70°
anniversario della fondazione dell'Opus Dei: un'intervista
con il Prelato
L'appuntamento
è per le 17,15 di un mercoledì di settembre,
nella sede centrale dell'Opus Dei, in viale Bruno Buozzi,
a Roma. È una casa che "sembra fatta di pietra,
ma in realtà è fatta d'amore", come
diceva il beato Josemaria Escrivà che la costruì
grado a grado negli anni, e ora è abitata dalla
sua presenza. Le sue spoglie mortali riposano nell'altare
della chiesa prelatizia di Santa Maria della Pace, che
è come il fondamento di tutto l'edificio.
Nel
soggiorno che mi accoglie, abitualmente si svolge la tertulia,
la riunione informale dopo pranzo e dopo cena, tipicamente
familiare, dove ci si scambiano opinioni, si commenta
l'attualità, ci si diverte. In una di quelle poltrone
mi pare di rivedere seduto il beato Josemaria. E so già
che l'intervista con il prelato dell'Opus Dei, mons. Javier
Echevarria, per la quale sono qui, avrà un carattere
di tertulia, senza ombra di ufficialità o di rigidezza
protocollare.
D
- "Padre, la prima domanda non può che riferirsi
al prossimo 2 ottobre, 70° anniversario della fondazione
dell'Opera. Quando don Alvaro del Portillo, ventottenne
non ancora sacerdote, per incarico del fondatore, nel
1942 venne a Roma per avviare il riconoscimento giuridico
dell'Opus Dei, si sentì dire nei dicasteri della
Curia che l'Opera era arrivata con un secolo di anticipo.
Adesso l'Opus Dei ha settant'anni e ha raggiunto la configurazione
giuridica definitiva di prelatura personale. Ma si può
dire che il messaggio dell'Opus Dei e la sua funzione
ecclesiale siano veramente capiti?"
R
- "Sì, quell'aneddoto continua ad avere un
certo sapore, perché l'Opera, in un certo senso,
sarà sempre in anticipo. Ricordo che nel 1970,
in Messico, una persona domandò al fondatore: "Che
vuoto è venuto a riempire l'Opus Dei nella vita
della Chiesa?". E nostro Padre, con il suo buonumore,
rispose: "Figlio mio, non ridurmi a un vuoto, non
mettermi in un buco!". Infatti, tutti siamo Chiesa,
figli di Dio. Nonostante le nostre personali debolezze,
l'Opera non viene a riempire alcun vuoto, ed è
sempre in anticipo come lo è l'iniziativa di Dio:
perché l'Opera è stata voluta da Dio il
2 ottobre del 1928 per aiutare a santificare la vita degli
uomini in tutte le circostanze quotidiane, nel lavoro,
nella vita di famiglia e di relazione.
Sarà sempre di attualità finché sarà
di attualità il lavoro dell'uomo, e della donna,
sulla terra. La Chiesa informa, investe, tutta la vita
dei cristiani, e l'Opera è una porzione della Chiesa.
Ci capiscono? L'Opera è capita nella misura in
cui si capisce che la santità riguarda indistintamente
tutti i cristiani, e non consiste nel fare cose straordinarie.
Purtroppo spesso si confonde la santità con lo
straordinario, nel senso di fuori dal normale, mentre
invece si tratta proprio di rendere eroica la vita "normale".
E questo riguarda tutti, da una prospettiva nuova alla
vita quotidiana.
Del resto, incomprensioni ce ne saranno sempre, perché
aprire strade nella Chiesa e nel mondo è sempre
faticoso, e c'è sempre chi mette ostacoli alla
verità".
D
- "La spiritualità dell 'Opera è incentrata
sulla santificazione del lavoro. Nella recente lettera
apostolica Dies Domini, il Papa ha messo in relazione
il lavoro con il cosiddetto tempo libero".
R
- "II beato Josemaria ha sempre insegnato che il
tempo libero non è non far niente, ma dedicarsi
ad attività più gratificanti, meno faticose.
È bellissimo che il Papa, con la lungimiranza che
gli viene dall'essere vicario di Cristo, insegni che la
festa deve illuminare tutta la vita del cristiano e che
la domenica, il Dies Domini, non è soltanto occasione
di riposo dal lavoro abituale, intellettuale o manuale
che sia, ma consente soprattutto all'uomo di affrontare
più direttamente i suoi doveri nei confronti di
Dio. Santificare la vita quotidiana, secondo lo spirito
dell'Opus Dei, consiste nel rendere festiva la ferialità".
Le
attese del Papa
D
- "È bello che il 2 ottobre si celebrino i
settant'anni dell'Opus Dei e il 16 ottobre i vent'anni
di pontificato di Giovanni Paolo II. La storia recente
dell'Opus Dei è molto legata a questo grande Papa.
Quali sono le attese di Giovanni Paolo II nei confronti
dell'Opera?"
R
- "Il Papa è il padre comune e pertanto gli
interessa la risposta cristiana di tutti i suoi figli,
ovunque essi siano, e quali che siano i modi di essere
Chiesa e di servire la Chiesa. Penso che il Papa si aspetti
proprio quello che ha sintetizzato il 17 maggio 1992 nell'omelia
pronunciata il giorno della beatificazione del fondatore,
quando disse: "Con soprannaturale intuizione il beato
Josemaria predicò instancabilmente la chiamata
universale alla santità e all'apostolato. Cristo
convoca tutti a santificarsi nella realtà della
vita quotidiana; pertanto il lavoro è anche mezzo
di santificazione personale e di apostolato quando è
vissuto in unione con Cristo, perché il Figlio
di Dio, incarnandosi, in certo modo si è unito
a tutta la realtà dell'uomo e a tutta la creazione".
È
commovente che al Papa non importi di consumarsi, di spendersi
nella sua missione di proclamare l'attualità perenne
della santità. Penso che il Santo Padre da noi
si aspetti proprio questo: che ci siano persone dell'Opus
Dei impegnate a cercare di mettere Cristo in tutte le
attività umane".
D
- "Il 23 marzo 1994 Giovanni Paolo II venne in questa
casa a pregare davanti alle spoglie di don Alvaro. Recitò
la Salve Regina e solo dopo il Responsorio per i defunti.
E' un segno di grande affetto e di grande stima. Quando
si aprirà il processo di beatificazione di don
Alvaro? "
R
- "Io credo che monsignor Alvaro del Portillo, se
Dio vuole e con i tempi stabiliti dalla prassi della Chiesa,
riceverà l'onore degli altari. La sua risposta
vocazionale è stata una vita interamente dedicata
al servizio del Signore. Aveva delle condizioni intellettuali
straordinarie. L'educazione cristiana che aveva ricevuto
da bambino fede presa sulle sue eccezionali doti umane
attraverso la formazione assimilata accanto al beato Josemaria.
Erano due personalità molto diverse don Alvaro
e il beato Josemaria, e proprio questo è sorprendente:
con tutte le sue qualità don Alvaro era capace
di attirare tante persone, aveva in grande misura il "dono
delle genti".
Il
suo curriculum universitario è brillantissimo (era
laureato in ingegneria, in lettere e filosofia e in diritto
canonico); imponente il lavoro che svolse durante il Concilio
Vaticano II e poi come consultore di diversi organismi
della Santa Sede. Ebbene, tutte queste sue grandi doti
don Alvaro le ha messe a disposizione dell'Opera, avendo
capito che il suo ruolo di servizio alla Chiesa consisteva
nell'assecondare il fondatore.
Don
Alvaro si rendeva conto che il protagonista della nuova
grande impresa che incominciava nella Chiesa era il beato
Josemaria, e gli stava accanto con l'eleganza di saper
aiutare e di scomparire. Era un uomo che attirava l'attenzione
per la sua semplicità, per la sua vita di pietà,
per la sua grande umiltà. Quando don Alvaro fu
chiamato a succedere al fondatore, sentì che per
proseguire nella missione di continuità, occorreva
accentuare al massimo la fedeltà, al punto che
qualcuno disse che il 26 giugno 1975 era morto don Alvaro,
non il fondatore, il quale continuava a reggere l'Opus
Dei attraverso il suo successore. Era commovente l'impegno
con cui don Alvaro si pose a governare questa parte della
Chiesa che è l'Opus Dei, come avrebbe fatto il
beato Josemaria. Il passaggio del testimone non aveva
alterato in nulla il ritmo della continuità".
Straordinaria
normalità
D
- "II carisma dell'Opus Dei è il carisma della
normalità. Però nella vita dei santi c'è
sempre anche qualche cosa di straordinario, compresa qualche
singolare lotta con il demonio. Nella vita del beato Josemaria
ci sono episodi del genere?"
R
- "Credo di essere un testimone qualificato. Don
Alvaro, il mio predecessore, è stato accanto al
fondatore per quarant'anni, dal 1935 al 1975, e io stato
accanto a entrambi dal 1950 e, con maggiore continuità,
a partire dal 1953. Ebbene, il beato Josemaria ci aveva
talmente istillata la necessità di santificare
la vita ordinaria, che noi pur sapendo - perché
non lo negava - che c'erano delle circostanze straordinarie
nella sua vita, non gliene parlavamo mai ed egli, del
resto, faceva di tutto per non provocare la curiosità.
Abbiamo
sempre custodito con rispetto questa parte della vita
di nostro Padre, del suo rapporto con Dio: con grandissimo
rispetto.
Nella Santa Sede qualche ecclesiastico gli disse che aveva
il dovere di racontare alcuni di questi eventi straordinari
ai fedeli dell'Opera perché si rendessero conto
che anche in questo modo potevano costatare gli interventi
divini nell'itinerario fondazionale. Le poche volte che
lo sentii accennare a fenomeni straordinari era per spingerci
verso Dio, e non scendeva in particolari. Aggiungeva che
dopo quegli episodi restava sempre molto amareggiato all'idea
che si potesse pensare che era un santo, mentre, diceve,
era soltanto un pover'uomo. Preferiva e insegnava il rapporto
diretto, abituale, dell'anima con Dio, senza mettere in
mezzo interventi straordinari.
Ricordo
che il 2 ottobre 1968, nel quarantesimo anniversario dell'Opera,
mentre dopo pranzo eravamo in tertulia ci disse: "Vi
ringrazio perché oggi non mi avete chiesto niente
di che cosa è avvenuto quel giorno. Sento una tale
gratitudine verso Dio che, se mi aveste chiesto qualcosa,
forse avrei avuto la debolezza di aprirvi il cuore".
Allora noi ci facemmo avanti e stavamo per fare qualche
domanda, ma anche quella volta tutto finì lì.
Quanto
al diavolo, raccontò che il 15 dicembre 1931, mentre
camminava, intimamente raccolto, in via Atocha a Madrid,
si vide venire incontro tre giovani uno dei quali, con
un ceffo terribile, alzò il braccio per colpirlo,
gridando minacciosamente. Ma uno degli altri due gli intimò:
"Non toccarlo", e passandogli accanto sussurrò
all'orecchio di nostro Padre: "Asinello, asinello!".
Ebbene, asinello (in casigliano: barrito) era il termine
con cui egli designava sé stesso nell'intimità
del suo colloquio con Dio. Soltanto il suo confessore
ne era a conoscenza. Il beato Josemaria attribuì
quell'attacco a un'azione diabolica, e la difesa all'Angelo
Custodex".
Una
fede "privata"?
D
- "Padre, la libertà e la responsabilità
personali in campo economico, politico, culturale, professionale
sono costitutivi essenziali della secolarità che
caratterizza l'Opera, di cui siamo molto gelosi. D'altra
parte, essere dell'Opus Dei non è come iscriversi
a un circolo del golf o del tennis. La formazione spirituale
che l'Opera impartisce è un fatto esclusivamente
individuale? E il fatto che i fedeli dell'Opera non agiscono
mai in gruppo, può essere interpretato come una
sorta di privatizzazione della fede?"
R
- "Sono sempre rimasto molto colpito dal fatto che
fin dall'inizio, quando per la prima volta mi accostai
all'Opus Dei - ed ero molto giovane - mi sentii ripetere:
"Tu sei libero e responsabile davanti a Dio, davanti
al direttore, davanti alla tua coscienza". Non abbiamo
mai utilizzato l'aiuto degli altri membri dell'Opera per
far carriera, per primeggiare. Ogni membro dell'Opus Dei,
nelle cose opinabili, ha la stessa libertà degli
altri cattolici che si sforzano di essere coerenti con
la propria fede, sotto la guida del Papa e dei vescovi.
Tuttavia
l'appartenenza all'Opus Dei non è un fatto privato:
investe tutta la vita e quindi deve manifestarsi nel lavoro,
nella vita di relazione, nella vita di pietà. Sarebbe
assurdo che una seria vita cristiana non fosse leggibile
all'esterno. L'Opera dà formazione perchè
questa formazione sia sia trasmessa agli altri, e non
perchè ci sentiamo migliori degli altri: non siamo
i primi della classe, siamo persone qualsiasi, di cui
però il Signore vuole servirsi perché con
la nostra vita di lotta ascetica proclamiamo la santità
nel lavoro, nella famiglia, nella vita sociale, ma ciascuno
con le proprie forze, e unendo gli sforzi con quelli di
altri cittadini che condividono gli slessi ideali di umanizzazione
della società, senza che l'Opera indichi o interferisca
nelle scelte concrete che, ripeto, riguardano i fedeli
dell'Opera non in quanto fedeli dell'Opera, ma in quanto
cittadini cattolici".
Amare
il Vicario di Cristo
D
- "Il beato Josemaria ha conosciuto diversi Papi.
Che cosa diceva di loro?"
R
- "Più volte ho accompagnato nostro Padre
in udienza dal Sommo Pontefice. E una cosa che mi è
sempre rimasta impressa e che tuttora mi stupisce, è
che essendo lui un uomo che per intelligenza ed esperienza,
era in grado di affrontare qualsiasi situazione, di intrattenersi
anche con i potenti della terra, quando andava dal Papa
era filialmente nervoso, inquieto. Tanta era la venerazione
per il Vicario di Cristo, e la gioia di poter stare con
lui".
D
- "Anch'io ricordo che quando Paolo VI, il 21 novembre
1965, inaugurò il Centro Elis, un'iniziativa per
la formazione professionale dei giovani alla periferia
di Roma, con una Parrocchia affidata dalla Santa Sede
all'Opus Dei, nostro Padre era emozionatissimo..."
R
- "Non riusciva a leggere il discorso, gli tremavano
le mani. Eppure era abituato a stare di fronte a persone
importanti. Quanto ai singoli Papi, egli fu molto vicino
a Pio XII per le sofferenze che il Papa patì durante
la seconda guerra mondiale, ed era pieno di gratitudine
verso di lui perché sotto il suo pontificato si
aprì il primo spiraglio nella legislazione canonica,
e l'Opera venne riconosciuta come cammino di santificazione
in mezzo al mondo. Nel 1958, durante il periodo di sede
vacante, fummo molto colpiti dalla sua insistenza nel
pregare e far pregare per il futuro Papa, chiunque egli
fosse, e facendogli compagnia da subito, con fede forte
e volendogli già bene. Di Giovanni XXIII, oltre
ad ammirarne la grande bontà, accolse con gioia
le aperture ecumeniche. E ne era ricambiato. Giovanni
XXIII commentava con i suoi collaboratori che riceveva
volentieri mons. Escrivà, perché gli si
allargava il cuore.
Per
quanto concerne Paolo VI, nostro Padre ha sempre detto
che la prima mano amica che si era posata sulla sua spalla
e sulla sua testa, quando nel 1946 venne a Roma, fu quella
dell'allora monsignor Montini. Di questa carità
fraterna, il beato Josemaria fu sempre molto grato. E
non dimenticò mai che Paolo VI, sapendo che stava
cercando la configurazione giuridica adatta all'Opus Dei,
senza forzare in nulla un aspetto che era esclusivo del
carisma fondazionale, lo incoraggiò a studiare
e a proporre la soluzione".
L'apostolato
con gli intellettuali
D
- "Negli statuti si legge che l'Opera fa apostolato
con persone di tutti i ceti sociali, ma soprattutto con
gli intellettuali. Del resto, al momento della sua nomina
a Prelato, nel 1994, Lei ha indicato la cultura fra le
priorità delle premure apostoliche dell'Opera,
accanto alla famiglia e ai giovani..."
R
- "Il lavoro di amicizia e di apostolato fra gli
intellettuali ha un'importanza fondamentale per il progresso
della società. Agli intellettuali il nostro fondatore
ha sempre ricordato che non possono prescindere dalla
verità e che non possono voltare le spalle ai bisogni
degli uomini. Coloro che sono particolarmente dotati per
farsi carico dei problemi degli altri e per imprimere
la giusta rotta alla società, non devono vivere
soltanto per il proprio tornaconto, ma marciare alla testa
della società promuovendo il bene comune con la
preparazione cristiana che devono sviluppare. Mons. Alvaro
del Portillo, seguendo l'insegnamento del beato Josemaria,
ha dato impulso, anche con la creazione di università,
sia alle discipline scientifiche, sia a quelle umanistiche,
perché scienza, fede e cultura sono al servizio
della società".
D
- "A questo proposito, l'Ateneo romano della Santa
Croce è recentemente diventato la sesta Università
Pontificia della capitale. Dato che l'Opus Dei non ha
una propria scuola teologica, quale insegnamento viene
impartito nelle università della cui ortodossia
dottrinale l'Opera si fa garante?"
R
- "Dare formazione teologica è sempre stata
una preoccupazione prioritaria del beato Josemaria. L'insegnamento
che nell'Università della Santa Croce e nelle altre
università promosse dall'Opera viene impartito
è in piena aderenza al magistero della Chiesa.
Ogni docente insegna con la sua personalità e con
il suo metodo nel campo dell'opinabile, con la libertà
e il pluralismo ammessi dalla Chiesa. Ma qualora una teoria
si rivelasse in contrasto con il magistero, sarebbe indice
che si è sbagliato strada e che bisogna ricominciare
a studiare".
D
- "E i giovani, che stanno tanto a cuore anche al
Santo Padre?"
R
- "Grazie a Dio, in spirito, tutti siamo giovani.
Il beato Josemaria ha sempre visto i giovani come la speranza
della Chiesa e della società, e si preoccupava
di non illudere, di non adulare i giovani, essendo con
loro affettuosamente esigente e dando loro una formazione
che sgomberasse il campo dagli equivoci oggi purtroppo
dilaganti nel mondo della cultura, dell'arte, del divertimento:
confondere il piacere con l'amore, confondere il consumismo
con il benessere, equivale a corrompere i giovani che
invece sanno rispondere molto bene quando si propongono
loro ideali elevati".
D
- "Naturalmente, per questa formazione si deve sempre
partire e ripartire dalla famiglia".
R
- "Certo, perché la famiglia è e rimane
la cellula fondamentale della società, e attualmente
è sottoposta a un'aggressione terribile: se si
riduce il matrimonio a una banalità, se alla fedeltà
si sostituisce la temporaneità, la famiglia diventa
un disastro psicologico e sociale, e non si può
pretendere che svolga i suoi compiti educativi come luogo
privilegiato del ricambio generazionale".
D
- "Con l'Avvento incomincerà il terzo anno
di preparazione al Grande Giubileo del 2000, dedicato
a Dio Padre. Immagino che anche personalmente Lei sentirà
con particolare intensità questo evento"
R
- "Uno dei grandi insegnamenti del beato Josemaria
è che la filiazione divina è essenziale
nella vita cristiana e in particolare lo è nello
spirito dell'Opera. Questa certezza non è stata
per lui soltanto un principio teorico, ma una scoperta
esistenziale che ha toccato vertici di contemplazione
e di ardente corrispondenza, a partire dalla giovinezza
e fin dai primi anni della fondazione. Credo che tutti
noi ci siamo sentiti perfino più figli dei nostri
genitori, grazie a quello che nostro Padre ci ha insegnato
riguardo al nostro essere figli di Dio. Dio è nostro
Padre, ci guarda e ci ama, ci considera non come figli
impeccabili, ma come piccoli bisognosi di tenerezza e
di aiuto. Dio non è un controllore, è un
padre che vuole la nostra felicità. E questa consapevolezza
dà senso a tutto quello che facciamo".
L'Opus
Dei nel mondo
D
- "Lei è di ritorno da un lungo viaggio nell'Estremo
Oriente, dove ha potuto verificare lo sviluppo dell'Opera
in terre così lontane. Che impressioni ne ha ricavato?"
R
- "Come già faceva nostro Padre, andiamo nei
vari Paesi non per insegnare, ma per imparare. Anche se
non dobbiamo sottrarci a insegnare qualcosa. È
impressionante toccare con mano come il Vangelo e anche
lo spirito dell'Opus Dei si adatta e si incarna in tutte
le culture. In Nuova Zelanda, per esempio, mi ha molto
colpito che una donna maori, giustamente orgogliosa della
sua provenienza etnica e della sua cultura, mi abbia detto
di sentirsi chiamata a diffondere lo spirito dell'Opera
nel suo popolo. Davvero siamo tutti uguali, siamo tutti
figli di Dio. Come diceva il beato Josemaria, non c'è
distinzione di razza, di lingua, di tradizione, di cultura".
D
- "Una domanda personale: quali libri ha letto di
recente?"
R
- "Ho letto il libro del cardinale Ratzinger sulla
liturgia, Cantate al Signore un canto nuovo, un libro
di informazione giornalistica sulla Cina, A single tear,
di Wu Ningkum; Liberdade religiosa, del portoghese Hugo
de Azevedo; ma leggo anche qualche romanzo. E ho apprezzato
il libro di Vittorio Messori e Michele Brambilla. Qualche
ragione per credere.