L'Opus
Dei all'onore degli altari
Odi
et amo, amore sfrenato e tenace avversione come nella
poesia di Catullo si addicono all'Opus Dei. Forse valeva
più per gli anni Settanta e Ottanta, quando l'istituzione
si presentava come i pretoriani di papa Wojtyla e sembrava
ossessionata dall'urgenza di espandersi. Santa Mafia per
gli uni, "Opera" affascinante per gli altri.
Fatto
sta che con il passar del tempo certe emozioni si sono
stemperate, anche gli aspri dibattiti per la spinta data
da Giovanni Paolo II alla rapidissima beatificazione di
monsignor Josemaría Escrivá, avvenuta già
nel 1992.
Ieri
l'organizzazione ha festeggiato i cento anni della nascita
di Escrivá con gran dispiego di presenze: vescovi
e cardinali, milleduecento delegati provenienti da oltre
cinquanta paesi, personalità di ogni colore politico
e il ministro Maurizio Gasparri con il regalo di uno speciale
francobollo commemorativo. Prima dell'estate avverrà
l'apoteosi: la santificazione di Escrivá.
I
Prelati dell'Opus Dei sono avarissimi di interviste, ma
per l'occasione monsignor Javier Echevarría, madrileno
settantenne, spirito arguto che non cela una volontà
di ferro, accetta un colloquio senza rete, comprese le
domande sulle accuse più scomode rivolte in passato
all'Opus Dei.
Mons.Echevarria, per l'Opus Dei è venuto il grande
momento: tra breve il fondatore salirà all'onore
degli altari
«Quando avverrà, significherà
che la Chiesa riconosce definitivamente la santità
di un uomo, che ha raggiunto la pienezza della carità,
la perfetta unione con Dio. La santità cristiana
risiede proprio nella capacità di amare Dio al
di sopra di tutte le cose e di riversare sugli altri quello
stesso amore. E io le dico che il beato Josemaría
Escrivá era un uomo che aveva davvero un cuore
grande, in grado di gioire e di soffrire con chiunque
soffrisse o gioisse: fosse un popolo, un gruppo di persone,
un amico o un estraneo».
Un carattere difficile, quello di Escrivá, anche
un cattivo carattere a detta di alcuni
«Non penso si possa dire questo, anche se lui,
che non aveva nessuna vergogna a dirlo, raccontava di
avere un caratteraccio. Ma di questo si è servito
il Signore per fare, attraverso quella fortezza di spirito,
che l'Opus Dei si aprisse il cammino nel mondo, nella
Chiesa, in tutti i luoghi. Sapeva dire le cose rettamente,
a volte energicamente, ma mai offendendo la persona. E
se si rendeva conto di avere sbagliato, chiedeva subito
scusa».
Di cammino l'Opus Dei ne ha fatto. Più di ottantamila
aderenti in ogni parte del mondo, circa duemila preti
e diaconi, tante iniziative nei diversi continenti. Cosa
direbbe ad un giovane d'oggi per dirgli di entrare?
«Io, prima di tutto, non direi a nessuno di
entrare nell'Opus Dei, perché se c'è una
condizione per seguire il Signore nell'Opera è
la libertà quotidiana. Fare quello che vuole il
Signore, rispondendo: lo faccio perché ne ho voglia.
Si può solo dire, stai attento alla voce del Signore
e fa quello che ti chiede lui».
E se uno vuole uscire? Nessuna demonizzazione?
«Nessuna, nessunissima».
Ci furono episodi sgradevoli, in passato
«No, mai. Porte spalancate per chi vuole uscire,
semmai porte socchiuse per chi vuole aderire. Piuttosto,
se lei è un padre di famiglia e un suo figlio prende
una strada sbagliata, lo lascia andare a fare i comodacci
suoi? Lo consiglierà. Ecco, questa è l'unica
coazione paterna, fraterna. Per dire alla gente, puoi
fare quello che vuoi, ma pensaci perché stai giocando
con la tua vita».
Per molto tempo sono piovute critiche di eccessivo proselitismo,
anche fra i minorenni, o di coartazione psicologica a
confessarsi esclusivamente con sacerdoti dell'Opus Dei
«Francamente mi pare che le critiche cui lei allude,
peraltro mai provate, siano ormai superate. Quanto all'obbligo
di confessarsi, devo dire che è un'affermazione
non vera. Una simile disposizione sarebbe tra l'altro
in contrasto con la libertà che la Chiesa riconosce
a tutti i cristiani. Che poi i fedeli della Prelatura
preferiscano confessarsi con un sacerdote che li può
aiutare meglio perché condivide il medesimo spirito,
mi sembra del tutto logico e normale. Tuttavia, hanno
sempre la completa libertà di confessarsi con qualsiasi
sacerdote cattolico».
Non accetta nessuna critica? Persino il Papa fa i mea
culpa
«Accetto che siamo tutti imperfetti, che tutti dobbiamo
correggerci e tutti quanti dobbiamo fare un esame di coscienza
per essere più figli di Dio. E vorrei sottolineare
che non ci sentiamo i primi della classe. Sappiamo che
siamo poveri uomini, che devono imparare dagli altri e
cercano con l'aiuto della Grazia di fare
le cose con responsabilità. Svolgendo bene il lavoro,
vivendo bene la vita di famiglia e le relazioni sociali».
A quasi settantacinque anni dalla fondazione dove individua
la particolare vitalità dell'Opera?
«La nostra missione specifica non è gestire
particolari attività di apostolato, bensì
incoraggiare uomini e donne di ogni condizione sociale,
impegnati in qualsiasi lavoro, a santificare la propria
vita, contribuendo così a testimoniare il valore
universale del Vangelo. Ci sono nostri centri in più
di sessanta paesi, ricordo fra i più recenti il
Sudafrica, il Kazakistan, il Libano.
I
fedeli della Prelatura cercano di vivere dovunque come
cristiani sinceri, svolgendo nel proprio ambiente familiare
e professionale un intenso apostolato personale di amicizia
e di confidenza, secondo l'espressione del nostro fondatore.
Alcuni, inoltre, in funzione delle esigenze della società
locale e sempre in collaborazione con altre persone, spesso
non cattoliche, danno vita a progetti di servizi di carattere
educativo, sanitario e così via. Non è un
mistero per nessuno che il fondatore iniziò il
suo apostolato fra i poveri e gli infermi di Madrid».
Qual è il problema che oggi la preoccupa maggiormente
come uomo di fede?
«Per il mondo è la perdita del senso del
sacro. Lasciare che il mondano prenda il sopravvento».
Come immaginate la Chiesa nel terzo millennio? E che tipo
di Papa?
«L'Opus Dei non ha una propria immagine della Chiesa
o del papato. Il Papa, chiunque sia, fa l'unità
della Chiesa e lo guida lo Spirito Santo. Personalmente,
posso immaginare la Chiesa del futuro guardando contemporaneamente
sia all'avvenire che alle nostre radici cristiane. Guardando
Cristo e il mondo che abitiamo. In questo senso, penso
che la parola ''comunione'', spesso adoperata dal Papa
nella sua lettera apostolica Novo millennio ineunte (scritta
dopo il giubileo), ci possa dare la chiave giusta per
considerare tanto i problemi della Chiesa quanto la sua
missione nel mondo».
Lei è stato segretario personale di Escrivá
dal 1953 fino alla sua morte. Come lo ricorda?
«Con le parole e gli scritti, ma soprattutto
con l'esempio ha insegnato a vivere l'ideale evangelico
fino in fondo, dimostrando che non è un'utopia
né un'esclusiva di pochi privilegiati, bensì
un richiamo rivolto a tutti i cristiani, un invito a vivere
il Vangelo in qualsiasi ambiente, in tutte le professioni,
perché ogni lavoro può diventare l'occasione
di un incontro con Cristo».