La
donna nella vita sociale e nella Chiesa
Intervista raccolta da P. Salcedo, pubblicata in
"Telva" (Madrid) il 01/02/1968
D
- Monsignore, la presenza della donna nella vita sociale
sta diventando sempre più ampia, anche aldilà
dell'àmbito famigliare in cui essa si è
mossa quasi esclusivamente fino a ora: Che cosa pensa
di questa evoluzione? E quali sono, secondo lei, le caratteristiche
di base che la donna deve possedere per il compimento
della missione che le è assegnata?
R
- Innanzitutto, mi sembra opportuno non contrapporre i
due àmbiti a cui ha accennato. Come nella vita
dell'uomo, anche in quella della donna, ma con caratteristiche
molto peculiari, il focolare e la famiglia occuperanno
sempre un posto preminente: è evidente che il dedicarsi
ai compiti famigliari costituisce una grande funzione
umana e cristiana.
Tuttavia
questo non esclude la possibilità di svolgere altre
attività professionali - anche quella domestica
è un'attività professionale - in una qualunque
delle mansioni e degli impieghi dignitosi esistenti nella
società in cui si vive. È facile capire
che cosa si intende impostando così il problema;
penso però che se si insiste troppo sulla contrapposizione
sistematica tra casa ed attività esterne, e ci
si limita a spostare l'accento da un termine all'altro,
si potrebbe giungere, da un punto di vista sociale, a
un errore maggiore di quello che si cerca di correggere,
giacché sarebbe senz'altro più grave che
la donna abbandonasse il lavoro di casa.
Nemmeno
sul piano personale si può affermare, in modo unilaterale,
che la donna può raggiungere la propria perfezione
solo al di fuori della famiglia: come se il tempo che
essa dedica alla famiglia fosse tempo rubato allo sviluppo
ed alla maturità della sua personalità.
Il
focolare - qualunque esso sia, poiché anche la
donna non sposata deve avere un focolare - è un
àmbito particolarmente propizio per lo sviluppo
della personalità. Il maggior motivo di dignità
della donna sarà sempre costituito dalle cura prestate
alla famiglia; con la sollecitudine verso il marito e
i figli o, per parlare in termini più generali,
con il proprio impegno per creare intorno a sé
un ambiente accogliente e formativo, la donna realizza
l'aspetto più insostituibile della sua missione,
e in conseguenza può raggiungere proprio lì
la sua personale perfezione.
Come
ho già detto, questo non si oppone ad altri aspetti
della vita sociale, compresa la politica, per esempio.
Anche in questi settori, la donna - come persona, e con
le caratteristiche proprie della sua femminilità
- può apportare un valido contributo; e ci riesce
nella misura in cui è preparata da un punto di
vista umano e professionale. Tanto la famiglia, infatti,
quanto la società, hanno bisogno del suo speciale
contributo, che non è affatto secondario.
Sviluppo,
maturità, emancipazione della donna non devono
significare una pretesa di uguaglianza - di uniformità
- nei riguardi dell'uomo, una "imitazione" dei
modelli maschili: ciò per la donna non sarebbe
una conquista, ma piuttosto una perdita, e non perché
essa valga di più o di meno dell'uomo, ma perché
è diversa.
Sotto
il profilo essenziale - che deve avere un riconoscimento
giuridico sia civile che ecclesiastico - si può
certamente parlare di "uguaglianza di diritti",
perché la donna ha allo stesso modo dell'uomo la
dignità di persona e di figlia di Dio. Ma da questa
base di uguaglianza fondamentale, ognuno deve mirare a
ciò che gli è proprio; l'emancipazione viene
quindi a significare per la donna la possibilità
reale di sviluppare pienamente le proprie virtualità:
quelle che essa possiede nella sua singolarità,
e quelle che ha in quanto donna.
L'uguaglianza
di fronte al diritto, la parità davanti alla legge,
non sopprimono ma anzi presuppongono e promuovono tale
diversità, che è poi ricchezza per tutti.
La
donna è chiamata ad apportare alla famiglia, alla
società civile, alla Chiesa, qualche cosa di caratteristico
che le è proprio e che solo lei può dare:
la sua delicata tenerezza, la sua instancabile generosità,
il suo amore per la concretezza, il suo estro, la sua
capacità di intuizione, la sua pietà profonda
e semplice, la sua tenacia... La femminilità non
è autentica se non sa cogliere la bellezza di questo
insostituibile apporto e non ne fa vita della propria
vita.
Per
compiere questa missione la donna deve sviluppare la propria
personalità, senza lasciarsi trasportare da un
ingenuo spirito di imitazione che finirebbe quasi sempre
per collocarla in una situazione di inferiorità
e mortificherebbe le sue possibilità più
originali.
Se
si forma bene, con autonomia personale, con autenticità,
essa realizzerà efficacemente la sua opera, la
missione a cui si sente chiamata, qualunque essa sia:
la sua vita, il suo lavoro, saranno veramente costruttivi
e fecondi, ricchi di significato, sia che trascorra le
proprie giornate dedita al marito e ai figli, sia che,
avendo rinunciato al matrimonio per nobili motivi, essa
abbia deciso di dedicarsi interamente ad altri compiti.
Ciascuna
per la propria strada, fedele alla sua vocazione umana
e divina, può realizzare, come di fatto avviene,
la personalità femminile in tutta la sua pienezza.
Non dimentichiamo che la Madonna, Madre di Dio e Madre
degli uomini, non solo è un modello, ma anche la
prova del valore trascendentale che può assumere
una vita apparentemente irrilevante.
D
- Talvolta, però, la donna non si sente certa di
trovarsi veramente al posto che le spetta, al posto cui
è chiamata. Molto spesso, quando lavora fuori,
pesano su di lei le esigenze della casa; quando invece
si dedica completamente alla famiglia, avverte una limitazione
delle proprie possibilità. Lei che cosa direbbe
alle donne che provano tali contraddizioni?
R
- Tale sensazione - molto reale - deriva spesso, più
che da vere e proprie limitazioni - che tutti abbiamo,
perché siamo esseri umani - dalla mancanza di ideali
ben determinati, tali da dar senso a una vita intera,
o anche da inconsapevole superbia: a volte vorremmo essere
i migliori in tutti i campi e a tutti i livelli.
E
siccome ciò non è possibile, nasce uno stato
di ansietà e di disorientamento o addirittura di
tedio e di scoraggiamento: non si riesce a badare a tutto;
non si sa a che dedicarsi e si finisce per non concludere
nulla. In una simile situazione, l'anima rimane esposta
all'invidia, l'immaginazione facilmente si sbriglia e
cerca rifugio nella fantasticheria, che allontana dalla
realtà e finisce con l'addormentare la volontà.
È
ciò che spesso ho chiamato mistica del magari,
fatta di vani sogni e di falsi idealismi: magari non mi
fossi sposato, magari avessi un altro lavoro, magari avessi
una salute migliore, o meno anni, o più tempo a
disposizione!
Il
rimedio (costoso, come qualsiasi cosa di valore) sta nel
cercare il vero centro della vita umana, ciò che
a tutto può dare il giusto posto, un ordine e un
senso: il rapporto con Dio attraverso un'autentica vita
interiore. Se vivendo in Cristo abbiamo in Lui il nostro
centro, scopriamo il senso della missione affidataci,
abbiamo un ideale umano che diviene divino, nuovi orizzonti
e nuove speranze ci si aprono dinanzi, e arriviamo sino
a sacrificare con gioia non già questo o quell'aspetto
della nostra attività, ma la vita intera, dandole
così, paradossalmente, il compimento più
profondo.
Il
problema che lei riscontra nella donna, non le è
esclusivo: pur con circostanze diverse, molti uomini sperimentano
talvolta una situazione analoga. La radice di solito è
la stessa: mancanza di un profondo ideale, che si arriva
a scoprire solo alla luce di Dio.
Comunque,
occorre mettere in pratica anche dei piccoli rimedi, che
sembrano banali, ma non lo sono affatto: se si hanno molte
cose da fare, bisogna stabilire un ordine, organizzarsi.
Molte delle difficoltà nascono dalla mancanza di
ordine, dal non aver acquistato questa dote.
Ci
sono donne che fanno mille cose, e tutte bene, perché
hanno saputo organizzarsi, imponendo con energia un ordine
all'abbondanza dei compiti. Hanno saputo badare in ogni
occasione a ciò che dovevano fare in quel momento,
senza frastornarsi col pensiero di ciò che sarebbe
venuto poi o di ciò che forse avrebbero potuto
fare prima. Altre invece si lasciano opprimere dal molto
da fare, e così non fanno nulla.
Certo,
ci saranno sempre molte donne che non avranno altra occupazione
che quella di portare avanti la propria casa. Ebbene,
vi dico che si tratta di una magnifica occupazione, e
vale la pena dedicarvisi. Attraverso tale professione
- perché lo è: vera e nobile - esercitano
un positivo influsso non solo sulla famiglia, ma anche
su moltissimi amici e conoscenti, su tante persone con
cui in un modo o nell'altro vengono in contatto: esercitano
un'influenza a volte molto più estesa di quella
di altre professioni.
Non
parliamo poi di quando pongono la loro esperienza e la
loro scienza al servizio di centinaia di persone, in centri
destinati alla formazione della donna, del tipo di quelli
che dirigono le mie figlie dell'Opus Dei in tutti i Paesi
del mondo. Allora diventano maestre della casa, con un'efficacia
educativa, direi, superiore, a quella di molti docenti
universitari.
D
- Mi scusi, ma vorrei insistere sullo stesso tema. Da
lettere che ci arrivano in redazione, sappiamo che alcune
madri di famiglia numerose si lamentano di vedersi ridotte
al compito di mettere figli al mondo, e sentono un'insoddisfazione
molto grande perché non possono dedicarsi nella
loro vita ad altre cose: lavoro professionale, cultura,
impegno sociale. Che cosa consiglierebbe a queste persone?
R
- Vediamo un po'. Che cosa è la dimensione sociale
se non darsi agli altri, con senso di dedizione e di servizio,
per contribuire con efficacia al bene di tutti? Il lavoro
della donna nella propria casa non solo è di per
sé una funzione sociale, ma può essere addirittura
la funzione sociale di maggior rilievo.
Pensate
a una famiglia numerosa: in essa l'importanza del lavoro
di una madre può essere ben paragonata a quella
degli educatori di professione, e sovente il confronto
è a vantaggio delle donne. Un insegnante, durante
una vita intera, riesce a formare così così
un certo numero di ragazzi o di ragazze. Una madre invece
può formare i suoi figli in profondità,
negli aspetti più basilari, e può farli
diventare, a loro volta, educatori, in modo da creare
un'ininterrotta catena di responsabilità e di virtù.
Anche
in questi temi è facile lasciarsi sedurre da un
criterio meramente quantitativo, fino a pensare che è
preferibile il lavoro dell'insegnante, per le cui aule
passano migliaia di persone, o quello dello scrittore
che si dirige a migliaia di lettori. In realtà,
quello scrittore o quell'insegnante, quante persone formano
realmente? Una madre si cura di tre, cinque, dieci o più
figli; e può fare di loro una vera e propria opera
d'arte, una meraviglia di educazione, di equilibrio, di
comprensione, di senso cristiano della vita, in modo che
siano felici e possano essere realmente utili agli altri.
D'altronde
trovo naturale che i figli e le figlie aiutino nei lavori
della casa: una madre che sappia preparare bene i figli,
riesce a farsi aiutare, e così potrà disporre
di più occasioni e di più tempo per coltivare
- se ben utilizzato - interessi e talenti personali e
arricchire la propria cultura.
Per
fortuna oggi - come ben sapete - non mancano mezzi tecnici
che risparmiano molto lavoro, se sono bene impiegati e
si sa ricavarne il miglior profitto. Qui, come in tutte
le cose, sono determinanti le condizioni personali: ci
sono donne che hanno una lavatrice ultimo modello, eppure
a lavare impiegano più tempo e lo fanno peggio
di quando lo facevano a mano. Gli strumenti sono utili
quando si sa adoperarli.
So
di molte donne sposate e con parecchi figli, che governano
ottimamente il loro focolare, e in più trovano
il tempo per collaborare ad altre attività apostoliche,
come quella coppia di sposi della cristianità primitiva,
Aquila e Priscilla, che lavoravano sia in casa che nel
loro mestiere, e furono inoltre degli splendidi collaboratori
di san Paolo; con la loro parola e con l'esempio attrassero
Apollo alla fede di Cristo, ed egli divenne poi un grande
predicatore della Chiesa nascente.
Come
ho già detto, buona parte dei limiti si possono
superare senza trascurare nessun dovere, se davvero si
vuole. In fondo c'è tempo per fare molte cose:
per governare la casa con senso professionale, per dedicarsi
costantemente agli altri, per elevare la propria cultura
e arricchire quella altrui, per svolgere tanti compiti
pieni di efficacia.
D
- Lei ha accennato alla presenza della donna nella vita
pubblica, nella politica. In questo campo si sono fatti
in questi ultimi tempi dei notevoli passi avanti. A suo
avviso, qual è il ruolo specifico che spetta alla
donna in questo terreno?
R
- La presenza della donna nel complesso della vita sociale
è un fenomeno logico e completamente positivo,
che fa parte del processo più ampio a cui mi riferivo
prima. Una società moderna, democratica, deve riconoscere
alla donna il diritto di prendere parte attiva alla vita
politica, e deve creare le condizioni atte a favorire
l'esercizio di questo diritto da parte di tutte coloro
che desiderino farlo.
La
donna che vuole dedicarsi attivamente alla gestione della
cosa pubblica è tenuta a prepararsi come si deve,
in modo che il suo operato nella vita della comunità
sia responsabile e positivo. Qualsiasi lavoro professionale
richiede una formazione previa e lo sforzo costante per
elevare il livello di questa preparazione e per aggiornarla
in rapporto alle circostanze sempre nuove.
Questa
esigenza rappresenta un dovere del tutto speciale per
coloro che aspirano a posti direttivi della società:
essi infatti sono chiamati a svolgere un servizio della
massima importanza, dal quale dipende il bene di tutti.
Una
donna dotata della necessaria preparazione deve poter
trovare aperti tutti gli sbocchi alla vita politica, a
tutti i livelli. In questo senso, non si possono indicare
alcune attività specifiche riservate solo alle
donne.
Come
dicevo prima, in questo terreno l'apporto specifico della
donna non consiste tanto nell'attività o nel posto
in sé, quanto nel modo di svolgere questa funzione,
cioè nelle sfumature che la sua natura di donna
saprà dare alle soluzioni dei problemi che si trova
ad affrontare, e anche nel saper individuare e impostare
in un certo modo questi problemi.
Grazie
alle sue doti naturali, la donna può arricchire
notevolmente la vita civile. Questa è una cosa
evidente, soprattutto se pensiamo al vasto campo della
legislazione famigliare e sociale. Le doti femminili costituiranno
la migliore garanzia che saranno rispettati gli autentici
valori umani e cristiani al momento di prendere delle
misure che interessano in qualche modo la vita della famiglia,
l'ambiente educativo, l'avvenire dei giovani.
Ho
accennato al ruolo dei valori cristiani nella soluzione
dei problemi sociali e famigliari: vorrei ora sottolineare
la loro importanza in tutta la vita pubblica. Quando una
donna deve occuparsi di questioni politiche, la fede cristiana
dà a lei come all'uomo la responsabilità
di realizzare un autentico apostolato, cioè un
servizio cristiano a tutta la società.
Non
si tratta di rappresentare ufficialmente o ufficiosamente
la Chiesa nella vita pubblica, e meno ancora di servirsi
della Chiesa a vantaggio della propria carriera o per
interessi di parte. Si tratta invece di formarsi liberamente
un'opinione su tutti i problemi temporali nei quali i
cristiani sono liberi, e di assumersi personalmente la
responsabilità del proprio pensiero e del proprio
operato, che dovranno comunque essere sempre coerenti
con la fede che si professa.
D
- Nell'omelia pronunziata a Pamplona lo scorso mese di
ottobre, durante la santa Messa celebrata per l'assemblea
degli Amici dell'Università di Navarra, lei parlò
dell'amore umano con parole commoventi. Molte lettrici
ci hanno scritto dell'emozione che provarono nel sentirla
parlare così. Ci direbbe ora quali sono i valori
più importanti del matrimonio cristiano?
R
- È materia che conosco bene, per mia diretta esperienza
sacerdotale di molti anni e in molti Paesi. La maggioranza
dei soci dell'Opus Dei vive nello stato matrimoniale;
per loro l'amore umano e i doveri coniugali sono parte
della vocazione divina. L'Opus Dei ha fatto del matrimonio
un cammino divino, una vocazione, e ciò comporta
molte conseguenze riguardanti la santificazione personale
e l'apostolato.
Da
quasi quarant'anni predico il significato vocazionale
del matrimonio. Quante volte ho visto illuminarsi il volto
di tanti, uomini e donne, che credendo inconciliabili
nella loro vita la dedizione a Dio e un amore umano nobile
e puro, mi sentivano dire che il matrimonio è una
strada divina sulla terra!
Il
matrimonio è fatto perché quelli che lo
contraggono vi si santifichino e santifichino gli altri
per mezzo di esso: perciò i coniugi hanno una grazia
speciale, che viene conferita dal sacramento istituito
da Gesù Cristo. Chi è chiamato allo stato
matrimoniale, trova in esso, con la grazia di Dio, tutti
i mezzi necessari per essere santo, per identificarsi
ogni giorno di più con Gesù e per condurre
verso il Signore le persone con cui vive.
È
per questo che penso sempre con speranza e affetto ai
focolari cristiani, a tutte le famiglie sbocciate dal
sacramento del matrimonio, che sono luminose testimonianze
del grande mistero divino - sacramentum magnum (Ef 5,
32), sacramento grande - dell'unione e dell'amore fra
Cristo e la sua Chiesa.
Dobbiamo
adoperarci perché queste cellule cristiane della
società nascano e crescano con desiderio di santità,
coscienti che il sacramento iniziale - il Battesimo -
conferisce già a tutti i cristiani una missione
divina, che ciascuno deve portare a compimento lungo il
suo cammino.
Gli
sposi cristiani devono avere la consapevolezza di essere
chiamati a santificarsi santificando, cioè a essere
apostoli; e che il loro primo apostolato si deve realizzare
nella loro casa. Devono capire l'opera soprannaturale
che è insita nella creazione di una famiglia, nell'educazione
dei figli, nell'irradiazione cristiana nella società.
Dalla consapevolezza della propria missione dipende gran
parte dell'efficacia e del successo della loro vita: la
loro felicità.
Non
devono però dimenticare che il segreto della felicità
coniugale è racchiuso nelle cose quotidiane, e
non in fantasticherie. Consiste nello scoprire la gioia
intima del ritorno al focolare, nell'incontro affettuoso
coi figli; nel lavoro di ogni giorno a cui collabora tutta
la famiglia; nel buon umore dinanzi alle difficoltà,
che vanno affrontate con spirito sportivo; e anche nel
saper approfittare di tutti i progressi offertici dalla
civiltà per rendere la casa accogliente, la vita
più semplice, la formazione più efficace.
Ripeto
insistentemente a quanti sono stati chiamati da Dio a
formare una famiglia di amarsi sempre; di amarsi con l'amore
appassionato di quand'erano fidanzati. Ha un povero concetto
del matrimonio - che è un sacramento, un ideale
e una vocazione - colui che pensa che l'amore finisca
quando iniziano le pene e i contrattempi che la vita porta
sempre con sé.
È
proprio allora che il legame d'affetto si rafforza. La
piena delle tribolazioni e delle contrarietà non
è capace di spegnere il vero amore: il sacrificio
generosamente condiviso rafforza l'unione. Come dice la
Bibbia, aquae multae - le molte difficoltà, fisiche
e morali - non potuerunt extinguere caritatem (Ct 8, 7),
non hanno potuto spegnere l'amore.
D
- Sappiamo che la sua dottrina sul matrimonio come cammino
di santità non è nuova nella sua predicazione.
Già dal 1934, in Consideraciones espirituales,
lei insisteva sulla necessità di vedere il matrimonio
come una vocazione. Però, sia in questo libro che
in Cammino, lei scrisse anche che il matrimonio è
per "i soldati" e non per lo "stato maggiore"
di Cristo. Ci spiegherebbe come si conciliano i due aspetti?
R
- Nello spirito e nella vita dell'Opus Dei non c'è
mai stata nessuna difficoltà per conciliare questi
due aspetti. D'altronde, è bene ricordare che la
maggiore eccellenza del celibato - quello fondato su motivi
spirituali - non è una mia opinione teologica,
bensì dottrina di fede della Chiesa.
Quando
verso gli anni trenta scrivevo quelle frasi, nell'ambiente
cattolico - nella vita pastorale concreta - si tendeva
a promuovere la ricerca della perfezione cristiana nella
gioventù facendo apprezzare solo il valore soprannaturale
della verginità, e lasciando in ombra il valore
del matrimonio cristiano come cammino di santità.
Normalmente
nelle scuole cattoliche non si era soliti formare i giovani
ad apprezzare adeguatamente la dignità del matrimonio.
Anche oggi è frequente che negli esercizi spirituali
che si danno agli alunni degli ultimi anni, vengano proposti
molti più elementi per considerare una possibile
vocazione religiosa, piuttosto che quelli dell'altrettanto
possibile orientamento al matrimonio.
E
non mancano coloro - in numero, fortunatamente, sempre
minore - che screditano la vita coniugale, presentandola
ai giovani come qualcosa che la Chiesa si limita a tollerare,
come se la formazione di una famiglia non permettesse
di aspirare seriamente alla santità.
Nell'Opus
Dei ci siamo sempre comportati in un altro modo, e - mettendo
ben in chiaro la ragion d'essere e l'eccellenza del celibato
apostolico - abbiamo indicato il matrimonio come un cammino
divino sulla terra.
Non
mi spaventa l'amore umano, l'amore santo dei miei genitori,
di cui il Signore si valse per darmi la vita. Quell'amore
io lo benedico con tutte e due le mani. I coniugi sono
i ministri e la materia stessa del sacramento del matrimonio,
come il pane e il vino sono la materia dell'Eucaristia.
Per
questo mi piacciono tutte le canzoni che parlano dell'amore
puro degli uomini: per me sono canti d'amore umano che
innalzano al divino. Allo stesso tempo, dico sempre che
quelli che seguono la vocazione al celibato apostolico
non sono degli scapoloni che non comprendono e non apprezzano
l'amore, tutt'altro: la spiegazione della loro vita sta
nella realtà di quell'Amore divino - mi piace scriverlo
con la maiuscola - che è l'essenza stessa di ogni
vocazione cristiana.
Non
c'è nessuna contraddizione fra apprezzare la vocazione
matrimoniale e comprendere la maggior eccellenza della
vocazione al celibato propter regnum coelorum (Mt 19,
12). Sono convinto che qualsiasi cristiano capisce perfettamente
che queste due cose sono compatibili, se fa in modo di
conoscere, accettare e amare l'insegnamento della Chiesa,
e se cerca anche di conoscere, accettare e amare la propria
vocazione personale. Vale a dire: se ha fede e vive i
fede.
Quando
scrivevo che il matrimonio è per i soldati non
facevo altro che descrivere ciò che è sempre
stato nella Chiesa. Sapete che i Vescovi - che formano
il Collegio Episcopale, che hanno il Papa come capo e
governano con lui tutta la Chiesa - sono scelti fra coloro
che vivono il celibato; questo vale anche per le Chiese
orientali, dove sono ammessi i presbiteri sposati. Inoltre
è facile capire e verificare che i celibi godono
di fatto una maggior libertà di cuore e di movimento
per dedicarsi stabilmente a dirigere e sostenere attività
apostoliche, e questo è vero anche nell'apostolato
dei laici.
Ciò
non vuol dire che gli altri laici non possano svolgere
o non svolgano di fatto un apostolato meraviglioso e di
primaria importanza: vuole solo dire che esistono diverse
funzioni, diversi compiti in posti di diversa responsabilità.
In
battaglia - il mio paragone voleva significare solo questo
- i soldati non sono meno necessari dello stato maggiore,
e possono essere più eroici e meritare più
gloria. Insomma: ci sono compiti diversi, e tutti sono
importanti e nobili. Quello che importa è soprattutto
la corrispondenza di ciascuno alla propria vocazione:
per ognuno ciò che è più perfetto
è - sempre e solo - compiere la volontà
di Dio.
Quindi,
un cristiano che si impegna per santificarsi nello stato
matrimoniale ed è consapevole della grandezza della
propria vocazione, sente spontaneamente una particolare
venerazione e un profondo affetto verso quanti sono chiamati
al celibato apostolico; e quando, per grazia di Dio, qualcuno
dei suoi figli intraprende questo cammino, egli ne prova
sincera gioia. E giunge ad amare ancora di più
la propria vocazione matrimoniale, che gli ha permesso
di offrire a Cristo - il grande Amore di tutti, celibi
o sposati - i frutti dell'amore umano.
D
- Molti coniugi si sentono disorientati dai consigli che
ricevono, perfino da alcuni sacerdoti, in rapporto al
numero dei figli. Che cosa consiglierebbe lei a questi
sposi, di fronte a tanta confusione?
R
- Quanti confondono in questo modo le coscienze, dimenticano
che la vita è sacra, e si rendono meritevoli dei
duri rimproveri del Signore contro i ciechi che guidano
altri ciechi, contro quelli che non vogliono entrare nel
Regno dei cieli e non vi lasciano entrare nemmeno gli
altri.
Non
giudico le loro intenzioni; anzi, sono convinto che molti
danno simili consigli spinti dalla compassione e dal desiderio
di risolvere situazioni difficili: ma non posso nascondere
che mi causa profondo dolore l'opera distruttrice - diabolica,
in molti casi - di quanti non solo non trasmettono la
buona dottrina, ma addirittura la corrompono.
Gli
sposi, quando ricevono consigli e raccomandazioni in materia,
non dimentichino che l'importante è di conoscere
quello che vuole Dio.
Quando
vi è sincerità - rettitudine - e un minimo
di formazione cristiana, la coscienza sa scoprire la volontà
di Dio, qui come in tutte le altre cose. Può infatti
succedere che si stia cercando un consiglio che favorisca
il proprio egoismo, che metta a tacere, con la forza di
una presunta autorità, la voce della propria anima;
e addirittura che si vada passando da un consigliere all'altro
fino a trovare il più "benevolo". Questo,
fra l'altro è un atteggiamento farisaico indegno
di un figlio di Dio.
Il
consiglio di un altro cristiano e in particolare nei problemi
di morale o di fede, il consiglio del sacerdote, sono
un valido aiuto per riconoscere quello che Dio ci chiede
in una determinata circostanza; ma il consiglio non elimina
la responsabilità personale: siamo noi, singolarmente,
a dover decidere, e dovremo rendere personalmente conto
a Dio delle nostre decisioni.
Al
di sopra dei consigli privati c'è la legge di Dio,
contenuta nella Sacra Scrittura, e che il Magistero della
Chiesa custodisce e propone con l'assistenza dello Spirito
Santo. Quando i consigli di una persona contraddicono
la Parola di Dio, quale viene insegnata nel Magistero,
bisogna scostarsi con decisione da quei pareri erronei.
Dio
aiuterà con la sua grazia colui che agisce con
una simile rettitudine, ispirandogli quello che deve fare
e, qualora ne abbia bisogno, facendogli trovare un sacerdote
capace di condurre la sua anima attraverso sentieri retti
e puliti, anche se spesso difficili.
Non
bisogna impostare la direzione spirituale dedicandosi
a fabbricare delle creature prive del proprio giudizio
e che si limitano a eseguire materialmente ciò
che un altro dice loro; la direzione spirituale invece
deve tendere a formare persone di criterio. E il criterio
implica maturità, fermezza nelle proprie convinzioni,
sufficiente conoscenza della dottrina, delicatezza di
spirito, educazione della volontà.
È
importante che gli sposi acquistino un chiaro senso della
dignità della loro vocazione; che sappiano di esser
stati chiamati da Dio a raggiungere l'amore divino attraverso
l'amore umano; che sono stati scelti, fin dall'eternità,
per cooperare con il potere creatore di Dio nella procreazione
e poi nell'educazione dei figli; che il Signore chiede
che facciano della loro casa e della loro vita di famiglia
una testimonianza di tutte le virtù cristiane.
Il
matrimonio - non mi stancherò mai di ripeterlo
- è un cammino divino, grande e meraviglioso; e
come tutto ciò che abbiamo di divino in noi, ha
manifestazioni concrete di corrispondenza alla grazia,
di generosità, di donazione, di servizio. L'egoismo
in ciascuna delle sue forme, si oppone all'amore di Dio
che deve dominare nella nostra vita. Questo è un
punto fondamentale, che dev'essere tenuto ben presente
a proposito del matrimonio e del numero dei figli.
D
- Ci sono donne che, avendo già un certo numero
di figli, non osano comunicare ai parenti e agli amici
l'arrivo di un altro bambino. Temono le critiche di quelli
che pensano che, dal momento che esiste la "pillola",
la famiglia numerosa è sorpassata. È chiaro
che oggigiorno può essere difficile tirar su una
famiglia con parecchi figli. Che cosa ci può dire
al riguardo?
R
- Io benedico quei genitori che, ricevendo con gioia la
missione che Dio ha loro affidata, hanno molti figli.
E invito gli sposi a non inaridire le sorgenti della vita,
ad aver senso soprannaturale e coraggio per far crescere
una famiglia numerosa, se Dio la concede.
Quando
esalto la famiglia numerosa, non mi riferisco a quella
che è conseguenza di mere relazioni fisiologiche;
mi riferisco alla famiglia che nasce dall'esercizio delle
virtù cristiane, che ha un senso elevato della
dignità della persona e sa che dare figli a Dio
non vuol dire soltanto metterli al mondo, ma richiede
anche tutto un lungo lavoro di educazione: dar loro la
vita è la prima cosa, ma non è tutto.
Ci
possono essere dei casi concreti in cui è volontà
di Dio - manifestata attraverso mezzi ordinari - che una
famiglia sia piccola. Ma sono criminali, anticristiane
e infraumane tutte le teorie che fanno della limitazione
delle nascite un ideale o un dovere universale o semplicemente
generale.
Non
è altro che contraffare e pervertire la dottrina
cristiana far leva su di un preteso spirito post-conciliare
per attaccare la famiglia numerosa. Il Concilio Vaticano
II ha proclamato che "tra i coniugi che soddisfano
alla missione loro affidata da Dio, sono da ricordare
in modo particolare quelli che, con decisione prudente
e di comune accordo, accettano con grande animo anche
un più gran numero di figli da educare convenientemente"
(Cost. past. Gaudium et spes, n. 50).
Paolo
VI, poi, in un'allocuzione del 12 febbraio 1966, commentava:
"Che il Concilio Vaticano II appena concluso diffonda
tra gli sposi cristiani questo spirito di generosità
per dilatare il nuovo Popolo di Dio... Ricordiamo sempre
che la dilatazione del Regno di Dio e la possibilità
di penetrazione della Chiesa nell'umanità, per
la sua salvezza eterna e terrena, è affidata anche
alla loro generosità".
In
sé, il numero dei figli non è decisivo:
averne molti o pochi non basta perché una famiglia
sia più o meno cristiana. Ciò che conta
è la rettitudine con cui si vive la vita matrimoniale.
Il vero amore reciproco trascende la comunione di vita
tra marito e moglie, e si estende ai suoi frutti naturali,
i figli.
Invece
l'egoismo finisce per degradare questo amore al livello
della semplice soddisfazione dell'istinto, e distrugge
il rapporto che unisce genitori e figli. È difficile
sentirsi buon figlio - vero figlio - dei propri genitori
quando si possa pensare di essere venuto al mondo contro
la loro volontà, cioè di essere nato non
da un amore degno di questo nome, ma da un imprevisto
o da un errore di calcolo.
Dicevo
che in sé il numero dei figli non è determinante.
Tuttavia vedo con chiarezza che gli attacchi alle famiglie
numerose provengono dalla mancanza di fede: sono il prodotto
di un ambiente sociale incapace di comprendere la generosità,
e che pretende di nascondere il proprio egoismo e certe
pratiche inconfessabili con motivazioni apparentemente
altruiste.
E
così, paradossalmente, i Paesi dove si fa più
propaganda del controllo delle nascite, e dai quali tale
pratica viene imposta ad altri Paesi, sono proprio quelli
che hanno raggiunto un più alto tenore di vita.
Si potrebbero forse considerare seriamente i loro argomenti
di natura economica e sociale, qualora tali argomenti
li muovessero a rinunziare a una parte dei beni opulenti
di cui godono, a favore dei bisognosi.
Ma
finché questo non avviene, è difficile non
pensare che in realtà i veri moventi di tali argomentazioni
sono l'edonismo e l'ambizione di dominio politico, il
neocolonialismo demografico.
Non
ignoro i grandi problemi che tormentano l'umanità,
né le concrete difficoltà in cui può
imbattersi una determinata famiglia; vi penso anzi con
frequenza, e mi si riempie di pietà quel cuore
di padre che come cristiano e come sacerdote sono obbligato
ad avere. Ma non è lecito cercare la soluzione
per simili vie.
Non
capisco come possano esserci cattolici - o addirittura
sacerdoti - che da anni consigliano, con coscienza tranquilla,
l'uso della pillola per evitare la concezione. Non si
possono ignorare gli insegnamenti pontifici con tanta
leggerezza. Né si può addurre a pretesto
- come fanno costoro, con incredibile superficialità
- che il Papa quando non parla ex cathedra è un
semplice "dottore privato" soggetto all'errore.
Ci vuole proprio una smisurata arroganza per pensare che
il Papa si sbagli e loro no!
Oltretutto,
costoro dimenticano che il Romano Pontefice non è
solo un dottore - infallibile, quando espressamente lo
dice -, ma anche il supremo legislatore. E nel caso in
questione, ciò che in termini inequivocabili ha
deciso l'attuale pontefice Paolo VI è che si devono
seguire obbligatoriamente, in questo campo così
delicato, tutte le disposizioni del santo pontefice Pio
XII, di venerata memoria, perché continuano ad
essere vigenti; e Pio XII si limitò a permettere
certi accorgimenti naturali - non una pillola - per evitare
la concezione in casi isolati e ardui. Consigliare il
contrario è dunque una disobbedienza grave al Santo
Padre, e in materia grave.
Potrei
scrivere un grosso libro sulle tristi conseguenze che
l'uso dell'uno o dell'altro dei vari anticoncettivi comporta
in ogni campo: distruzione dell'amore coniugale - marito
e moglie non si guardano come sposi, ma come complici
-, infelicità, infedeltà, squilibri spirituali
e mentali, innumerevoli danni per i figli, perdita della
pace del matrimonio...
Ma
non lo ritengo necessario: preferisco limitarmi a obbedire
al Papa. Se un giorno il Sommo Pontefice decidesse che
per evitare la concezione è lecito l'uso di una
certa medicina, io agirei in conformità alle parole
del Santo Padre: attenendomi alle norme pontificie e a
quelle della teologia morale, prenderei in considerazione,
caso per caso, gli evidenti pericoli cui accennavo, e
darei a ciascuno in coscienza il mio consiglio.
In
ogni modo terrei sempre conto che questo nostro mondo
di oggi lo salveranno non coloro che pretendono di narcotizzare
la vita dello spirito e ridurre tutto a questioni economiche
o di benessere materiale; ma quelli che sanno che la norma
morale è in funzione del destino eterno dell'uomo:
quelli cioè che hanno fede in Dio e ne accettano
generosamente le esigenze, diffondendo in coloro che li
circondano il senso trascendente della nostra vita sulla
terra.
Questa
certezza di fede porta non già a incoraggiare l'evasione,
ma a procurare efficacemente che tutti abbiano i necessari
mezzi materiali, che per tutti ci sia lavoro, che nessuno
si veda ingiustamente limitato nella propria vita famigliare
e sociale.
D
- L'infecondità matrimoniale, per la frustrazione
che può provocare, talvolta è fonte di discordia
e di incomprensione. A suo giudizio, qual è il
senso che devono dare alla loro unione gli sposi cristiani
che non hanno prole?
R
- In primo luogo direi loro che non devono darsi per vinti
con troppa facilità: per prima cosa, bisogna che
implorino Dio di concedere loro discendenza, di benedirli
- se questa è la sua volontà - come benedisse
i Patriarchi del Vecchio Testamento; e poi è bene
ricorrere a un buon medico, sia lei che lui.
Se,
nonostante tutto, il Signore non dà loro dei figli,
non devono vedere in questo alcuna frustrazione: devono
essere contenti di scoprire in questo stesso fatto la
volontà di Dio nei loro confronti. Molte volte
il Signore non dà figli perché "chiede
di più". Chiede che lo stesso sforzo e la
stessa delicata dedizione vengano posti al servizio del
nostro prossimo, senza la legittima soddisfazione umana
d'aver avuto figli: non c'è quindi motivo per sentirsi
falliti e tristi.
Se
i coniugi hanno vita interiore, comprenderanno che Dio
li spinge a fare della loro vita un generoso servizio
cristiano, un apostolato che è diverso da quello
che realizzerebbero coi loro figli, ma altrettanto meraviglioso.
Si
guardino intorno: scopriranno immediatamente persone che
hanno bisogno di aiuto, di carità e di affetto.
E poi ci sono mille iniziative apostoliche in cui possono
lavorare. Se sono capaci di dedicarsi con tutto il cuore
a questo compito, donandosi agli altri con generosità
e dimenticando sé stessi, avranno una splendida
fecondità, una paternità spirituale che
colmerà la loro anima di autentica pace.
Le
soluzioni concrete saranno diverse in ogni singolo caso,
ma in fondo tutte si riducono a occuparsi degli altri
con desiderio di servizio, con amore. Dio premia sempre
con una gioia profonda la generosa umiltà di chi
sa non pensare a sé stesso.
D
- Ci sono casi in cui la moglie - per una ragione o per
l'altra - è separata dal marito, in situazioni
degradanti ed insostenibili. Sono casi in cui è
difficile accettare l'indissolubilità del vincolo
coniugale. Queste donne separate dal marito si lamentano
che si neghi loro la possibilità di costruirsi
un nuovo focolare. Qual è la sua risposta in casi
del genere?
R
- Direi loro, con piena comprensione della loro sofferenza,
che anche in questa situazione esse possono vedere la
volontà di Dio, che non è mai crudele, perché
Dio è un Padre amoroso. Può darsi che per
un certo tempo la situazione sia particolarmente dura,
ma, se ricorrono al Signore e alla sua Madre benedetta,
non mancherà l'aiuto della grazia.
L'indissolubilità
del matrimonio non è un capriccio della Chiesa,
e neppure una semplice legge ecclesiastica positiva: è
un precetto della legge naturale e del diritto divino,
e risponde perfettamente alla nostra natura e all'ordine
soprannaturale della grazia.
Per
questo, nella stragrande maggioranza dei casi, l'indissolubilità
è condizione indispensabile per la felicità
dei coniugi e per la sicurezza anche spirituale dei figli.
In ogni caso - pure quando si diano le circostanze dolorose
di cui parliamo -, la docile accettazione della Volontà
di Dio porta con sé una soddisfazione profonda,
insostituibile. Non si tratta di una specie di ripiego,
di una ricerca di consolazione: è la stessa essenza
della vita cristiana.
Se
queste donne hanno dei figli a loro carico, devono vedere
in questo fatto una continua richiesta di amorosa e materna
dedizione, più che mai necessaria per sopperire
in queste creature alle deficienze di un focolare diviso.
Devono anche capire, con generosità, che quella
stessa indissolubilità che per loro comporta un
sacrificio, è per la maggior parte delle famiglie
la salvaguardia della loro integrità, un qualcosa
che nobilita l'amore degli sposi e impedisce che i figli
si trovino nell'abbandono.
Lo
stupore di fronte all'apparente durezza del precetto cristiano
dell'indissolubilità non è una novità:
gli stessi Apostoli si meravigliarono quando Gesù
ne diede loro conferma. Può apparire un peso, un
giogo; ma proprio Cristo ha detto che il suo giogo è
soave e il suo peso è leggero.
D'altronde,
pur riconoscendo l'inevitabile durezza di parecchie situazioni
- che in non pochi casi si sarebbero potute e dovute evitare
-, non bisogna drammatizzare eccessivamente. La vita di
una donna in queste condizioni è veramente più
dura di quella di una donna maltrattata, o di quella di
chi deve sopportare qualcuna delle grandi sofferenze fisiche
o morali che la vita comporta?
Ciò
che veramente rende infelice una persona - o un'intera
società - è l'affannosa ricerca del benessere,
la pretesa di eliminare a ogni costo qualsiasi contrarietà.
La vita presenta mille aspetti diversi, situazioni svariatissime,
difficili alcune, altre facili forse solo in apparenza.
Ciascuna
di esse porta con sé un seme di grazia, una chiamata
di Dio unica: sono occasioni irripetibili di operare e
di offrire la testimonianza divina della carità.
A chi sente il peso di una situazione difficile, io consiglierei
anche di provare a dimenticare un po' i suoi problemi
e preoccuparsi di quelli degli altri: così,facendo
avrà più pace e, soprattutto, si santificherà.
D
- Uno dei beni fondamentali della famiglia consiste in
una stabile pace domestica. Purtroppo però non
è raro che motivi di carattere politico o sociale
seminino la divisione in una famiglia. Come pensa che
si possano superare questi conflitti?
R
- La mia risposta non può essere che una: convivere,
comprendere, scusare. Il fatto che uno la pensi in maniera
diversa dalla mia - specie quando si tratta di cose che
sono oggetto di libera opinione - non può assolutamente
giustificare un contegno ostile, e neppure freddo o indifferente.
La mia fede cristiana mi dice che la carità va
vissuta con tutti, anche con coloro che non hanno la grazia
di credere in Gesù Cristo.
Figuratevi
dunque se non si deve vivere la carità quando,
uniti da un medesimo sangue e da una medesima fede, si
diverge in cose opinabili! Dirò di più:
dato che in questo terreno nessuno può pretendere
di essere in possesso della verità assoluta, un
reciproco rapporto affettuoso è un buon sistema
per imparare dagli altri quello che essi ci possono insegnare;
e per fare sì che gli altri, se vogliono, imparino
a loro volta qualcosa da quanti vivono con loro. E sempre
c'è un "qualcosa".
Non
è cristiano e neppure umano che una famiglia si
divida per questioni del genere. Quando si capisce fino
in fondo il valore della libertà, quando si ama
appassionatamente questo dono divino, si ama il pluralismo
che la libertà necessariamente comporta.
Posso
addurre l'esempio di ciò che avviene nell'Opus
Dei, che è una grande famiglia di persone unite
da un medesimo fine spirituale. In tutto ciò che
non è di fede, ognuno pensa e agisce come vuole,
con pienissima libertà e con pienissima responsabilità
personale.
Il
pluralismo, che è la conseguenza logica e sociologica
di questo fatto, non costituisce in modo alcuno un problema
per l'Opera: anzi, tale pluralismo è una manifestazione
di buono spirito. Appunto perché il pluralismo
non è temuto, ma amato come legittima conseguenza
della libertà personale, le diverse opinioni dei
soci non impediscono nell'Opus Dei la massima carità
nei rapporti reciproci e la mutua comprensione. Libertà
e carità: non è per caso che il discorso
ci riporta sempre a questi due princìpi. Si tratta
infatti di due condizioni essenziali: vivere con la libertà
che Cristo ci ha conquistato, e vivere la carità
che Egli ci ha dato come comandamento nuovo.
D
- Lei ha accennato al grande valore dell'unità
famigliare, e questo mi dà lo spunto per un'altra
domanda: come mai l'Opus Dei non organizza attività
di formazione spirituale in cui partecipino insieme marito
e moglie?
R
- In questa come in tante altre cose, noi cristiani abbiamo
la possibilità di scegliere fra soluzioni diverse,
secondo le preferenze e i criteri di ciascuno; nessuno
può pretendere di imporci un metodo unico. Bisogna
rifuggire, come dalla peste, da certi modi di impostare
la pastorale e in generale l'apostolato, che sembrano
una nuova edizione, riveduta e accresciuta, del partito
unico nella vita religiosa.
So
dell'esistenza di gruppi cattolici che organizzano ritiri,
spirituali e altre attività di formazione per coppie
di sposi. Benissimo: usando della loro libertà,
facciano quello che ritengono più opportuno; e
vadano pure a queste riunioni quanti trovano in esse un
mezzo che li aiuta a vivere meglio la loro vocazione cristiana.
Ma ritengo che questa non sia l'unica possibilità,
e neppure è cosa scontata che si tratti della migliore.
Ci
sono molti aspetti della vita ecclesiale che gli sposi,
o anche tutta la famiglia, possono e a volte devono vivere
insieme, come per esempio la partecipazione al sacrificio
eucaristico e ad altri atti di culto.
Penso
però che certe attività di formazione spirituale
riescono più efficaci quando marito e moglie vi
assistono separatamente; da un lato, si sottolinea meglio
il carattere essenzialmente personale della santificazione,
della lotta ascetica, dell'unione con Dio, cose tutte
che riverberano sugli altri, ma in cui la coscienza di
ciascuno non può essere sostituita; dall'altro
lato è più facile adattare la formazione
alle esigenze e alle necessità personali di ciascuno
e anche alle diverse psicologie.
Ciò
non vuol dire che in queste attività si prescinda
dallo stato matrimoniale dei partecipanti: niente di più
lontano dallo spirito dell'Opus Dei.
Sono
ormai quarant'anni che a voce e per iscritto, dico che
ogni uomo, ogni donna, deve santificarsi nella sua vita
ordinaria, nelle condizioni concrete della sua esistenza
quotidiana; e che pertanto gli sposi devono santificarsi
vivendo con perfezione i loro obblighi famigliari. Nei
ritiri spirituali e nelle altre attività di formazione
organizzate dall'Opus Dei a cui prendono parte persone
sposate, si cerca sempre di fare in modo che esse prendano
coscienza della dignità della propria vocazione
matrimoniale, e si preparino, con l'aiuto di Dio, a viverla
meglio.
In
molti aspetti, le esigenze e le manifestazioni pratiche
dell'amore coniugale sono diverse per l'uomo e per la
donna. Con mezzi di formazione specifici li si può
aiutare efficacemente a scoprire tali aspetti nella realtà
della loro vita. La separazione per alcune ore o per qualche
giorno li induce quindi a essere più uniti e ad
amarsi di più e meglio per tutto il resto del tempo:
con un amore pieno anche di rispetto.
Torno
a ripetere che non abbiamo la pretesa che il nostro modo
di agire sia l'unico valido e che tutti lo debbano adottare.
Mi pare solo che dia ottimi risultati e che ci siano ragioni
solide - oltre a una lunga esperienza - che consigliano
di fare cosi; ma non mi oppongo all'opinione contraria.
D'altronde
se nell'Opus Dei si segue questo criterio per determinate
iniziative di formazione spirituale, per altre e svariate
attività le coppie di sposi partecipano e collaborano
assieme. Si pensi, per esempio, all'apostolato che si
fa con i genitori degli alunni delle scuole dirette da
soci del- l'Opus Dei; o alle riunioni, conferenze, tridui,
ecc. dedicati in particolare ai genitori degli studenti
ospiti nelle Residenze dirette dall'Opera.
Come
vede, quando il carattere dell'iniziativa lo richiede,
marito e moglie vi partecipano assieme. Ma questo tipo
di attività è diverso da quello che mira
direttamente alla formazione spirituale personale.
D
- Continuando il discorso sulla vita famigliare, vorrei
ora farle una domanda sull'educazione dei figli e i rapporti
fra genitori e figli. Il mutamento della situazione famigliare
ai nostri giorni conduce, a volte, a sperimentare una
certa difficoltà nel comprendersi, e può
addirittura nascere l'incomprensione, verificandosi così
il cosiddetto "conflitto di generazioni". Come
lo si può superare?
R
- Il problema è vecchio, anche se oggi lo si costata
forse con maggiore frequenza o in modo più acuto,
dato il rapido ritmo di evoluzione che caratterizza la
società attuale. È perfettamente comprensibile
e naturale che i giovani e gli adulti vedano le cose in
maniera diversa: è successo sempre così.
Ci sarebbe da meravigliarsi, semmai, che un adolescente
ragioni come un adulto.
Tutti
abbiamo provato moti di ribellione nei riguardi degli
adulti, quando cominciavamo a formarci autonomamente un
criterio; e tutti, man mano che passavano gli anni, abbiamo
anche capito che i nostri genitori avevano ragione in
tante cose, frutto della loro esperienza e del loro affetto.
Spetta pertanto innanzitutto ai genitori - che hanno già
attraversato l'età difficile - favorire la comprensione,
con flessibilità, con prontezza di spirito, evitando
con un amore intelligente ogni possibile conflitto.
Consiglio
sempre i genitori di cercare di farsi amici dei loro figli.
Si può sempre armonizzare l'autorità paterna,
necessaria all'educazione, con un sentimento di amicizia
che porta a mettersi in qualche modo allo stesso livello
dei figli.
I ragazzi - anche quelli che sembrano meno docili e affezionati
- desiderano sempre in cuor loro questa vicinanza, questa
fraternità con i genitori. Il segreto del successo
è sempre la fiducia: che i genitori sappiano educare
in un clima di famigliarità, senza mai dare un'impressione
di sfiducia; sappiano concedere la giusta libertà
e insegnino ad amministrarla con responsabile autonomia.
È preferibile che qualche volta si lascino ingannare:
la fiducia data ai figli fa sì che essi stessi
provino vergogna di averne abusato e si correggano; se
invece non hanno libertà, se vedono che non c'è
fiducia in loro, si sentiranno spinti ad agire sempre
con sotterfugi.
L'amicizia
di cui parlo - il sapersi mettere allo stesso livello
dei figli ed aiutarli a parlare fiduciosamente dei loro
piccoli problemi - rende possibile una cosa che ritengo
di vitale importanza: che siano i genitori a far conoscere
ai figli l'origine della vita, in modo graduale, adattandosi
alla loro mentalità e alla loro capacità
di capire, prevenendo un po' la loro naturale curiosità;
bisogna evitare che i ragazzi avvolgano di malizia questa
materia, e che apprendano cose - in sé nobili e
sante - attraverso le malevoli confidenze dei compagni.
Tutto
ciò costituisce di solito un passo importante nel
consolidamento dell'amicizia tra genitori e figli perché
impedisce che si crei una frattura nel momento stesso
in cui comincia a destarsi la vita morale.
D'altra
parte, i genitori devono cercare di conservare giovane
il loro cuore, per riuscire così ad accogliere
con simpatia le giuste aspirazioni dei figli e perfino
le loro stravaganze.
La
vita cambia e ci sono parecchie cose nuove che magari
a noi non piacciono - è pure possibile che oggettivamente
non siano migliori delle vecchie -, ma che non sono cattive:
si tratta semplicemente di modi diversi di vivere; ed
è tutto qui. In più di un caso i conflitti
sorgono perché si dà importanza a piccolezze
su cui invece, con un po' di prospettiva e di senso dell'umorismo,
si può transigere.
Non
tutto , però, dipende dai genitori. Anche i figli
devono contribuire con qualche cosa. I giovani hanno sempre
avuto una grande capacità di entusiasmo per le
cose nobili, per gli ideali più alti, per tutto
ciò che è autentico.
È bene aiutarli a capire la bellezza semplice -
a volte molto silenziosa, e sempre rivestita di naturalezza
- che c'è nella vita dei loro genitori. Bisogna
aiutarli a rendersi conto (senza farglielo pesare) dei
sacrifici compiuti per loro, dell'abnegazione - spesso
eroica -con cui hanno tirato avanti la famiglia.
È
bene che anche i figli imparino a non drammatizzare, a
non fare la parte degli incompresi. Non dimentichino che
saranno sempre in debito verso i genitori, e che la loro
corrispondenza - non potranno mai pagare quello che devono
- deve essere fatta di venerazione, di affetto grato,
filiale.
D'altronde,
siamo sinceri: la famiglia unita è la cosa normale.
Ci sono screzi, differenze, ma sono cose scontate e che,
in un certo senso, contribuiscono a dare sapore alle nostre
giornate.
Sono cose senza importanza, che il tempo fa superare;
rimane, invece, solo ciò che è stabile,
cioè l'amore, l'amore vero, fatto di sacrificio,
non di finzione, che porta a preoccuparsi gli uni degli
altri, a intuire i piccoli problemi trovando con delicatezza
la soluzione. E siccome è normale che le cose vadano
così, la stragrande maggioranza delle persone mi
ha capito molto bene quando, sin dagli anni venti, mi
ha sentito chiamare "dolcissimo precetto" il
quarto comandamento del Decalogo.
D
- Reagendo forse a un'educazione religiosa coercitiva,
basata talvolta solo su poche pratiche abitudinarie ed
esteriori, parte della gioventù odierna si è
allontanata quasi totalmente dalla pietà cristiana,
considerandola null'altro che bigotteria. Come si può
risolvere questo problema, a suo parere?
R
- La soluzione è implicitamente contenuta nella
domanda: si deve insegnare (prima con l'esempio, poi con
la parola) in che cosa consiste la vera pietà.
La bigotteria non è che una desolante caricatura
pseudo-spirituale, frutto quasi sempre di mancanza di
dottrina e anche di una certa deformazione umana: è
logico che risulti ripugnante a chi ama l'autenticità
e la sincerità.
Con
gioia costato che la pietà cristiana attecchisce
nel cuore dei giovani - quelli di oggi come quelli di
quarant'anni fa - quando la vedono incarnata come vita
sincera;
-
quando capiscono che pregare è parlare con il Signore
come si parla con un padre, con un amico: non nell'anonimato,
bensì con un rapporto personale, in una conversazione
a tu per tu;
-
quando si riesce a far echeggiare nelle loro anime quelle
parole di Gesù, che sono un invito all'incontro
fiducioso: Vos autem dixi amicos (Gv 15, 15), vi ho chiamati
amici;
-
quando si rivolge un deciso appello alla loro fede, affinché
vedano che il Signore è lo stesso "ieri, oggi
e sempre" (Eb 13, 8).
D'altra
parte è necessario che si rendano conto che questa
pietà semplice e sincera esige anche l'esercizio
delle virtù umane, e che pertanto non può
ridursi a qualche pratica di devozione settimanale o quotidiana:
essa deve impregnare tutta la vita, deve dare un senso
al lavoro e al riposo, all'amicizia, allo svago, a tutto.
Non
possiamo essere figli di Dio solo di quando in quando,
anche se ci devono essere alcuni momenti particolarmente
riservati a considerare e approfondire la realtà
e il senso della filiazione divina, che è il nocciolo
della pietà.
Ho
detto prima che i giovani capiscono bene tutto questo.
Ora aggiungo che chi cerca di vivere tutto ciò,
si sente sempre giovane. Il cristiano, anche di ottant'anni,
quando vive in unione con Cristo. può veramente
assaporare le parole che si pronunciano ai piedi dell'altare:
"Salirò all'altare di Dio, a Dio che allieta
la mia giovinezza" (Sal 42,4).
D
- Lei quindi crede che sia importante educare fin da piccoli
i bambini alla vita di pietà? Pensa che sia bene
fare in famiglia alcune pratiche di pietà?
R
- Penso che sia proprio questo il cammino migliore per
dare ai figli un'autentica formazione cristiana. La Sacra
Scrittura ci parla delle famiglie dei primi cristiani
- la "Chiesa domestica", dice San Paolo (1 Cor
16, 19) - alle quali la luce del Vangelo dava un nuovo
slancio, una nuova vita.
In
tutti gli ambienti cristiani si sa per esperienza quali
buoni risultati dia questa naturale e soprannaturale iniziazione
alla vita di pietà, fatta nel calore del focolare.
Il bambino apprende a situare il Signore tra i primi e
più fondamentali affetti; impara a trattare Dio
come Padre, la Madonna come Madre; impara a pregare seguendo
l'esempio dei genitori. Quando tutto ciò si comprende,
appare evidente il grande compito apostolico che i genitori
sono chiamati a svolgere; e il loro dovere di vivere sinceramente
la vita di pietà, per poterla trasmettere - più
che insegnare - ai figli.
I
mezzi? Ci sono delle pratiche di pietà - poche,
brevi e abituali - che le famiglie cristiane hanno sempre
adottato, e che per me sono meravigliose: la benedizione
a tavola, il rosario recitato tutti assieme - anche se
oggi non manca chi attacca questa solidissima devozione
mariana -, le preghiere personali al mattino e alla sera.
Si tratterà di consuetudini che possono variare
a seconda dei luoghi; ma credo che si debba sempre promuovere
qualche pratica di pietà da vivere insieme, in
famiglia, in modo semplice e naturale, senza bigotteria.
In
tal modo otterremo che Dio non venga considerato come
un estraneo che si va a visitare una volta alla settimana,
la domenica, in chiesa; che invece lo si veda e lo si
tratti come è nella realtà: anche in famiglia,
perché, come ha detto il Signore, "dove sono
due o tre riuniti in nome mio, io sono in mezzo a loro"
(Mt 18,20).
È
con gratitudine e orgoglio di figlio che vi dico che continuo
a recitare ad alta voce mattina e sera, le preghiere che
ho imparato da bambino dalle labbra di mia madre. Mi conducono
a Dio e mi fanno sentire l'affetto con cui mi si insegnò
a fare i primi passi sulla strada della vita cristiana;
così, offrendo al Signore il giorno che comincia,
o ringraziandolo per quello che finisce, chiedo a Dio
di aumentare in Cielo la felicità di coloro che
amo di più, e di tenerci poi sempre uniti insieme
nella gloria.
D
- Se permette, continuiamo a parlare dei giovani. Per
mezzo della rubrica Giovani della nostra rivista, ci giungono
molti dei loro problemi. Uno dei più frequenti
si riferisce al fatto che a volte i genitori impongono
loro il proprio parere in scelte decisive.
Questo
avviene tanto nella scelta dell'indirizzo degli studi
o della professione, quanto nella scelta del fidanzato,
e più ancora quando si tratta di seguire la chiamata
di Dio per dedicarsi al servizio delle anime. Un simile
atteggiamento da parte dei genitori ammette giustificazioni?
Non è piuttosto una violazione della libertà
necessaria per giungere alla maturità personale?
R
- È chiaro che le scelte che decidono il corso
di una vita vanno prese personalmente da ciascuno, con
libertà, senza nessun tipo di coercizione o di
pressione.
Questo
non vuol dire che non sia di solito necessario l'intervento
di altre persone. Proprio perché si tratta di passi
decisivi che riguardano tutta la vita e dato che la felicità
dipende in gran parte dal modo in cui si compiono, è
necessario agire con serenità evitare la precipitazione,
procedere con senso di responsabilità e prudenza.
Gran
parte della prudenza consiste appunto nel chiedere consiglio:
sarebbe presunzione - che di solito si paga cara - ritenersi
in grado di decidere senza la grazia di Dio e senza il
calore e la luce che altre persone, soprattutto i nostri
genitori, ci possono dare.
I
genitori possono e devono fornire ai figli un aiuto prezioso,
aprendo loro nuovi orizzonti, comunicando la propria esperienza,
facendoli riflettere, in modo che non si lascino trasportare
da stati d'animo passeggeri, e avviandoli a una valutazione
realistica delle cose. Quest'aiuto verrà fornito
dai genitori personalmente, con i loro consigli, oppure
invitando i figli a rivolgersi a persone competenti: a
un amico leale e sincero, a un sacerdote preparato e zelante,
a un esperto di orientamento professionale.
Il
consiglio non toglie però la libertà, ma
fornisce elementi di giudizio e quindi allarga le possibilità
di scelta, evitando l'influenza di fattori irrazionali
nella decisione. Dopo aver prestato ascolto al parere
degli altri, e aver ponderato ogni cosa, arriva il momento
della scelta, e allora nessuno ha il diritto di far violenza
alla libertà. I genitori devono fare attenzione
a non cedere alla tentazione di proiettarsi indebitamente
nei propri figli - di costruirli secondo i propri gusti
-, perché devono rispettare le inclinazioni e le
capacità che Dio dà a ciascuno.
Di
solito quando esiste vero amore, tutto questo non è
difficile. E anche nel caso estremo in cui il figlio prende
una decisione che i genitori ritengono a ragione errata
e prevedibile fonte di infelicità, nemmeno allora
la soluzione sta nella violenza, ma nel comprendere e
- più di una volta - nel saper rimanere al suo
fianco per aiutarlo a superare le difficoltà e
trarre eventualmente da quel male tutto il bene possibile.
I
genitori che amano davvero i loro figli e cercano sinceramente
il loro bene, dopo aver offerto i loro consigli e le loro
riflessioni, devono farsi da parte delicatamente, in modo
che nulla si opponga alla libertà, a questo grande
bene che rende l'uomo capace di amare e di servire Dio.
Devono tener presente che Dio stesso ha voluto essere
amato e servito in libertà, e rispetta sempre le
nostre decisioni personali: "Dio lasciò l'uomo
- dice la Bibbia - arbitro di sé stesso" (Sir
15, 14).
Ancora
qualche parola per rispondere esplicitamente all'ultima
parte della domanda: la decisione di dedicarsi al servizio
della Chiesa e delle anime. Quando dei genitori cattolici
non comprendono tale vocazione, ritengo che abbiano fallito
nella loro missione di formare una famiglia cristiana,
e che non si siano nemmeno resi conto della dignità
che il cristianesimo conferisce alla loro vocazione matrimoniale.
Comunque, la mia esperienza nell'Opus Dei è molto
positiva. Sono solito dire ai soci dell'Opera che il novanta
per cento della loro vocazione lo devono ai genitori che
li hanno saputi educare insegnando loro a essere generosi.
Posso dirvi che, nella stragrande maggioranza dei casi
- per non dire sempre -, i genitori non solo rispettano,
ma amano la decisione dei figli e vedono subito nell'Opera
un ampliamento della loro famiglia. Questa è una
delle mie gioie più grandi, ed è un'altra
prova che per essere molto divini bisogna essere anche
molto umani.
D
- Oggi c'è chi sostiene la teoria che l'amore giustifica
tutto, e conclude che il fidanzamento è una specie
di "matrimonio di prova". Pensano che sia una
cosa inautentica e retrograda non seguire le cosiddette
"esigenze dell'amore". Che cosa pensa di questo
atteggiamento?
R
- Penso quello che deve pensare una persona onesta specialmente
un cristiano: e cioè che si tratta di un atteggiamento
indegno dell'uomo e che avvilisce l'amore umano confondendolo
con l'egoismo e con il piacere.
Chiamano
retrogrado chi non fa o non pensa così? Retrogrado
è piuttosto chi retrocede ai tempi della giungla
e non riconosce altro impulso che l'istinto. Il fidanzamento
dev'essere un'occasione per approfondire l'affetto e la
conoscenza reciproca, e, come ogni scuola di amore, dev'essere
ispirato non dall'ansia di possesso, ma dallo spirito
di dedizione, di comprensione, di rispetto, di delicatezza.
Proprio
per questo volli regalare all'Università di Navarra,
poco più di un anno fa, una statua della Madonna,
Madre del Bell'Amore, affinché i ragazzi e le ragazze
che studiano in quell'ateneo imparassero da Lei la nobiltà
dell'amore, anche dell'amore umano.
Matrimonio
di prova? Come conosce poco l'amore chi parla cosi! L'amore
è una realtà ben più sicura, più
vera, più umana. Non lo si può trattare
come un prodotto commerciale, di cui si fa la prova e
poi si tiene o si butta via, a seconda del capriccio,
della comodità o dell'interesse.
Questa
mancanza di criterio è così deplorevole
che non c'è nemmeno bisogno di condannare chi pensa
o agisce in questo modo, perché si condanna da
sé all'infecondità, alla tristezza, all'isolamento
desolante nel giro di pochi anni.
Non
posso che pregare molto per costoro, amarli con tutta
l'anima e cercare di far loro capire che hanno sempre
aperta davanti a sé la strada del ritorno a Gesù;
se ci mettono impegno, potranno essere santi, cristiani
coerenti, perché non mancherà loro né
il perdono né la grazia del Signore. Solo allora
capiranno veramente che cos'è l'amore: conosceranno
l'Amore divino e la nobiltà dell'amore umano; proveranno
che cos'è la pace, la gioia, la fecondità.
D
- Un grave problema femminile è quello delle donne
nubili; ci riferiamo a quelle che, pur avendo vocazione
matrimoniale, non giungono a sposarsi. Allora si domandano:
che cosa ci stiamo a fare al mondo? Lei che risposta darebbe?
R
- Che cosa stiamo a fare al mondo? Ci stiamo per amare
Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima, e per far
sì che questo amore arrivi a tutte le creature.
Vi pare poco? Dio non abbandona nessun'anima a un destino
cieco: per tutte ha un progetto, una chiamata, una vocazione
personalissima, intrasferibile.
Il
matrimonio è un cammino divino, una vocazione.
Ma non è l'unico cammino, non è la sola
vocazione. I piani di Dio su ogni donna non sono legati
necessariamente al matrimonio. Hanno la vocazione al matrimonio
e non arrivano a sposarsi?
Qualche
volta sarà vero, e forse allora sarà stato
1'egoismo o l'amor proprio a impedire che si compisse
la chiamata di Dio; ma altre volte - forse la maggioranza
dei casi - queste circostanze possono essere segno che
il Signore non ha dato loro una vera vocazione matrimoniale.
Sì: amano i bambini; sentono di poter essere delle
buone madri, capaci di donare tutto il cuore, fedelmente,
al marito e ai figli.
Ma
questo è quello che sentono tutte le donne, anche
quelle che per vocazione divina non si sposano, pur potendolo
fare, per dedicarsi al servizio di Dio e delle anime.
Non
si sono sposate: ebbene, continuino ad amare la Volontà
del Signore, cercando l'intimità con il Cuore amabilissimo
di Gesù, che non abbandona nessuno, che è
sempre fedele, che si prende cura di noi durante tutta
la vita e ci offre in dono se stesso, già ora,
e per sempre.
Inoltre
la donna può compiere la sua missione - come donna,
con tutte le caratteristiche femminili, comprese quelle
affettive della maternità - in àmbiti diversi
da quello della propria famiglia: in altre famiglie, nella
scuola, in opere assistenziali, in mille posti.
A
volte la società è molto dura - molto ingiusta
- nei confronti delle donne che chiama zitelle. Ci sono
invece donne nubili che diffondono intorno a sé
gioia, pace, efficacia: donne capaci di dedicarsi a un
nobile servizio degli altri e di essere madri, nella profondità
del proprio spirito, in modo più reale che non
molte altre, che sono madri solo fisiologicamente.
D
- Le domande precedenti riguardavano il fidanzamento;
ora vorrei che ci soffermassimo sul matrimonio: che consigli
darebbe alla donna sposata affinché, con il passare
degli anni, la sua vita matrimoniale continui a essere
felice senza cadere nella monotonia? Forse la cosa può
sembrare poco importante, ma a noi scrivono molte lettrici
interessate all'argomento.
R
- A me sembra senz'altro una questione importante; ritengo
quindi importanti anche le possibili soluzioni, benché
possano avere un'apparenza modesta.
Perché
il matrimonio conservi sempre lo slancio e la freschezza
iniziali, la moglie deve cercare di conquistare il marito
ogni giorno; e lo stesso si dovrebbe dire del marito rispetto
alla moglie. L'amore va recuperato ogni giorno; e l'amore
si conquista con il sacrificio, con il sorriso e anche
con un po' di furbizia.
Se il marito torna a casa dal lavoro stanco e la moglie
si mette a parlare senza misura, raccontando tutto quello
che secondo lei va male, è forse strano che il
marito finisca per perdere la pazienza? Gli argomenti
meno gradevoli si possono lasciare per un momento più
opportuno, quando lui sia più disteso e meglio
disposto.
Un
altro particolare: la cura della propria persona. Se un
altro sacerdote vi dicesse il contrario, penso che sarebbe
un cattivo consigliere. Una persona che deve vivere nel
mondo, quanti più anni ha, tanto più è
necessario che si sforzi di migliorare non solo la vita
interiore, ma - appunto per questo - anche l'impegno per
"essere presentabile", d'accordo, naturalmente,
con l'età e le circostanze.
Spesso,
scherzando, dico che le vecchie facciate sono quelle che
hanno più bisogno di un buon restauro. È
un consiglio di sacerdote. C'è un vecchio proverbio
che dice: "Quando la moglie non si trascura, il marito
non cerca l'avventura".
Proprio
per questo oserei dire che l'ottanta per cento della colpa
delle infedeltà dei mariti è delle mogli,
che non sanno riconquistarli ogni giorno, non sanno essere
premurose, affettuose, delicate. L'attenzione della donna
sposata deve concentrarsi sul marito e sui figli. E quella
del marito deve concentrarsi sulla moglie e sui figli.
Ciò richiede tempo e impegno, per sapere quello
che va fatto e farlo bene. Tutto ciò che rende
impossibile il compimento di questo dovere, non è
cosa buona e non va bene.
Non
ci sono scuse per non compiere questo amabile dovere.
Non è certo una scusa il lavoro extradomestico,
e neppure le pratiche religiose che, se non sono compatibili
con i doveri di tutti i giorni, non sono buone, e Dio
non le accetta. La donna sposata si deve occupare prima
di tutto della casa. C'è un canto popolare della
mia terra che dice: La mujer que, por la iglesia, / deja
el puchero quemar / tiene la mitad de angel / de diablo
la otra mitad (La donna che, per stare in chiesa, / lascia
bruciare il pranzo, / è per metà angelo,
/ e diavolo per l'altra metà). Io direi che è
diavolo del tutto.
D
- Oltre alle difficoltà che possono esserci tra
genitori e figli, non sono rari i litigi tra marito e
moglie, che talvolta arrivano sul serio a compromettere
la pace famigliare. Che cosa consiglierebbe agli sposi?
R
- Di volersi bene. E di rendersi conto che durante la
vita ci saranno screzi e difficoltà, che però,
se risolte con naturalezza, contribuiranno a render ancor
più profondo l'affetto.
Ciascuno
di noi ha il suo temperamento, i suoi gusti personali,
il suo carattere - un caratteraccio, a volte -, i suoi
difetti. Ognuno ha anche i lati piacevoli della sua personalità,
e per questo - e per molte altre ragioni - gli si può
voler bene.
La
convivenza è possibile quando tutti si sforzano
di correggere i propri difetti e cercano di passar sopra
alle manchevolezza degli altri; quando cioè vi
è amore, che supera e annulla tutto quanto potrebbe
falsamente sembrare motivo di separazione e di divergenza.
Se invece si drammatizzano i piccoli contrasti e ci si
comincia a rinfacciare mutuamente i difetti e gli sbagli,
la pace è finita e si corre il pericolo di far
morire l'affetto.
Gli
sposi hanno grazia di stato - la grazia del sacramento
- per praticare tutte le virtù umane e cristiane
della convivenza: la comprensione, il buon umore, la pazienza,
il perdono, la delicatezza nel rapporto reciproco. L'importante
è non lasciarsi andare, non lasciarsi dominare
dal nervosismo, dall'orgoglio o dalle manie personali.
Per
riuscirci, marito e moglie devono sviluppare la propria
vita interiore e apprendere dalla Sacra Famiglia a vivere
con finezza - per un motivo che è allo stesso tempo
umano e soprannaturale - le virtù del focolare
cristiano. Lo ripeto ancora: la grazia di Dio ce l'hanno.
Quando
uno dice che non può sopportare questo o quello
e che gli è impossibile tacere, sta esagerando
per giustificare se stesso. Bisogna chiedere a Dio la
forza di dominare il proprio umore, la grazia per conservare
il dominio di sé.
Perché
i pericoli di un'arrabbiatura sono proprio questi: si
perde il controllo, le parole si riempiono di amarezza,
arrivano a offendere e, forse involontariamente, a ferire,
a far male.
Occorre
imparare a tacere, ad attendere, a dire le cose in modo
positivo, con ottimismo. Quando è lui a perdere
la calma, è il momento in cui lei deve essere particolarmente
paziente, finché la serenità torna di nuovo;
e viceversa. Quando l'affetto è sincero e ci si
sforza di farlo crescere è ben difficile che tutti
e due si lascino dominare dal malumore nello stesso momento...
Un'altra
cosa molto importante: abituarsi a pensare che non abbiamo
mai tutta la ragione. Si può addirittura dire che,
in questioni di solito tanto discutibili quanto più
siamo sicuri di avere tutta la ragione, tanto più
è certo che abbiamo torto.
Se
si ragiona in questo modo, riesce semplice alla fine rettificare
e, se occorre, chiedere scusa, che è il modo migliore
di concludere un'arrabbiatura; e così si assicurano
la pace e l'affetto. Non voglio incoraggiare a bisticciare;
ma è comprensibile che bisticciamo qualche volta
con quelli che amiamo di più, perché sono
quelli che vivono abitualmente assieme a noi.
Non
si bisticcia di certo con lo zio d'America! Pertanto,
queste piccole tempeste fra gli sposi, se non sono frequenti
- e bisogna fare in modo che non lo siano -, non sono
indice di poco amore, anzi, possono contribuire ad aumentarlo.
Infine
un ultimo consiglio: non litigare mai davanti ai figli.
Per evitarlo, basterà che marito e moglie si intendano
con una parola, con uno sguardo, con un gesto. Litigheranno
dopo, con più serenità, se proprio non sono
capaci di farne a meno.
La
pace coniugale dev'essere l'ambiente della famiglia, perché
è la condizione indispensabile per un'educazione
profonda ed efficace. I piccoli devono vedere nei genitori
un esempio di dedizione, di amore sincero, di mutuo aiuto,
di comprensione; le piccole difficoltà di ogni
giorno non devono nascondere la realtà di un affetto
capace di superare tutto.
A
volte ci prendiamo troppo sul serio. Tutti ci arrabbiamo
di quando in quando, a volte perché è necessario,
altre volte perché ci manca spirito di mortificazione.
L'importante è dimostrare che queste arrabbiature
non incrinano l'affetto, sapendo ristabilire l'intimità
famigliare con un sorriso. Insomma, marito e moglie devono
vivere amandosi l'un l'altra e amando i propri figli,
perché è così che amano Dio.
D
- Mi riferisco ora a un fatto più concreto: recentemente
è stata annunciata a Madrid l'apertura di una Scuola
diretta da socie dell'Opus Dei, con il fine di creare
un clima di famiglia e di dare alle lavoratrici domestiche
una formazione completa e una qualificazione professionale.
Che incidenza crede che possa avere nella società
questo tipo di attività?
R
- Quest'opera apostolica - ce ne sono molte altre del
genere dirette da socie dell'Opus Dei, che vi lavorano
insieme ad altre persone che non appartengono alla nostra
istituzione - ha come fine principale quello di nobilitare
il mestiere delle impiegate domestiche in modo che possano
realizzare il proprio lavoro con competenza tecnica. Dico
competenza tecnica perché bisogna che il lavoro
domestico venga condotto per quello che è: una
vera professione.
Non
dimentichiamo che si è preteso di presentare questo
lavoro come una cosa umiliante. Ma non è vero;
umilianti erano senza dubbio le condizioni in cui molte
volte si svolgeva questo lavoro. E umilianti continuano
a esserlo in vari casi anche oggi: quando chi vi si dedica
deve adattarsi ai capricci di persone irriguardose e deve
lavorare senza garanzie legali, con scarsa retribuzione,
senza affetto.
Bisogna esigere il rispetto di un contratto di lavoro
adeguato, che dia garanzie chiare e precise, e stabilisca
bene i diritti e i doveri di ciascuna delle parti.
Oltre
a queste garanzie legali, occorre che la persona che presta
il servizio sia qualificata, professionalmente preparata.
Ho detto servizio - anche se oggi la parola non piace
- perché ogni attività sociale ben compiuta
è appunto questo, un bellissimo servizio: e lo
è tanto l'attività di una lavoratrice domestica
quanto quella di un docente o di un giudice. L'unica attività
che non è servizio è quella di chi subordina
tutto al proprio interesse.
Il
lavoro domestico è una cosa di primaria importanza.
Del resto, tutti i lavori possono avere la stessa qualità
soprannaturale: non ci sono compiti grandi o piccoli;
tutti sono grandi se si fanno per amore.
Le funzioni che tutti ritengono elevate, diventano meschine
appena si perde il senso cristiano della vita. Invece
ci sono cose piccole all'apparenza, che possono essere
molto grandi per le effettive conseguenze che hanno.
Per
me, il lavoro di una figlia mia dell'Opus Dei che è
collaboratrice domestica, ha la stessa importanza di quello
di un'altra mia figlia che abbia un titolo nobiliare.
In entrambi i casi, a me interessa solo che il loro lavoro
sia mezzo e occasione di santificazione propria e altrui:
e sarà alla fine più importante il lavoro
della persona che nella propria occupazione e nel proprio
stato cresce di più in santità e compie
con più amore la missione ricevuta da Dio.
Dinanzi
a Dio, una docente universitaria non è più
importante di una commessa di negozio, o di una segretaria,
di un'operaia, o di una contadina: tutte le anime sono
uguali. Solo che spesso sono più belle le anime
delle persone più semplici; e, in ogni caso, sono
più accette al Signore quelle che entrano più
intimamente in rapporto con Dio Padre, Dio Figlio e Dio
Spirito Santo.
Con
la scuola aperta a Madrid si può fare molto: si
può dare un autentico ed efficace aiuto alla società
in un'importante funzione, e al tempo stesso svolgere
un lavoro cristiano nelle famiglie, portando nelle case
la gioia, la pace, la comprensione.
Parlerei
per ore intere su questo argomento; ma quanto ho detto
è sufficiente per capire che vedo il lavoro domestico
come un mestiere di particolare importanza, perché
con esso si può fare molto bene - o molto male
- nel cuore stesso delle famiglie. Speriamo che sia molto
il bene: non mancheranno persone di buona stoffa umana,
competenti e con slancio apostolico, che faranno di questa
professione un lavoro pieno di gioia e di incalcolabile
efficacia in tante famiglie del mondo.
D
- Da circostanze di indole molto diversa, come anche da
esortazioni e insegnamenti della Chiesa, è nata
e si è sviluppata una profonda sensibilità
sociale. Si fa un gran parlare della virtù della
povertà come testimonianza. Come può viverla
una donna di casa, che deve offrire un giusto benessere
alla propria famiglia?
R
- Nella Sacra Scrittura, proprio come uno dei segni che
manifestano l'arrivo del Regno di Dio, leggiamo che "il
Vangelo è annunciato ai poveri" (Mt 11, 6).
Non ha lo spirito di Cristo chi non ama e non vive la
virtù della povertà; e ciò vale per
tutti, tanto per l'anacoreta che si ritira nel deserto,
quanto per il comune cristiano che vive nel mezzo della
società umana, fornito delle risorse di questo
mondo o privo di molte di esse.
Su
questo tema vorrei soffermarmi un po', perché oggi
non sempre si predica la povertà in modo che il
suo messaggio giunga a farsi vita. Con buona volontà
senza dubbio, ma senza aver afferrato a fondo il senso
dei tempi, c'è chi predica una povertà che
è frutto di mera elucubrazione intellettuale, che
porta con sé vistosi segni esteriori e al tempo
stesso enormi deficienze interiori, quando non anche esterne.
Facendo
eco a un'espressione del profeta Isaia - discite benefacere
(1, 17) - mi piace dire che "le virtù bisogna
imparare a viverle", e questo vale forse in modo
speciale per la povertà.
Bisogna
imparare a viverla perché non si riduca a un ideale
sul quale si può scrivere molto, ma che nessuno
mette seriamente in pratica. Occorre far vedere che la
povertà è un invito che il Signore rivolge
a ogni cristiano, e che pertanto è una chiamata
concreta che deve dar forma a tutta la vita dell'umanità.
Povertà
non è miseria, e meno che mai sporcizia. La prima
ragione è che ciò che definisce il cristiano
non sono le condizioni esterne della sua vita, ma piuttosto
gli atteggiamenti del suo cuore.
Ma
poi vi è una seconda ragione (e qui tocchiamo un
punto assai importante, dal quale dipende un'esatta comprensione
della vocazione laicale): ed è che la povertà
non viene definita dalla pura e semplice rinuncia.
In
certe occasioni particolari, la testimonianza di povertà
richiesta ai cristiani può essere l'abbandono di
tutto, la contestazione di un ambiente che non ha orizzonti
aldilà del benessere materiale, proclamando così,
con un gesto spettacolare, che nessuna cosa è buona
se viene preferita a Dio. Ma è forse questa la
testimonianza che oggi la Chiesa chiede a tutti? Non è
vero forse che essa esige anche una testimonianza esplicita
di amore al mondo, di solidarietà con gli uomini?
A
volte, chi riflette sulla povertà cristiana prende
come punto di riferimento principale i religiosi, cui
è proprio dare sempre e ovunque una testimonianza
pubblica, ufficiale; e così si corre il rischio
di non scorgere il carattere specifico di una testimonianza
laicale, che viene data dall'interno, con la semplicità
delle cose di tutti i giorni.
Un
cristiano qualsiasi deve rendere compatibili, nella propria
vita, due aspetti che possono sembrare a prima vista contraddittori.
Povertà reale, anzitutto: una povertà che
si noti, che si possa toccare con mano perché fatta
di cose concrete, che sia una professione di fede in Dio,
una testimonianza che il cuore non si soddisfa con le
cose create, ma aspira al Creatore e anela colmarsi d'amor
di Dio per poi comunicare a tutti questo stesso amore.
E,
nello stesso tempo, essere uno dei tanti in mezzo agli
uomini nostri fratelli, condividendone la vita, le gioie,
le ansie, e collaborando nelle stesse attività;
amando il mondo e tutte le cose buone che vi sono, utilizzando
tutte le cose create per risolvere i problemi della vita
umana, e per costruire l'ambiente materiale e spirituale
propizio allo sviluppo delle persone e delle comunità.
Raggiungere
la sintesi di questi due aspetti è - in buona parte
- una questione personale, una questione di vita interiore,
per saper giudicare momento per momento e scoprire caso
per caso che cosa Dio ci chiede. Non voglio dunque dare
regole fisse, ma solo delle linee generali di orientamento,
riferendomi specialmente alle madri di famiglia.
Sacrificio:
ecco in che cosa consiste, in gran parte, la povertà
reale. Si tratta di saper prescindere dal superfluo, misurato
non tanto con regole teoriche, quanto con l'ascolto della
voce interiore che ci avverte che l'egoismo o la comodità
ingiusta si stanno inoltrando nella nostra vita. Il benessere,
inteso in senso positivo, non significa lusso, né
corsa al piacere, ma quanto serve a rendere la vita gradevole
alla propria famiglia e agli altri, perché tutti
possano servire meglio Dio.
La
povertà consiste nel raggiungere sul serio il distacco
dalle cose terrene; nel sopportare lietamente le scomodità,
quando ci sono, o la mancanza di mezzi.
Chi è povero sa poi avere tutto il giorno "preso"
da un orario elastico, che deve prevedere fra le cose
importanti - oltre alle pratiche giornaliere di pietà
- il necessario riposo, il tempo per star assieme ai propri
cari, un po' di lettura, i momenti da dedicare a un hobby
di arte o di letteratura, o ad altra distrazione onesta;
e così sa riempire le ore con un'attività
utile, cerca di fare le cose nel migliore dei modi, e
cura i particolari di ordine, di puntualità, di
buon umore.
In una parola, sa trovar posto per servire gli altri e
per sé stesso: senza dimenticare che tutti gli
uomini e tutte le donne - e non solo quelli materialmente
poveri - hanno l'obbligo di lavorare; la ricchezza o una
situazione economica agiata non sono che un segno del
fatto che si è maggiormente obbligati a sentire
la responsabilità dell'intera società.
È
l'amore che dà senso al sacrificio. Ogni madre
sa bene che cos'è il sacrificio per i figli: non
si tratta solo di dedicare loro alcune ore, ma di spendere
per il loro bene tutta la vita. Vivere dunque pensando
agli altri, usare i beni in modo tale che non manchi qualcosa
da offrire agli altri: ecco le dimensioni della povertà,
che garantiscono un effettivo distacco.
Per
una madre, è importante non solo vivere cosi, ma
anche insegnare ai figli a vivere così. Si tratta
di educarli promuovendo in loro la fede, l'ottimismo della
speranza e la carità; si tratta di insegnare loro
a superare l'egoismo e a usare parte del proprio tempo
generosamente al servizio delle persone meno fortunate,
partecipando a lavori (adeguati alla loro età)
in cui si manifesti una vera preoccupazione di solidarietà
umana e divina.
In
poche parole: ciascuno deve vivere la propria vocazione.
Per me il miglior modello di povertà sono sempre
stati quei padri e quelle madri di famiglie numerose e
povere, che non vivono che per i propri figli, e che con
il loro sforzo e con la loro costanza - spesso senza voce
per manifestare agli altri le loro ristrettezze - sanno
mandare avanti la casa, creando un focolare pieno di gioia,
in cui tutti imparano ad amare, a servire, a lavorare.
D
- Nel corso dell'intervista, lei ci ha commentato vari
e importanti aspetti della vita umana e in particolare
della vita della donna, e ci ha fatto notare in che modo
li valuta lo spirito dell'Opus Dei. Potrebbe dirci, per
terminare, come pensa che si debba promuovere il ruolo
della donna nella vita della Chiesa?
R
- Non nascondo che di fronte a una domanda di questo tipo,
sento, contrariamente alla mia abitudine, la tentazione
di rispondere in modo polemico, perché ci sono
persone che adoperano questa terminologia in maniera clericale,
usando la parola Chiesa come sinonimo di qualcosa che
appartiene al clero, alla Gerarchia ecclesiastica.
Così, per partecipazione alla vita della Chiesa
intendono solo o principalmente l'aiuto prestato alla
vita parrocchiale, la collaborazione ad associazioni "con
mandato" della Gerarchia, l'assistenza attiva alle
funzioni liturgiche, e cose del genere.
Coloro
che pensano così dimenticano all'atto pratico -
anche se forse lo proclamano in teoria - che la Chiesa
è la totalità del popolo di Dio, l'assieme
di tutti i cristiani; e che pertanto, ovunque un cristiano
si sforza di vivere in nome di Gesù Cristo, là
è presente la Chiesa.
Con
ciò non intendo minimizzare l'importanza della
collaborazione che la donna può prestare alla vita
della struttura ecclesiastica. La considero anzi imprescindibile.
Ho dedicato tutta la vita a difendere la pienezza della
vocazione cristiana dei laici (cioè degli uomini
e delle donne comuni, che vivono in mezzo al mondo) e
a promuovere, pertanto, il pieno riconoscimento teologico
e giuridico della loro missione nella Chiesa e nel mondo.
Voglio
solo far notare che c'è chi vorrebbe imporre una
riduzione ingiustificata di tale collaborazione; e mi
preme rilevare che il comune cristiano, sia uomo o donna,
può svolgere la propria missione specifica, anche
quella che gli spetta all'interno della struttura ecclesiale,
solo a condizione di non clericalizzarsi, di continuare
cioè ad essere secolare, ad essere persona che
con normalità vive nel mondo e partecipa alle vicende
del mondo.
Ai
milioni di cristiani, uomini e donne, che riempiono la
terra, spetta il compito di condurre a Cristo tutte le
attività umane, annunciando con la propria vita
che Dio ama tutti e tutti vuole salvare. Pertanto, il
modo migliore di partecipare alla vita della Chiesa -
il più importante, e quello che in ogni caso dev'essere
il fondamento di tutti gli altri - è essere integralmente
cristiani nel posto assegnato dalla vita, nel posto in
cui la vocazione umana ci ha condotti.
Mi
commuove pensare a tanti cristiani e a tante cristiane
che, forse senza proporselo in modo esplicito, vivono
con semplicità la vita ordinaria, cercando di incarnare
in essa la Volontà di Dio. Renderli consapevoli
di quanto sia eccelsa la loro vita; rivelare loro che
ciò che sembra privo di importanza ha un valore
di eternità; insegnare ad ascoltare più
attentamente la voce di Dio che parla loro attraverso
fatti e situazioni, è qualcosa di cui oggi ha urgente
necessità la Chiesa, perché a questo la
sta spingendo Dio.
Cristianizzare
dal di dentro il mondo intero, dimostrando che Gesù
ha redento tutta l'umanità: ecco la missione del
cristiano. E la donna vi parteciperà nel modo che
le è proprio, sia nella casa che nelle varie occupazioni
ove realizza le sue capacità peculiari.
La
cosa essenziale è dunque che si viva, come Maria
Santissima - donna, Vergine e Madre -, al cospetto di
Dio, pronunciando quel fiat mihi secundum verbum tuum
(Lc 1, 38) da cui dipende la fedeltà alla vocazione
personale, sempre unica e intrasferibile, e che ci rende
cooperatori dell'opera di salvezza che Dio realizza in
noi e nel mondo intero.