Spontaneità
e pluralismo nel Popolo di Dio
Intervista a cura di Pedro Rodriguez - pubblicata
in Palabra (Madrid), ottobre 1967
D
- Vorremmo iniziare questa intervista affrontando un tema
che suscita oggi le più varie interpretazioni:
quello dell'aggiornamento. Secondo lei, qual è
il vero significato di questo termine in rapporto alla
vita della Chiesa?
R
- Fedeltà. Per me "aggiornamento" significa
soprattutto fedeltà. Uno sposo, un soldato, un
amministratore è tanto più buon marito,
buon soldato, buon amministratore, quanto più fedelmente
riesce ad assolvere in ogni momento, di fronte a ogni
nuova circostanza della vita, i decisi impegni di amore
e di giustizia che un giorno si assunse.
Appunto
per ciò, questa fedeltà delicata, fattiva
e costante - difficile com'è sempre difficile applicare
i princìpi alla mutevole realtà contingente
- è la migliore difesa contro l'invecchiamento
dello spirito, l'inaridimento del cuore e l'anchilosi
della mente.
Nella
vita delle istituzioni succede lo stesso, e in modo del
tutto particolare nella vita della Chiesa, che non risponde
a un effimero progetto umano, ma a un disegno di Dio.
La Redenzione - la salvezza del mondo - è opera
della fedeltà , filiale e piena di amore, di Cristo
- e di noi con Cristo - alla volontà del Padre
che lo inviò.
Per
questo, l'aggiornamento della Chiesa, oggi come ni qualsiasi
altra epoca, è essenzialmente la lieta riconferma
della fedeltà del Popolo di Dio alla missione che
gli è stata affidata, cioé al Vangelo.
E'
evidente che questa fedeltà viva e attuale in ogni
circostanza della vita umana, può richiedere -
come di fatto è avvenuto molte volte nel corso
della storia bimillenaria della Chiesa, e di recente con
il Concilio Vaticano II - opportuni sviluppi dottrinali
nell'esposizione delle ricchezze contenute nel depositum
fidei, e adeguati cambiamenti e riforme vòlti a
perfezionare, nel loro aspetto umano, perfettibile, le
strutture organizzative e i metodi di evangelizzazione
e di apostolato.
Ma sarebbe perlomeno superficiale pensare che l'aggiornamento
consista innanzitutto nel "cambiare" o che qualsiasi
cambiamento "aggiorni". Basti pensare che non
mancano oggi persone che, al di fuori della dottrina conciliare
o addirittura in contrasto con essa, desidererebbero dei
"mutamenti" che farebbero retrocedere il Popolo
di Dio nel suo cammino di molti secoli, almeno fino all'epoca
feudale.
D
- Il Concilio Vaticano II ha usato con frequenza nei suoi
documenti l'espressione "Popolo di Dio" per
riferirsi alla Chiesa, e ha in tal modo messo in evidenza
la comune responsabilità di tutti i cristiani nella
missione unica di questo Popolo di Dio. A suo avviso quali
caratteristiche dovrebbe avere quella "necessaria
opinione pubblica nella Chiesa", di cui già
parlava Pio XII, perché palesi realmente questa
responsabilità comune? E il fenomeno dell'opinione
pubblica nella Chiesa in che modo è specificato
dalle peculiari relazioni che esistono in seno alla comunità
ecclesiale fra autorità e obbedienza?
R
- Io non concepisco l'obbedienza veramente cristiana se
non come obbedienza volontaria e responsabile. I figli
di Dio non sono né pietre né cadaveri: sono
esseri intelligenti e liberi, elevati tutti al medesimo
ordine soprannaturale, detengano o no l'autorità.
Ma
chi è privo della sufficiente formazione cristiana
non sarà mai in grado di fare un retto uso della
sua intelligenza e della sua libertà, sia per ubbidire
che per manifestare le sue opinioni. Per questo, il problema
di base della "necessaria opinione pubblica della
Chiesa" equivale al problema della necessaria formazione
dottrinale dei fedeli.
Certo,
lo Spirito Santo diffonde la ricchezza dei suoi doni fra
i membri del Popolo di Dio - tutti e singoli responsabili
della missione della Chiesa -, ma ciò non esime
nessuno - tutt'altro - dal dovere di acquistare questa
adeguata formazione dottrinale.
Quando
parlo di dottrina, intendo dire la sufficiente conoscenza
che ogni fedele deve avere della missione totale della
Chiesa e della speciale partecipazione che a lui spetta
in questa unica missione, con la specifica responsabilità
che ne consegue.
E'
proprio per questo - il Papa lo ha ricordato più
di una volta - l'imponente lavoro pedagogico che attende
la Chiesa in quest'epoca di dopoconcilio. E io ritengo
che la retta soluzione del problema da lei accennato -
come altre speranze che oggi palpitano in seno alla Chiesa
- è strettamente connessa a quel lavoro pedagogico.
Perché non saranno certamente le intuizioni più
o meno "profetiche" di taluni "carismatici"
privi di dottrina ciò che potrà garantire
la necessaria opinione pubblica nel Popolo di Dio.
Quanto
alle forme di espressione di questa opinione pubblica,
non ritengo che sia questione di organismi o di istituzioni.
Possono essere sedi ugualmente adatte sia un consiglio
pastorale diocesano, sia le colonne di un giornale (anche
se non ufficialmente cattolico), sia una semplice lettera
personale di un fedele al suo Vescovo, e così via.
Sono
molto varie le possibilità e le legittime modalità
con cui si può manifestare l'opinione dei fedeli,
e non mi pare che possano o debbano essere costrette in
uno "stampo", creando un nuovo ente o una nuova
istituzione.
Meno
che mai se si tratta di una istituzione che corra il pericolo
- così facile - di finire, di fatto, monopolizzata
o strumentalizzata da un gruppo o gruppetto di cattolici
"ufficiali", qualunque sia la tendenza o l'orientamento
cui si ispiri la minoranza in questione. Se ciò
avvenisse, si metterebbe a repentaglio il prestigio stesso
della Gerarchia, e gli altri membri del Popolo di Dio
avrebbero giustamente l'impressione di essere presi in
giro.
D
- Il concetto di Popolo di Dio, a cui ci riferivamo dinanzi,
vuole esprimere il carattere storico della Chiesa, in
quanto realtà di origine divina che nel corso del
suo cammino si serve anche di elementi mutevoli e caduchi.
In base a queste nozioni, come dovrebbe essere oggi la
vita del sacerdote? Il decreto Presbyterorum ordinis ha
delineato la fisionomia del sacerdote; che elemento di
questa figura le sembra da mettere in particolare rilievo
nei momenti attuali?
R
- Fra le caratteristiche della vita sacerdotale, vorrei
sottolinearne una che non va annoverata fra quelle mutevoli
e transitorie. Mi riferisco alla perfetta unione che deve
esistere - come ricorda spesso il decreto Presbyterorum
ordinis - fra consacrazione e missione del sacerdote;
l'unione, cioè, fra vita personale di pietà
ed esercizio del sacerdozio ministeriale, fra rapporti
filiali del sacerdote con Dio e rapporti pastorali e fraterni
con gli altri uomini. Non credo all'efficacia del ministero
di un sacerdote che non sia uomo di preghiera.
D
- In qualche settore del clero vi sono preoccupazioni
nei riguardi della presenza del sacerdote nella società,
presenza che - richiamandosi alla dottrina conciliare
(cost. Lumen gentium, n. 31; decr. Presbyterorum ordinis,
n. 8) - cerca di esprimersi mediante una attività
professionale od operaia nella vita civile ("sacerdoti
nel lavoro", ecc.) Qual è la sua opinione
a questo riguardo?
R
- Voglio dire anzitutto che rispetto l'opinione contraria
a quella che sto per esporre, anche se la ritengo sbagliata
per vari motivi; e voglio aggiungere che le persone che
agiscono in quella direzione, con grande zelo apostolico,
hanno il mio affetto e le mie preghiere.
Io
penso che il sacerdozio esercitato come si deve - senza
timidezza né "complessi" (che di solito
denotano poca maturità umana), ma anche senza invadenze
"clericali" (che rivelano poco senso soprannaturale)
-, il ministero proprio del sacerdote, dicevo, è
sufficiente di per sé a garantire una legittima,
schietta e autentica presenza dell'uomo-sacerdote in mezzo
agli altri membri della comunità umana a cui si
rivolge.
Normalmente
non ci sarà bisogno di altro perché il sacerdote
viva in comunione di vita con il mondo del lavoro, comprendendo
i suoi problemi e condividendone il destino. Ma ciò
che raramente avrebbe efficacia - per l'inautenticità
che lo voterebbe all'insuccesso fin dal primo momento
- è il ricorso all'ingenuo "lasciapassare"
di attività "laicali" da "dilettante",
che urterebbe, per molti motivi, il buonsenso degli stessi
laici.
D'altra
parte, il ministero sacerdotale - soprattutto in questi
tempi, con tanta scarsezza di clero - è un lavoro
terribilmente assorbente, incompatibile con il "doppio
impiego". Gli uomini hanno un tale bisogno di noi
sacerdoti (anche se molti non lo sanno), che non si lavora
mai abbastanza.
Mancano
braccia, tempo, energie... Amo dire pertanto ai miei figli
sacerdoti che se un giorno uno di loro notasse che gli
è avanzato del tempo, può essere ben sicuro
che in quel giorno non ha vissuto bene il suo sacerdozio.
E badi bene che mi sto riferendo a sacerdoti dell'Opus
Dei, a persone, cioè, che prima di ricevere gli
ordini sacri si sono dedicate per molti anni, quasi sempre,
a una professione o a un mestiere nella vita civile: sono
ingegneri-sacerdoti, medici-sacerdoti, operai-sacerdoti,
e così via.
Eppure
non ho mai visto nessuno di loro che abbia sentito il
bisogno, per farsi ascoltare e stimare nella società
civile, fra gli ex colleghi e compagni di lavoro, di avvicinare
gli uomini con un regolo, un fonendoscopio o un martello
pneumatico.
E'
vero che a volte esercitano la professione o il mestiere
di prima (sempre in modo compatibile con gli obblighi
dello stato clericale), ma non pensano mai che questa
sia una premessa necessaria per garantirsi una "presenza
nella società civile": lo fanno per motivi
ben diversi, come per esempio la carità sociale,
o una pressante necessità economica per portare
avanti un lavoro di apostolato. Anche san Paolo ricorse
a volte al suo vecchio mestiere di fabbricante di tende:
ma non perché Anania gli avesse detto a Damasco
che doveva imparare a fabbricare tende per poter annunciare
meglio il Vangelo di Cristo ai gentili.
In
altri termini - e senza voler negare la legittimità
e la rettitudine di altre iniziative apostoliche -, io
ritengo che l'intellettuale-sacerdote e l'operaio-sacerdote,
per esempio, sono figure più autentiche e più
conformi alla dottrina del Vaticano II che non la figura
del sacerdote-operaio.
Prescindendo
dal lavoro pastorale specializzato, che sarà sempre
necessario, la figura "classica" del prete-operaio
appartiene ormai al passato: a un passato in cui molti
non riuscivano a scorgere la meravigliosa potenzialità
dell'apostolato dei laici.
D
- Si rimproverano a volte quei sacerdoti che adottano
una determinata posizione in problemi di ordine temporale,
e soprattutto in politica. Parecchi di questi atteggiamenti,
a differenza di quanto avveniva in altri tempi, sono di
solito orientati a favorire una più ampia libertà,
la giustizia sociale, ecc. È vero che non è
proprio del sacerdozio ministeriale l'intervento attivo
in questo campo, salvo poche eccezioni; ma lei non crede
che il sacerdote debba denunciare l'ingiustizia e la mancanza
di libertà, ecc., come qualcosa di non cristiano?
Come fare a conciliare queste due esigenze?
R
- Il sacerdote è tenuto a predicare - perché
è parte essenziale del suo munus docendi - le virtù
cristiane - tutte - e a indicare quali sono le esigenze
concrete e le diverse applicazioni pratiche di queste
virtù nelle diverse circostanze della vita delle
persone alle quali egli rivolge il suo ministero.
E deve insegnare anche a rispettare e a stimare la dignità
e la libertà di cui Iddio ha dotato la persona
umana nel crearla, e la peculiare dignità soprannaturale
che il cristiano acquista con il Battesimo.
Nessun
sacerdote che compia questo suo dovere ministeriale potrà
mai essere accusato - se non per ignoranza o malafede
- di intromettersi in politica. E nemmeno è giusto
dire che, impartendo questi insegnamenti, interferisca
nello specifico compito apostolico, proprio dei laici,
di ordinare cristianamente le strutture e le attività
temporali.
D
- Tutta la Chiesa oggi si mostra sollecita per i problemi
del Terzo Mondo. Si sa che in questo senso una delle maggiori
difficoltà sta nella scarsezza del clero in questi
Paesi, soprattutto riguardo al clero nativo. Qual è
la sua opinione e la sua esperienza al riguardo?
R
- Ritengo che effettivamente l'aumento del clero nativo
dovrà seguire nell'esercizio del ministero, alla
sua congrua retribuzione economica, a tutte le disposizioni
pastorali emanate dal Vescovo per la cura d'anime, il
culto divino e le prescrizioni del diritto comune relative
ai diritti e agli obblighi derivanti dallo stato clericale.
Ma
accanto a questi necessari rapporti di dipendenza - che
concretizzano giuridicamente l'ubbidienza, l'unità
e la comunione pastorale che il sacerdote deve osservare
con cura delicata verso il proprio Vescovo - vi è,
nella vita del sacerdote secolare, anche un legittimo
àmbito personale di autonomia, di libertà
e di responsabilità.
In
questo àmbito, il presbitero ha gli stessi diritti
e gli stessi doveri di qualsiasi altra persona nella Chiesa,
e in tal modo è nettamente differenziato sia dalla
condizione giuridica del minorenne (cfr C.I.C., canone
89), sia dalla condizione del religioso che, a motivo
della professione religiosa, rinuncia, in tutto o in parte,
all'esercizio di questi diritti personali.
Per
tali motivi, il sacerdote secolare - nei limiti generali
imposti dalla morale e dai doveri del suo stato - può
disporre e decidere liberamente di tutto ciò che
si riferisce alla sua vita personale (spirituale, culturale,
economica, ecc.), sia individualmente che in forma associata.
Ogni
sacerdote è libero di provvedere alla propria formazione
culturale d'accordo con le proprie inclinazioni o capacità.
È pure libero di avere le relazioni sociali che
preferisce, e di ordinare la propria vita come meglio
crede, a patto che compia con diligenza i doveri del suo
ministero. Ognuno è libero di disporre dei suoi
beni personali come in coscienza ritiene più giusto.
E
a maggior ragione, ognuno è libero di seguire,
nella propria vita spirituale e ascetica e nelle pratiche
di pietà, i suggerimenti dello Spirito Santo, scegliendo,
fra tanti mezzi che la Chiesa consiglia o permette, quelli
che considera più confacenti alle sue circostanze
personali.
È
proprio in rapporto a quest'ultimo argomento che il Concilio
Vaticano II - e recentemente il Santo Padre Paolo VI,
nell'Enc. Sacerdotalis coelibatus - ha lodato e raccomandato
vivamente le associazioni diocesane o interdiocesane nazionali
o universali, che, con statuti riconosciuti dall'autorità
ecclesiastica competente, fomentano la santità
del sacerdote nell'esercizio del suo ministero.
L'esistenza
di queste associazioni, infatti, non comporta in modo
alcuno né può comportare - come ho già
detto - una menomazione del vincolo di comunione e di
dipendenza che unisce il sacerdote al suo Vescovo, o della
sua unione fraterna con tutti gli altri membri del Presbiterio,
o dell'efficacia del suo lavoro al servizio della sua
Chiesa locale.
D
- La missione dei laici, secondo il Concilio, si svolge
nella Chiesa e nel mondo. Ci sono in proposito degli equivoci,
nati dal fatto che spesso ci si dimentica del primo o
del secondo dei due termini. Secondo lei, come si potrebbe
spiegare il ruolo dei laici nella Chiesa e il loro ruolo
nel mondo?
R
- Penso che bisogna evitare assolutamente l'idea di due
funzioni diverse. La partecipazione specifica che spetta
ai laici nella missione globale della Chiesa è
appunto quella di santificare ab intra - in modo immediato
e diretto - le realtà secolari, l'ordine temporale,
il mondo.
Allo
stesso tempo, oltre a questa funzione propria e specifica,
i laici hanno anche, come i chierici e i religiosi, una
serie di diritti, di doveri e di facoltà fondamentali,
che corrispondono alla condizione giuridica di "fedele"
e che hanno logicamente un loro àmbito di esercizio
in seno alla società ecclesiastica: la partecipazione
attiva alla liturgia della Chiesa, la facoltà di
cooperare direttamente all'apostolato specifico della
Gerarchia o di consigliarla nella sua attività
pastorale, quando si è invitati a farlo, ecc.
Ma
queste due funzioni - cioè quella specifica che
spetta al laico come "laico", e quella generica
che gli spetta come "fedele" - non sono funzioni
opposte, ma sovrapposte; e fra esse non vi è contraddizione,
bensì complementarità.
Sarebbe
assurdo pensare solo alla missione specifica dei laici
dimenticando che essi sono allo stesso tempo dei fedeli:
sarebbe come concepire un ramo frondoso e fiorito che
non appartenesse a nessun albero. Viceversa, dimenticare
ciò che è specifico, proprio e peculiare
dei laici, o non comprendere adeguatamente le caratteristiche
del loro lavoro apostolico secolare e il suo valore ecclesiale,
sarebbe come immaginare l'albero frondoso della Chiesa
ridotto alla figura mostruosa di un semplice tronco.
D
- Da tanti anni lei dice e scrive che la vocazione dei
laici consiste in queste tre cose: "Santificare il
lavoro, santificarsi nel lavoro e santificare gli altri
con il lavoro". Potrebbe precisare ora che cosa intende
esattamente quando dice "santificare il lavoro"?
R
- È difficile spiegarlo con poche parole, perché
in questa espressione sono impliciti concetti fondamentali
propri della teologia della creazione. Quel che ho sempre
insegnato - da quarant'anni a questa parte - è
che ogni lavoro umano onesto, sia intellettuale che manuale,
deve essere realizzato dal cristiano con la massima perfezione
possibile: vale a dire con perfezione umana (competenza
professionale) e con perfezione cristiana (per amore della
volontà di Dio e al servizio degli uomini).
Infatti,
svolto in questo modo, quel lavoro umano, anche quando
può sembrare umile e insignificante, contribuisce
a ordinare in senso cristiano le realtà temporali
- manifestando la loro dimensione divina - e viene assunto
e incorporato nell'opera mirabile della Creazione e della
Redenzione del mondo. In tal modo il lavoro viene elevato
all'ordine della grazia e si santifica: diventa opera
di Dio, operatio Dei, opus Dei.
Ricordando
ai cristiani le parole meravigliose del libro della Genesi
- dove si dice che Dio creò l'uomo perché
lavorasse -, abbiamo fatto attenzione all'esempio di Cristo,
che trascorse quasi tutta la sua esistenza terrena nel
lavoro di artigiano, in un villaggio. Noi amiamo questo
lavoro umano che Egli adottò come condizione di
vita, che coltivò e santificò.
Noi
vediamo nel lavoro, nella nobile fatica creatrice degli
uomini, non solo uno dei valori umani più elevati,
lo strumento indispensabile per il progresso della società
e il più equo assetto dei rapporti fra gli uomini,
ma anche un segno dell'amore di Dio per le sue creature
e dell'amore degli uomini fra di loro e per Iddio: un
mezzo di perfezione, un cammino di santità.
Per
questo, l'unico scopo dell'Opus Dei è sempre stato
quello di contribuire a far sì che nel mondo, in
mezzo alle realtà e alle aspirazioni temporali,
ci siano uomini e donne di ogni razza e condizione sociale
intenti ad amare e servire Dio e gli uomini nel lavoro
quotidiano e per mezzo di questo lavoro.
D
- Il decreto Apostolicam actuositatem (n. 5) ha affermato
chiaramente che l'animazione cristiana dell'ordine temporale
è compito di tutta la Chiesa. È pertanto
un lavoro che spetta a tutti: alla Gerarchia, al clero,
ai religiosi e ai laici. Potrebbe dirci quali sono, secondo
lei, il ruolo e le modalità d'azione di ciascuno
di questi settori ecclesiali nell'unica missione comune?
R
- In realtà, la risposta la troviamo negli stessi
testi conciliari. Alla Gerarchia spetta il compito di
indicare, come parte del suo Magistero, i princìpi
dottrinali che devono presiedere e illuminare lo svolgimento
di questa impresa apostolica (cfr cost. Lumen gentium,
n. 28; cost. Gaudium et spes, n. 43; decr. Apostolicam
actuositatem, n. 24).
Ai
laici, che lavorano immersi in tutte le situazioni e in
tutte le strutture proprie della vita secolare, corrisponde
in modo specifico l'opera "immediata" e "diretta"
di ordinare le realtà temporali secondo i princìpi
dottrinali enunciati dal Magistero; allo stesso tempo,
però, essi svolgono questo compito con una necessaria
autonomia personale rispetto alle decisioni particolari
che devono adottare nelle circostanze concrete della vita
sociale, famigliare, politica, culturale e così
via (cfr cost. Lumen gentium, n. 31; cost. Gaudium et
spes, n. 43; decr. Apostolicam actuositatem, n. 7).
Quanto
ai religiosi, i quali si separano dalle realtà
e attività secolari adottando uno stato di vita
peculiare, la loro missione consiste nel dare una testimonianza
escatologica pubblica, che sia di aiuto agli altri fedeli
del Popolo di Dio perché ricordino che non hanno
su questa terra una dimora permanente (cfr cost. Lumen
gentium, n. 44; decr. Perfectae caritatis, n. 5).
Non
va dimenticato però il grande contributo fornito
all'animazione cristiana dell'ordine temporale dalle numerose
opere di beneficenza, di carità e di assistenza
sociale promosse con abnegazione e spirito di sacrifìcio
da tanti religiosi e religiose.
D
- Una caratteristica di qualsiasi vita cristiana - prescindendo
dalle circostanze in cui si realizza - è la "dignità
e libertà dei figli di Dio". A che cosa si
riferisce lei quando difende, come ha fatto con tanta
insistenza nel corso dei suoi insegnamenti, la libertà
dei laici?
R
- Mi riferisco appunto alla libertà personale che
hanno i laici per prendere, alla luce dei princìpi
enunciati dal Magistero della Chiesa, le decisioni concrete,
teoriche o pratiche, che ciascuno reputi in coscienza
più opportune e più confacenti alle proprie
convinzioni e inclinazioni: per esempio, per quanto riguarda
le diverse opinioni fìlosofiche, di scienza economica
o di politica; oppure per quanto riguarda le correnti
artistiche e culturali o i problemi concreti della loro
vita professionale e sociale, ecc.
Questo
necessario àmbito di autonomia, di cui il laico
cattolico ha bisogno per non soffrire una diminutio capitis
nei confronti degli altri laici e per poter svolgere con
efficacia la sua specifica attività apostolica
in mezzo alle realtà temporali, va sempre accuratamente
rispettato da tutti coloro che nella Chiesa esercitano
il ministero sacerdotale.
Se
ciò non avvenisse, se cioè si volesse "strumentalizzare"
il laico per fini che oltrepassano quelli propri del ministero
gerarchico, allora si cadrebbe in un "clericalismo"
sorpassato e deplorevole. Si verrebbe a limitare enormemente
il campo di attività apostolica del laicato e lo
si condannerebbe a una perpetua immaturità; ma
soprattutto si metterebbe in pericolo (oggi come non mai)
il concetto stesso di autorità e di unità
nella Chiesa.
Non
dobbiamo dimenticare che l'esistenza di un autentico pluralismo
di criteri e di opinioni, anche fra i cattolici, nell'ambito
di ciò che il Signore ha lasciato alla libera discussione
degli uomini, non solo non è di ostacolo all'ordinamento
gerarchico e alla necessaria unità del Popolo di
Dio, ma anzi rafforza questi valori e li protegge da eventuali
inquinamenti.
D
- La vocazione del laico e quella del religioso sono assai
diverse nell'attuazione pratica anche se hanno in comune
entrambe, com'è logico, la vocazione cristiana.
Com'è dunque possibile che i religiosi, nelle loro
attività di istruzione, ecc. riescano a dare un'adeguata
formazione ai normali cristiani, avviandoli a una vita
veramente laicale?
R
- Ciò sarà possibile nella misura in cui
i religiosi - di cui ammiro sinceramente l'opera benemerita
al servizio della Chiesa - si sforzeranno di comprendere
veramente quali sono le caratteristiche e le esigenze
della vocazione laicale alla santità e all'apostolato
nel mondo, per amarle e saperle insegnare ai loro alunni.
D
- Troppo spesso, quando si parla dei laici, ci si dimentica
della presenza della donna nel mondo, e si finisce per
lasciare nel vago il suo ruolo nella Chiesa. Allo stesso
modo, quando si parla della "promozione sociale della
donna", si intende quasi sempre solo la presenza
della donna nella sfera pubblica. Qual è il suo
punto di vista sulla missione della donna nella Chiesa
e nel mondo?
R
- Innanzitutto, non mi pare che ci sia davvero nessun
motivo per adottare un criterio di distinzione e di discriminazione
nei confronti della donna quando si parla del laicato,
del suo compito apostolico, dei suoi diritti e dei suoi
doveri, ecc.
Tutti
i battezzati, sia uomini che donne, partecipano in eguale
misura al patrimonio comune di dignità, libertà
e responsabilità dei figli di Dio. Nella Chiesa
vi è questa radicale unità di base che già
san Paolo insegnava ai primi cristiani: "Quicumque
enim in Christo baptizati estis, Christum induistis. Non
est Iudaeus, neque Graecus; non est servus, neque liber;
non est masculus, neque femina" (Gal 3, 27-28); non
c'è più differenza fra ebreo e greco, fra
schiavo e libero, e nemmeno fra uomo e donna.
Se
prescindiamo dalla diversa capacità giuridica di
ricevere gli ordini sacri - differenza che per molti motivi,
anche di diritto divino positivo, ritengo che debba essere
mantenuta -, alla donna vanno riconosciuti pienamente
nella legislazione della Chiesa, nella sua vita interna
e nella sua azione apostolica, gli stessi diritti e gli
stessi doveri degli uomini.
Per
esempio: il diritto di apostolato, di fondare e dirigere
associazioni, di manifestare responsabilmente la propria
opinione su tutto ciò che riguarda il bene comune
della Chiesa, e così via. So bene che tutto questo,
pur essendo teoricamente pacifico (considerate le chiare
ragioni teologiche su cui poggia), trova di fatto la resistenza
di certe mentalità.
Ricordo
ancora la sorpresa e addirittura la critica con cui alcune
persone - che ora invece tendono a imitare questo e altri
aspetti - commentarono il fatto che nell'Opus Dei anche
le donne appartenenti alla sezione femminile della nostra
istituzione ottenessero i gradi accademici nelle scienze
sacre.
Penso,
comunque, che queste resistenze e reticenze cadranno a
poco a poco. In fondo, non è che un problema di
comprensione ecclesiologica: che si capisca cioè
che la Chiesa non è formata soltanto dai chierici
e dai religiosi, perché i laici, sia uomini che
donne, sono anch'essi Popolo di Dio, e per diritto divino
hanno una loro missione e una loro responsabilità.
Vorrei
però aggiungere che, a mio avviso, l'uguaglianza
essenziale fra l'uomo e la donna richiede anche una chiara
coscienza del ruolo complementare che l'uno e l'altra
sono chiamati a svolgere nell'edificazione della Chiesa
e nel progresso della società civile: perché
non senza motivo Dio li ha creati uomo e donna.
Questa
diversità non va intesa in senso "patriarcale",
ma in tutta la sua profondità, così ricca
di sfumature e di conseguenze, che libera l'uomo dalla
tentazione di "mascolinizzare" la Chiesa e la
società; e la donna dalla tentazione di intendere
la sua missione nel Popolo di Dio e nel mondo come mera
rivendicazione del diritto di accedere ad attività
che fino ad ora ha svolto solo l'uomo, ma che la donna
è in grado di svolgere altrettanto bene.
Sono
convinto, perciò, che sia l'uomo che la donna devono
giustamente sentirsi protagonisti della storia della salvezza,
ma in modo reciprocamente complementare.
D
- Alcuni hanno fatto notare che Cammino, uscito nella
sua prima versione nel 1934, conteneva molte idee che
a taluni allora parevano "eretiche" e che oggi
invece sono state riprese nel Concilio Vaticano II. Ci
potrebbe dire qualcosa a questo riguardo? Quali sono queste
idee?
R
- In merito a questa questione, se me lo consente, preferirei
parlare con calma un'altra volta, fra un po' di tempo.
Per ora le dico soltanto che ringrazio molto il Signore
che si è servito anche delle edizioni di Cammino,
in tante lingue e in tante copie (oramai hanno superato
i due milioni e mezzo), per far penetrare nella mente
e nella vita di gente di ogni razza e lingua quelle verità
cristiane che poi dovevano essere confermate dal Concilio
Vaticano II, portando pace e gioia a milioni di cristiani
e non cristiani.
D
- Sappiamo che da molti anni lei ha nutrito una preoccupazione
tutta speciale per la cura spirituale e umana dei sacerdoti,
e in particolare di quelli appartenenti al clero diocesano,
come dimostra, fra l'altro, l'intenso lavoro di predicazione
e di direzione spirituale da lei condotto, finché
le fu possibile, con queste persone. Un'altra prova è
la possibilità che ha offerto anche ai sacerdoti
diocesani - che rimangono pienamente diocesani, con la
medesima dipendenza dal loro Ordinario - di entrare a
far parte dell'Opus Dei, se si sentono chiamati.
Ci
interesserebbe sapere quali furono le circostanze della
vita della Chiesa che, almeno in parte, le ispirarono
questa speciale preoccupazione. Gradiremmo anche che ci
dicesse in che modo questa attività ha contribuito
e può contribuire a risolvere certi problemi del
clero diocesano o della vita ecclesiastica.
R
- Le circostanze della vita della Chiesa che ispirarono
e che ispirano questa mia preoccupazione e questa attività
- ora istituzionalizzata - dell'Opus Dei, non sono accidentali
o transitorie: sono esigenze permanenti di ordine spirituale
e umano intimamente unite alla vita e al lavoro del sacerdote
diocesano.
Penso soprattutto alla necessità che ha il sacerdote
di essere aiutato - con una spiritualità e con
dei mezzi che lascino intatta la sua condizione diocesana
- a ricercare la santità personale nell'esercizio
del suo ministero, per corrispondere così, con
animo sempre giovane e con generosità sempre maggiore,
alla grazia della vocazione divina che gli è stata
data, e per sapersi premunire con prudenza e prontezza
dalle eventuali crisi spirituali e umane che possono essere
facilmente provocate da diversi fattori: la solitudine,
le difficoltà dell'ambiente, l'indifferenza, l'apparente
inutilità del proprio lavoro, la monotonia, la
stanchezza, il disinteresse nel conservare e perfezionare
la propria formazione intellettuale, o addirittura - ed
è questa la radice profonda delle crisi di obbedienza
e di unità - la scarsa visione soprannaturale con
cui sono impostati i rapporti con il proprio Ordinario
e anche con i confratelli sacerdoti.
I
sacerdoti diocesani che - facendo legittimo uso del diritto
di associazione - aderiscono alla Società Sacerdotale
della Santa Croce (Opus Dei) lo fanno per un solo e unico
motivo: perché desiderano ricevere questo aiuto
spirituale personale in modo pienamente compatibile con
i doveri del loro stato e del loro ministero. Se così
non fosse, questo aiuto non sarebbe un aiuto ma una complicazione,
un impedimento e un disordine.
La
spiritualità dell'Opus Dei, infatti, ha come caratteristica
essenziale quella di non togliere nessuno dal posto che
occupa - unusquisque, in qua vocatione vocatus est, in
ea permaneat (1 Cor 7, 20) -; essa esige, anzi, che ciascuno
assolva ai compiti e ai doveri del proprio stato, della
propria missione nella Chiesa e nella società civile,
con la massima perfezione possibile.
Per
questo motivo, quando un sacerdote aderisce all'Opus Dei,
non abbandona né modifica minimamente la sua vocazione
diocesana, cioè la dedicazione al servizio della
Chiesa locale a cui è incardinato, la piena dipendenza
dal proprio Ordinario, la spiritualità secolare,
l'unione con gli altri sacerdoti, e così via; ma
anzi si impegna a vivere la sua vocazione con la maggior
pienezza, perché sa che deve tendere alla perfezione
nell'adempimento dei suoi obblighi sacerdotali proprio
come sacerdote diocesano.
Questo
principio ha nell'Opus Dei tutta una serie di applicazioni
pratiche di carattere giuridico e ascetico che sarebbe
lungo specificare. Basterà, a titolo di esempio,
che le faccia notare che, a differenza di quanto avviene
in certe associazioni, in cui si richiede un voto o una
promessa di ubbidienza ai superiori interni, la dipendenza
dei sacerdoti diocesani che aderiscono all'Opus Dei non
è una dipendenza gerarchica giacché non
vi è per loro una gerarchia interna, né
quindi il pericolo di un doppio vincolo di obbedienza:
vi è piuttosto un rapporto volontario di aiuto
e di assistenza spirituale.
Ciò
che essi trovano nell'Opus Dei è soprattutto l'aiuto
ascetico continuativo che desiderano ricevere secondo
una spiritualità secolare e diocesana, indipendente
dai cambiamenti di persone e di circostanze che si possono
verificare nel governo della rispettiva Chiesa locale.
In
tal modo essi aggiungono alla direzione spirituale collettiva
che dà il Vescovo (con la sua predicazione, le
sue pastorali, le sue conversazioni, le sue istruzioni
disciplinari, ecc.), anche una direzione spirituale personale,
sollecita e ininterrotta, dovunque si trovino, che viene
a completare, rispettandola sempre come un dovere grave,
la direzione comune impartita dal Vescovo.
Mediante
questa direzione spirituale personale, che tanto hanno
raccomandato il Concilio Vaticano II e il Magistero ordinario,
si fomenta nel sacerdote la vita di pietà, la carità
pastorale, la non interrotta formazione dottrinale, lo
zelo per le opere d'apostolato della diocesi, l'affetto
e l'obbedienza che lo devono legare all'Ordinario, la
preoccupazione per le vocazioni sacerdotali e il seminario,
ecc.
I
frutti di questo lavoro? Sono per le Chiese locali, al
cui servizio sono dediti questi sacerdoti. E di ciò
si rallegra il mio cuore di sacerdote diocesano, che ha
avuto oltretutto il conforto di vedere, molte volte, con
quale affetto il Papa e i Vescovi benedicono, auspicano
e incoraggiano questo lavoro.
D
- Parecchie volte, riferendosi agli inizi dell'Opus Dei,
lei ha detto che non aveva altro che "gioventù,
grazia di Dio e buon umore". D'altra parte, negli
anni '20, la dottrina sul laicato non aveva raggiunto
lo sviluppo che notiamo oggi. Malgrado questo, l'Opus
Dei è un fenomeno di rilievo nella vita della Chiesa.
Ci potrebbe spiegare come ha potuto, essendo un giovane
sacerdote, avere una visione così ampia da permettere
un'impresa del genere?
R
- La mia unica preoccupazione è stata ed è
sempre quella di compiere la volontà di Dio. Mi
consenta di non precisare altri particolari sugli inizi
dell'Opera (che l'Amore di Dio mi faceva presentire fin
dal 1917), perché formano un tutt'uno con la storia
della mia anima e appartengono alla mia vita interiore.
La sola cosa che le posso dire è che ho sempre
agito con il permesso e l'affettuosa benedizione del carissimo
Vescovo di Madrid, la città in cui nacque l'Opus
Dei, il 2 ottobre 1928.
Poi,
in seguito, ho agito sempre con l'approvazione e l'incoraggiamento
della Santa Sede, e con quello, per ogni caso, degli Ordinari
dei luoghi in cui si svolge il nostro lavoro.
D
- Qualcuno, osservando la presenza di membri dell'Opus
Dei in posti di rilievo della vita pubblica spagnola,
parla dell'influenza dell'Opus Dei in Spagna. Ci potrebbe
spiegare qual è questa influenza?
R
- Mi infastidisce tutto ciò che può avere
la parvenza di autoincensazione. Ma mi pare che non sarebbe
vera umiltà, bensì cecità e ingratitudine
verso Dio, che con tanta generosità benedice il
nostro lavoro, non riconoscere che l'Opus Dei influisce
effettivamente nella società spagnola.
Nell'ambiente
dei Paesi in cui l'Opera lavora già da diversi
anni, è naturale che il suo influsso abbia ormai
una notevole ripercussione sociale, in proporzione al
progressivo sviluppo delle attività; in Spagna,
in particolare, l'Opus Dei opera da trentanove anni, perché
è qui che il Signore volle che la nostra istituzione
nascesse nel seno della Chiesa.
Qual
è la natura di questa influenza? È evidente
che, dal momento che l'Opus Dei ha fini spirituali, d'apostolato,
la natura del suo influsso - sia in Spagna che nelle altre
nazioni dei cinque continenti in cui lavoriamo - non può
che essere di quel genere: un'influenza spirituale, apostolica.
Come
quello della Chiesa intera, anima del mondo, l'influsso
dell'Opus Dei sulla società civile non è
di carattere temporale - e cioè sociale, politico,
economico, e così via -, benché indubbiamente
incida sugli aspetti etici di tutte le attività
umane; esso è sempre un influsso di ordine diverso
e superiore, che si esprime con un verbo ben preciso:
"santificare".
E
con questo arriviamo al discorso sulle persone dell'Opus
Dei che lei definisce influenti. Per un'associazione il
cui scopo sia una determinata azione politica, saranno
"influenti" quei soci che hanno un seggio al
parlamento o al governo.
Se
si tratta di una associazione culturale, si considerano
"influenti" quei soci che siano dei filosofi
di chiara fama, che abbiano avuto un premio letterario
di rilievo, ecc.
Se
invece lo scopo che si propone l'istituzione è
- come nel caso dell'Opus Dei - la santificazione del
lavoro quotidiano degli uomini, tanto quello manuale come
quello intellettuale, è evidente che dovranno considerarsi
influenti tutti i suoi soci: perché tutti lavorano
(il dovere di lavorare, comune a tutti, ha nell'Opus Dei
speciali conseguenze di ordine normativo e ascetico),
e perché tutti cercano di compiere il loro lavoro,
qualunque esso sia, in modo santo, in modo cristiano,
con impegno di perfezione. Per questo motivo, io considero
tanto "influente" - tanto importante e necessaria
- la testimonianza di un mio figliolo minatore in mezzo
ai suoi compagni di lavoro, quanto quella di un rettore
di università in mezzo ai professori del senato
accademico.
Da
dove viene, quindi, l'influenza dell'Opus Dei? La risposta
sta nella semplice considerazione di questa realtà
sociologica: all'Opera appartengono persone di tutte le
condizioni sociali, di tutte le professioni, di tutte
le età e di tutti gli stati di vita; uomini e donne,
sacerdoti e laici, vecchi e giovani, celibi e coniugati,
studenti e operai, contadini e impiegati, liberi professionisti
e funzionari di enti pubblici...
Ha
mai pensato al potere di irradiazione cristiana rappresentato
da una gamma di persone così vasta e varia, tanto
più che sono decine di migliaia e tutte animate
dal medesimo spirito apostolico, dal medesimo anelito
di santificare la propria professione o il proprio mestiere
- qualunque sia l'ambiente sociale in cui operano -, di
santificarsi nel lavoro, e con il lavoro santificare gli
altri?
A
queste attività apostoliche personali bisogna aggiungere
lo sviluppo delle nostre opere proprie di apostolato:
collegi universitari, case per ritiri spirituali, l'Università
di Navarra, centri di qualificazione per operai e contadini,
istituti tecnici, scuole secondarie, istituti professionali
femminili, ecc.
Queste
attività sono state e sono indubbiamente centri
di irradiazione di spirito cristiano. Promosse da laici,
gestite come lavoro professionale da cittadini laici,
del tutto uguali ai colleghi che svolgono la stessa attività
o mestiere, e aperte a persone di ogni ceto e condizione,
queste attività hanno sensibilizzato vasti strati
della società sulla necessità di dare una
risposta cristiana ai problemi posti a ciascuno dall'esercizio
della propria professione o del proprio impiego.
Tutto
questo è ciò che da rilievo e importanza
sociale all'Opus Dei. Non la circostanza che qualcuno
dei suoi soci occupi dei posti di "influenza umana"
- la qual cosa non ci interessa per nulla, ed è
lasciata alla libera decisione e responsabilità
di ognuno - bensì il fatto che tutti (e la bontà
di Dio fa che siano molti) svolgano un lavoro - anche
il mestiere più umile - divinamente influente.
E
questo è logico: chi potrebbe pensare che l'"influenza"
della Chiesa negli Stati Uniti sia cominciata il giorno
in cui fu eletto presidente il cattolico John Kennedy?
D
- In qualche occasione, parlando della realtà dell'Opus
Dei, lei ha affermato che si tratta di una "disorganizzazione
organizzata". Potrebbe spiegare ai nostri lettori
il significato di questa espressione?
R
- Intendo dire che noi attribuiamo un'importanza primaria
e fondamentale alla "spontaneità apostolica
della persona", alla sua libera e responsabile iniziativa,
sotto la guida dello Spirito; e non alle strutture organizzative,
agli ordini, alle tattiche, e ai programmi imposti dall'alto,
in sede di governo.
Un
minimo di organizzazione esiste, logicamente: c'è
un organo direttivo centrale, che funziona sempre collegialmente
e ha la sede a Roma, e ci sono degli organi regionali,
anch'essi collegiali, presieduti da un Consigliere.
Ma
tutto il lavoro di questi organismi tende essenzialmente
a una sola meta: fornire ai soci l'assistenza spirituale
necessaria per la loro vita di pietà, e una adeguata
preparazione spirituale, dottrinale e umana. Poi, ciascuno
impari a nuotare! Agisca cioè come vero cristiano
per santificare le vie degli uomini, perché tutte
hanno il profumo del passaggio di Dio.
Arrivato
dunque a questo limite, l'Opus Dei come tale ha esaurito
il suo compito - quello stesso per cui i soci si sono
associati -, e non ha più nessun'altra indicazione
da dare: non può e non deve farlo. Da quel momento
comincia la libera e responsabile azione personale di
ciascuno dei soci.
Ognuno
- con spontaneità apostolica, agendo con piena
libertà e formandosi con autonomia la propria coscienza
di fronte alle decisioni concrete che deve prendere -
ognuno, dico, si sforza di tendere alla perfezione cristiana
e di dare una testimonianza cristiana nel proprio ambiente,
santificando il proprio lavoro manuale o intellettuale.
Naturalmente
dal momento che ciascuno prende con autonomia queste decisioni
nella sua vita secolare, nelle realtà temporali
in cui agisce, si osservano spesso opzioni, criteri e
modi di agire diversi: in altri termini, si produce questa
benedetta "disorganizzazione", questo giusto
e necessario pluralismo che è una caratteristica
essenziale del buono spirito dell'Opus Dei, e che a me
è sembrato sempre l'unico modo retto e giusto di
concepire l'apostolato dei laici.
Le
dirò di più: questa "disorganizzazione
organizzata" appare anche nelle stesse opere d'apostolato
che l'Opus Dei promuove come tale, nell'intento di contribuire
- anche sul piano associativo - a risolvere cristianamente
i problemi che si pongono alle comunità umane dei
diversi Paesi.
Queste
attività e iniziative dell'Opera hanno, sempre,
un carattere direttamente apostolico: sono cioè
opere educative, assistenziali o di beneficenza.
Ma
dato che è proprio del nostro spirito stimolare
lo scaturire di iniziative "dalla base", e dato
anche che le circostanze, i bisogni e le possibilità
di ogni nazione o gruppo sociale sono peculiari e generalmente
assai diversi da un caso all'altro, la direzione centrale
dell'Opus Dei lascia alle direzioni regionali (che godono
di un'autonomia pressoché totale) la responsabilità
di determinare, promuovere e organizzare le attività
apostoliche che ritengono più opportune: può
trattarsi di un centro d'istruzione superiore o di un
collegio universitario, come pure di un ambulatorio medico
o di una scuola agraria.
Come
logico risultato, disponiamo di un molteplice e variopinto
mosaico di attività: un mosaico "organizzatamente
disorganizzato".
D
- In base a quanto ha detto, come si inserisce, secondo
lei, la realtà ecclesiale dell'Opus Dei nell'azione
pastorale di tutta la Chiesa? E come nell'ecumenismo?
R
- Mi pare opportuno anzitutto un chiarimento. L'Opus Dei
non è, né può essere considerato,
un fenomeno relativo al processo evolutivo dello "stato
di perfezione" nella Chiesa; non è una forma
moderna o "aggiornata" di questo stato.
In
effetti la spiritualità e il fine apostolico che
Dio ha voluto per la nostra Opera non hanno nulla a che
fare con la concezione teologica dello status perfectionis
(che san Tommaso, Suàrez e altri autori hanno configurato
dottrinariamente in termini definitivi), né con
le diverse concretizzazioni giuridiche che sono o possono
essere derivate da questo concetto teologico. Una completa
esposizione dottrinale in materia sarebbe lunga; ma basti
considerare che all'Opus Dei non interessano per i suoi
soci, né voti, né promesse, né alcuna
forma di consacrazione che non sia quella che tutti hanno
già ricevuto con il Battesimo.
L'Opus
Dei non pretende in nessun modo che i soci cambino di
stato, cioè che passino dalla condizione di semplici
fedeli (uguali a tutti gli altri) alla speciale condizione
dello status perfectionis. È vero il contrario:
ciò che l'Opera desidera e promuove è che
ciascuno svolga l'apostolato e si santifichi nel proprio
stato, nello stesso posto e nella stessa condizione che
ha nella Chiesa e nella società civile. Non spostiamo
nessuno da dove si trova, non allontaniamo nessuno dal
suo lavoro, dai suoi impegni, dai suoi legittimi legami
di ordine temporale.
La
realtà sociale dell'Opus Dei, la sua spiritualità
e la sua azione si inseriscono quindi in un filone della
vita della Chiesa ben diverso, e cioè nel processo
teologico e vitale che sta conducendo il laicato alla
piena assunzione delle sue responsabilità ecclesiali,
al modo che gli è proprio di prendere parte alla
missione di Cristo e della sua Chiesa. È stata
e rimane questa, nei quasi quarant'anni di vita dell'Opus
Dei, la preoccupazione costante, serena ma forte, con
cui Dio ha voluto orientare, nella mia anima e in quella
dei miei figli, il desiderio di servirlo.
Qual
è il contributo dell'Opus Dei a questo processo?
Forse non è questo il momento storico più
adeguato per una valutazione globale di tale genere. Benché
si tratti di problemi di cui molto si è occupato
il Concilio Vaticano II (con grande gioia per il mio spirito),
e benché il Magistero abbia confermato e illuminato
a sufficienza non pochi concetti e non poche situazioni
relative alla vita e alla missione del laicato, resta
però un notevole nucleo di questioni che rappresentano
tuttora, per la generalità della dottrina, dei
veri problemi limite della teologia.
A noi, nell'ambito della spiritualità che Dio ha
dato all'Opus Dei e che ci sforziamo di praticare fedelmente
(malgrado le nostre personali imperfezioni), sembra già
divinamente risolta la maggior parte di tali questioni
in discussione, ma non pretendiamo di presentare queste
soluzioni come "le uniche" possibili.
Ci
sono poi altri aspetti dello stesso processo di sviluppo
ecclesiologico che rappresentano mirabili conquiste dottrinali,
alle quali Dio ha voluto, indubbiamente, che contribuisse
- e in misura notevole, direi - la testimonianza offerta
dalla spiritualità e dalla vita dell'Opus Dei,
assieme a quella, non meno benemerita, di altre iniziative
e istituzioni apostoliche. Ma queste conquiste dottrinali
dovranno forse attendere parecchio tempo prima di diventare
parte integrante della vita "totale" del Popolo
di Dio.
Lei
stesso accennava, nelle domande precedenti, ad alcuni
di questi aspetti: lo sviluppo di un'autentica spiritualità
laicale; la comprensione del peculiare ruolo ecclesiale
- non "ecclesiastico" o ufficiale - proprio
del laico; la chiarificazione dei diritti e dei doveri
che il laico ha in quanto laico; i rapporti fra Gerarchia
e laicato; la pari dignità e la complementarità
di funzioni dell'uomo e della donna nella Chiesa; il bisogno
di un'ordinata opinione pubblica nel Popolo di Dio, e
così via.
Tutto
ciò rappresenta evidentemente una realtà
molto fluida, e talvolta non esente da paradossi. La stessa
cosa che, detta quarant'anni fa, faceva scandalizzare
tutti o quasi tutti, oggi non fa meraviglia a nessuno:
però sono ancora ben pochi a comprenderla a fondo
e a praticarla rettamente.
Mi spiegherò meglio con un esempio.
Nel 1932, commentando ai miei figli dell'Opus Dei alcuni
degli aspetti e delle conseguenze della peculiare dignità
e della responsabilità che il Battesimo conferisce
alle persone, scrivevo loro in un documento: "Va
respinto il pregiudizio secondo cui i comuni fedeli non
possono far altro che prestare il proprio aiuto al clero,
in attività ecclesiastiche.
Non
si comprende perché l'apostolato dei laici debba
sempre limitarsi a una semplice partecipazione all'apostolato
gerarchico. Essi stessi hanno il dovere di esercitare
l'apostolato. E non perché ricevano una missione
canonica, ma perché sono parte della Chiesa; la
loro missione [...] la assolvono attraverso la professione,
il mestiere, la famiglia, i colleghi e gli amici ".
Oggi,
dopo i solenni insegnamenti del Vaticano II, nessuno nella
Chiesa metterà in discussione, immagino, l'ortodossia
di questa dottrina. Ma quanti hanno abbandonato davvero
quell'unico concetto dell'apostolato dei laici come di
una attività pastorale "organizzata dall'alto"?
Quanti hanno superato la vecchia concezione "monolitica"
dell'apostolato laicale e capiscono che esso può
e anzi deve realizzarsi anche senza bisogno di rigide
strutture centralizzate, di missioni canoniche e di mandati
gerarchici?
E quanti definiscono il laicato la longa manus Ecclesiae,
non stanno forse confondendo il concetto della Chiesa
come Popolo di Dio con il concetto più ristretto
di Gerarchia? O ancora, quanti laici riescono a capire
bene che solo rimanendo in stretta comunione con la Gerarchia
hanno diritto a rivendicare il loro legittimo àmbito
di autonomia apostolica?
Considerazioni
dello stesso genere potrebbero farsi a proposito di altre
questioni, perché è davvero molto, anzi
moltissimo ciò che resta ancora da fare, sia nella
necessaria esposizione dottrinale che nell'educazione
delle coscienze e nella stessa riforma della legislazione
ecclesiastica.
Io
prego insistentemente il Signore - la preghiera è
sempre stata la mia forza - che lo Spirito Santo assista
il suo Popolo, e specialmente la Gerarchia, nella realizzazione
di questi compiti. E prego pure perché continui
a servirsi dell'Opus Dei, in modo da poter contribuire
anche noi, per quanto possiamo, a questo difficile ma
meraviglioso processo di sviluppo e di crescita della
Chiesa.
Lei
mi domandava anche "come si inserisce l'Opus Dei
nell'ecumenismo". Già l'anno scorso ebbi a
raccontare a un giornalista francese - e so che l'aneddoto
ha avuto una certa eco, anche in pubblicazioni dei nostri
fratelli separati - quello che dissi una volta al Santo
Padre Giovanni XXIII, incoraggiato dal fascino affabile
e paterno della sua persona: "Padre Santo, nella
nostra Opera tutti gli uomini, siano o no cattolici, hanno
trovato sempre accoglienza: non ho imparato l'ecumenismo
da Vostra Santità".
Egli
rise commosso, perché sapeva che, fin dal 1950,
la Santa Sede aveva autorizzato l'Opus Dei ad accogliere
come associati cooperatori i non cattolici e perfino i
non cristiani.
E
in effetti sono parecchi - né mancano fra di loro
dei pastori e addirittura dei vescovi delle rispettive
confessioni - i fratelli separati che si sentono attratti
dallo spirito dell'Opus Dei e collaborano ai nostri apostolati.
E
sono ogni giorno più frequenti - man mano che si
intensificano i contatti - le manifestazioni di simpatia
e di intesa cordiale che nascono dal fatto che i soci
dell'Opus Dei hanno come cardine della loro spiritualità
il semplice proposito di dare responsabile attuazione
agli impegni e alle esigenze battesimali del cristiano.
Il
desiderio di tendere alla santità cristiana e di
praticare l'apostolato, procurando la santificazione del
proprio lavoro professionale; il vivere immersi nella
realtà secolari rispettando la loro autonomia,
ma trattandole con lo spirito e l'amore delle anime contemplative;
il primato che nell'organizzazione delle nostre attività
diamo alla persona, all'azione dello Spirito nelle anime,
al rispetto della dignità e della libertà
che nascono dalla filiazione divina del cristiano; la
difesa - contro la concezione monolitica e istituzionalistica
dell'apostolato dei laici - della legittima capacità
di iniziativa, nel necessario rispetto del bene comune:
questi e altri aspetti del nostro modo di essere e di
lavorare sono punti di facile incontro, dove i fratelli
separati scoprono - in forma vissuta e con la conferma
degli anni - gran parte dei presupposti dottrinali sui
quali sia loro che noi cattolici abbiamo posto tante fondate
speranze ecumeniche.
D
- Cambiando discorso, ci interesserebbe conoscere la sua
opinione sull'attuale momento della Chiesa. In particolare,
come lo definirebbe lei? Qual è il ruolo che, a
suo giudizio, possono svolgere nel momento attuale le
tendenze che in modo generale sono state designate con
i termini di "progressista' e "integrista"?
R
- A mio avviso, l'attuale momento dottrinale della
Chiesa può definirsi positivo, e allo stesso tempo
delicato, come ogni crisi di sviluppo. È positivo,
senza alcun dubbio, perché le ricchezze dottrinali
del Concilio Vaticano II hanno collocato la Chiesa intera
- tutto il Popolo sacerdotale di Dio - di fronte a una
nuova tappa, immensamente ricca di speranze, di rinnovata
fedeltà al disegno divino di salvezza che le è
stato affidato.
Ed
è anche un momento delicato, perché le conclusioni
teologiche cui si è giunti non sono di tipo, per
così dire, astratto o teorico, ma costituiscono
una teologia estremamente "viva", ossia dotata
di immediate e dirette applicazioni di ordine pastorale,
ascetico e normativo, che toccano nel più intimo
la vita interna ed esterna della comunità cristiana
- liturgia, strutture organizzative della Gerarchia, forme
di apostolato, Magistero, dialogo con il mondo, ecumenismo,
ecc. - e pertanto toccano anche la vita cristiana e la
coscienza stessa dei fedeli.
Sia
l'uno che l'altro aspetto reclamano delle istanze che
la nostra anima deve riconoscere: l'ottimismo cristiano
- la lieta certezza che lo Spirito Santo renderà
feconda di frutti la dottrina con cui ha arricchito la
Sposa di Cristo -, e contemporaneamente la prudenza da
parte di chi si dedica alla ricerca teologica o detiene
l'autorità, perché dei danni incalcolabili
potrebbero essere arrecati, ora più che mai, dalla
mancanza di serenità e di misura nello studio dei
problemi.
Per
quanto riguarda le tendenze che lei definisce "progressiste"
e "integriste", mi riesce difficile esprimere
un'opinione sul ruolo che possono svolgere in questo momento,
perché sempre mi sono rifiutato di ammettere l'opportunità
e addirittura la possibilità di fare delle catalogazioni
o semplificazioni di questo genere.
Questa
ripartizione - che alle volte viene spinta fino a estremi
di vero parossismo, o che si cerca di perpetuare, come
se i teologi e i fedeli in genere fossero destinati a
un continuo "orientamento bipolare" - ho l'impressione
che in fondo nasca dalla convinzione che il progresso
dottrinale e vitale del Popolo di Dio sia il risultato
di una perpetua tensione dialettica. Io invece preferisco
credere - con tutta l'anima - all'azione dello Spinto
Santo, che spira dove vuole e su chi vuole.