturale: I primi cristiani
non portavano in giro un cartello con scritto: sono un
cristiano, sono buono, voglio essere santo; vivevano con
naturalezza la loro fede nella società ed è
quello che facciamo noi. Quella risposta, molto
virile e anche semplice, mi è piaciuta; sono andato
a un loro centro e ho cominciato a conoscerli».
Lappena ventenne studente di Medicina era Julián
Herranz, ora arcivescovo e presidente del Pontificio Consiglio
per i Testi Legislativi.
Mai
avrebbe potuto immaginare cosa gli avrebbe riservato la
vita dopo quellincontro, così casuale, che
oggi racconta con toni intensi e vivaci. Di lì
a poco avrebbe incontrato Josemaría Escrivá,
il fondatore dellOpus Dei, e vissuto fianco a fianco
con lui per venticinque anni, condividendo le cose di
tutti i giorni e partecipando per un periodo alla direzione
dellOpera. Quando domenica 6 ottobre Josemaría
Escrivá è stato canonizzato, monsignor Herranz
ha visto proclamato santo «luomo attraverso
il quale Cristo si è fatto presente nella mia vita»:
un padre e un amico.
Partiamo dallinizio, dalla prima volta che lo ha
incontrato.
Fu in circostanze molto particolari: era morto improvvisamente
un giovane membro dellOpera e san Josemaría
accorse subito al centro in cui eravamo. «Dovè
Suso?», domandò appena aperta la porta dellappartamento.
Mi colpì lespressione profondamente addolorata
del suo volto: era un padre che soffriva per la perdita
del figlio.
Nella
piccola cappella dove giaceva Suso, il Fondatore lo baciò
teneramente in fronte e, recitando il responsorio, rimase
a lungo inginocchiato davanti al tabernacolo. Poi venne
con noi in un soggiorno attiguo, e lì lo vidi trasformato:
il suo volto irradiava ora gioia e serenità. Ci
guardò con affetto, e ricordo che disse più
o meno queste parole: «Il nostro cuore è
pieno di dolore, ma deve essere anche pervaso di gioia:
perché accettiamo con amore la volontà di
Dio nostro Padre, e perché Suso ha vinto la sua
ultima battaglia: è rimasto fedele fino allultimo
alla sua vocazione divina».
E
aggiunse con forza: «Suso è passato dalla
vita alla Vita; dallamore allAmore».
Ciò che mi colpì in questo primo incontro
fu appunto questo: il vedere chiaramente in lui come una
immagine di Cristo, uno specchio
in cui si rifletteva con naturalezza la perfetta unione
dellumano e del divino, in una personalità
forte che trascinava.
Se dovesse descriverne in poche parole la figura, che
cosa direbbe?
Una domanda simile mi è stata fatta quando sono
andato a deporre per il suo processo di canonizzazione.
Dopo tante sedute il presidente del tribunale mi chiese
di farne la biografia in tre parole. Io rimasi pieno di
stupore alla domanda. Come riassumere in tre parole venticinque
anni di convivenza? Poi mi è venuta in mente la
risposta e ho detto: «Me ne basta una sola: innamorato!».
Innamorato di Cristo, dellAmore di Dio incarnato
e innamorato del mondo, visto alla luce originale della
creazione.
Seguendo questo innamorato, la sua vita è
cambiata a tal punto che da Madrid è arrivato in
Vaticano
Non era mia intenzione dedicarmi al Diritto canonico,
ma san Josemaría mi chiamò al sacerdozio.
Finiti gli studi teologici e ordinato sacerdote, mi consigliò
di prendere la laurea in Diritto canonico, e ne diventai
dopo professore. Era poco prima del Concilio Vaticano
II. Dalla Santa Sede chiesero al fondatore dellOpus
Dei un canonista e lui mi domandò se ero disposto
a lavorare in Curia.
Accettai,
anche perché intuivo la particolare importanza
pastorale del Concilio per la Chiesa e per il mondo. Così
da quarantadue anni sono al servizio della Santa Sede.
A Roma, sì, ma con frequenti viaggi allestero.
Ho lavorato prima nella lunga fase di preparazione della
nuova legislazione della Chiesa alla luce del Concilio,
e adesso come Presidente del dicastero che aiuta a interpretare
e applicare con spirito pastorale le leggi universali
della Chiesa.
Cè una bella differenza tra fare il medico
e occuparsi di Diritto canonico, non trova?
Certo, ma a parte laffinità antropologica
- la medicina si occupa della salute dei corpi e il diritto
canonico ha come legge suprema la salute delle anime
-, un fatto del genere si può capire usando unimmagine
che piaceva molto a san Josemaría e che una volta
ho raccontato anche al Santo Padre: la teologia dellasinello.
Lasinello
che ha riscaldato nella mangiatoia Gesù Bambino
quando gli uomini non lhanno accolto e che Gesù
ha scelto per entrare in trionfo nella città degli
uomini: una bestia da soma che va dove la porta il Signore,
è contento perché sente le grida di osanna
al Maestro che lo porta e che se talvolta abbandona il
cammino è riportato sulla strada dal Padrone che
lo cavalca; lasinello che fa con amore il lavoro,
qualsiasi lavoro gli chieda il Signore, sia che porti
i diamanti o la legna, perché sa che in fondo ciò
che porta sempre è Cristo.
La teologia dellasinello ricalca linvito
di san Josemaría: «Noi dobbiamo trasformare
- con lamore - il lavoro umano della nostra giornata
abituale in opera di Dio, di portata eterna»?
Sì. Lui diceva che per essere contemplativi
negli impegni quotidiani dobbiamo lavorare come Marta,
ma con il cuore di Maria. Tutti dobbiamo lavorare - il
Signore ci ha creato perché lavorassimo,
si legge nella Genesi -, ma questo lavoro lo si può
prendere equivocamente in modo molto piatto, come elemento
di lotta di classe o come semplice modo di guadagnare
il pane, oppure lo si può vivere, come Cristo per
tanti anni a Nazareth, come uno strumento di perfezione
umana e spirituale, di adempimento della volontà
del Padre, di redenzione. Il lavoro deve diventare occasione
e mezzo di santità personale e apostolato, per
crescere in amicizia con Cristo e per portare a Cristo
tutti quelli che ci stanno attorno: in famiglia, nelluniversità,
nella fabbrica, nei campi, nel partito politico e nel
sindacato, nellarte e in qualsiasi altra nobile
attività umana.
Ad affermare che Cristo centra con la vita quotidiana
oggigiorno si finisce per essere quantomeno impopolari,
se non addirittura osteggiati.
Non sempre, ma spesso si accetta unidea di
Dio confinato nelle chiese e nei libri di storia, nella
periferia della vita umana, della società, della
famiglia: vivere come se Dio non esistesse. E allora sembra
che le opzioni siano due: o mimetizzarsi nello sciatto
paesaggio culturale di oggi, adottando il culto delleffimero,
gli idoli alla moda, e allora il cristiano perde la sua
identità; oppure costruirsi un ecosistema proprio
con le caratteristiche del ghetto, e allora si avrebbe
lautoemarginazione dei cristiani.
Il
messaggio di san Josemaría è un altro, perché
insegna che questo dilemma è falso. Nessuna di
queste due opzioni corrisponde allessenza del cristianesimo,
allessenza della vocazione alla santità e
allapostolato insita nel battesimo.
La
nostra epoca ha bisogno di restituire alla materia, alle
realtà temporali e alle situazioni più comuni
il loro nobile senso originario: metterle al servizio
del regno di Dio, facendone mezzo e occasione del nostro
incontro quotidiano con Cristo. San Josemaría amava
ripetere che cè un quid divinum,
un qualcosa di santo, di divino nascosto nelle situazioni
più comuni, qualcosa che tocca a ognuno di noi
scoprire, sostenere e insegnare.
E questo è ciò che la Chiesa ricorda ai
suoi fedeli dichiarando santo un uomo come Josemaría
Escrivá?
Ogni santo è un dono che Dio fa alla Chiesa.
Il Signore, dopo ogni concilio e soprattutto dopo quelli
che hanno inciso molto nella vita della Chiesa, ha suscitato
santi e istituzioni che aiutassero a far diventare realtà
incarnata quel che è scritto nei documenti. Con
il Concilio di Trento sono venuti santIgnazio di
Loyola, san Carlo Borromeo, santa Teresa di Gesù
e tanti altri santi che hanno dato alla Chiesa una nuova
forza evangelizzatrice.
Nel
Vaticano II il tema fondamentale - a mio parere - è
stato la chiamata universale alla santità e allapostolato
e penso che il Signore, con la figura di san Josemaría,
abbia voluto porre un esempio di come questa dottrina
può diventare vita, realtà vissuta.
E
verranno altri santi il cui carisma cura la stessa finalità,
perché la dottrina del Vaticano II è ricchissima,
ma deve incarnarsi ogni giorno di più nella realtà
quotidiana: per ridare alla Chiesa nuova giovinezza e
nuova capacità di incidere con forza evangelizzatrice
in una società tendenzialmente pagana, dove sembra
che molti vogliano vivere ignorando che Cristo è
venuto a salvarla.