Le omelie - La Chiesa nostra Madre
È
un volumetto (anch'esso postumo) che raccoglie tre omelie pronunciate
negli ultimi anni della sua esistenza (1972-1973), di argomento
strettamente teologico e precisamente ecclesiologico, come si rileva
già dai titoli: Sacerdote per l'eternità; II fine
soprannaturale della Chiesa; Lealtà verso la Chiesa (33).
1)
Sacerdote per l'eternità. Come osserva la nota
redazionale (p. 5), l'omelia fu pronunciata il 13 aprile 1973,
Venerdì di Passione e commemorazione insieme dei sette
Dolori della Beata Vergine Maria. Nell'esordio l'autore annunzia come
singolare evento di grazia e di servizio della Chiesa il fatto che "la
prossima estate, riceveranno gli Ordini Sacri una cinquantina di membri
dell'Opus Dei", una festa per tutta la cristianità che si
ripete ogni anno a partire dal lontano 1944 quando furono ordinati i
primi tre sacerdoti (34).
L'omelia
sviluppa un motivo di fondo sul quale l'autore ritornerà con
vigore nei Colloqui (o interviste), come vedremo, per chiarire la
posizione e funzione del sacerdote all'interno di una istituzione
laicale come l'Opus Dei: da una parte egli non viene da un istituzione
religiosa ma è un sacerdote secolare, formatosi e
perfezionatosi nelle scienze ecclesiastiche conseguendo i gradi
accademici nelle Facoltà ecclesiastiche; dall'altra ha anche
perseguito e ottenuto una laurea civile, espressione di quell'impegno
nel secolo che resterà caratteristica precipua di tutti i
sacerdoti dell'Opus Dei, ciascuno dei quali, prima dell'ordinazione, ha
conseguito una laurea civile e ha esercitato una professione. Una volta
ordinati però, essi si dedicano precipuamente all'assistenza
e al servizio spirituale dei membri dell'Opus Dei e delle sue opere:
"Ricevono il sacramento dell'Ordine per essere - né
più né meno - sacerdoti-sacerdoti, sacerdoti al
cento per cento" (p. 6).
Siamo
agli antipodi dell'avventura dei preti-operai come della confusione e
irrequietezza di quanti - e sono tanti -, teologi e sacerdoti,
continuano a discutere sull'"identità" del sacerdote.
Ispirandosi a santa Caterina, che ripete san Paolo, Escrivá
vede l'identità del sacerdote in quella stessa di Cristo, ma
"la passione" - e vocazione, come vedremo - "per la santità
non è che una e non fa differenza essere sacerdoti o laici
[...] perché la santità non dipende dalle
circostanze del proprio stato - celibe, sposato, vedovo, sacerdote - ma
dalla personale corrispondenza alla grazia" (pp. 8-9).
L'identità
del sacerdote è di "essere strumento immediato e quotidiano
della grazia salvifica che Cristo ha meritato per noi" (p. 11), come ha
chiarito il Vaticano II. L'atto principale del sacerdote è
la celebrazione del sacrificio della Messa, nel quale - è
un'osservazione ripetuta dall'autore - Cristo si nasconde e si umilia
più che nello stesso sacrificio della Croce: il sacerdote
compie e rinnova il sacrificio del Calvario in persona Christi e "la
presenza o l'assenza dei fedeli alla santa Messa non modifica in nulla
questa verità di fede" (p. 15). Perciò,
richiamandosi alla dottrina di san Tommaso, egli attribuisce al
sacerdote due funzioni: una principale, sul Corpo vero di Cristo;
un'altra secondaria, sul Corpo Mistico di Cristo con l'amministrazione
dei sacramenti; e deplora con parole vibrate, qui e altrove, "il
fenomeno del clericalismo" (corsivo dell'autore) (35),
cioè l'immischiarsi del sacerdote nei campi d'azione
sociale, politico e così via, propri dei laici, "autentica
patologia della vera missione sacerdotale" (p. 19).
Malgrado
il triste naufragio di tante vocazioni sacerdotali che la Chiesa
lamenta nel post-concilio, Escrivá è ottimista:
"Nella Chiesa di Dio l'autentico sacerdote non è affatto
scomparso; la dottrina è immutabile, quella stessa insegnata
dalle labbra divine di Gesù. Sono molte migliaia i sacerdoti
che, in tutto il mondo, senza spettacolo la osservano con piena
corrispondenza, senza cadere nella tentazione di mandare in rovina un
tesoro di santità e di grazia che la Chiesa ha portato con
sé fin da principio" (p. 19). Questa predica è un
autentico gioiello e può figurare accanto a quelle sul
sacerdozio di san Giovanni Crisostomo.
2)
II fine soprannaturale della Chiesa (36).
Esordisce con l'osservazione che "la Chiesa è incentrata
sulla Trinità" (p. 21): così l'hanno sempre vista
i Padri della Chiesa (37)
e nel Simbolo o Credo della Messa subito dopo Et in Spiritum Sanctum
segue: et unam sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam.
Perciò tocca rafforzare in noi la coscienza del "carattere
soprannaturale della Chiesa" "perché", egli denunzia senza
eufemismi, "in questi momenti molte persone - materialmente all'interno
della Chiesa, e anche in alto - si sono dimenticate di queste
verità capitali e pretendono di proporre un'immagine della
Chiesa che non è Santa, che non è Una, che non
può essere Apostolica, perché non poggia sulla
roccia di Pietro, e che non è Cattolica, perché
è percorsa da illegittimi particolarismi, da capricci umani"
(p. 23).
Segue
la denunzia dello sfacelo all'interno della Chiesa attuale, ove si
ascoltano "parole di eresia - di questo si tratta, non mi sono mai
piaciuti gli eufemismi - quando osserviamo che si attacca impunemente
la santità del matrimonio e quella del sacerdozio, la
concezione immacolata di nostra Madre, la Madonna e la sua
verginità perpetua con tutti gli altri privilegi e doni di
cui Dio volle adornarla; il perenne miracolo della presenza reale di
Cristo nell'Eucaristia, il primato di Pietro, e perfino la risurrezione
di Nostro Signore" (p. 24).
Ancora,
si chiede, come non sentire l'anima colma di tristezza? Ma abbiate
fiducia, soggiunge subito, perché la Chiesa è
fondata su Cristo che non vacilla e così, secondo
l'espressione di sant'Agostino, la Chiesa resterà salda fino
alla fine dei tempi (cfr p. 24).
Nella Chiesa si riflette la realtà delle due nature in
Cristo, l'umana e la divina: cosi, analogicamente, possiamo parlare di
un elemento umano e di uno divino nella Chiesa e "dire uomo significa
parlare di libertà, della possibilità di cose
grandi e di meschinità, di eroismi e di cedimenti".
E
conclude: "Se ci limitassimo soltanto a questa componente umana della
Chiesa, non riusciremmo a capirla, perché non saremmo giunti
alla porta del mistero" (p. 25). Infatti la Chiesa è
composta di uomini ed è una società umana,
precisa l'autore citando Leone XIII, e "perciò vive e agisce
nel mondo, però il suo fine e la sua forza non sono in terra
ma nel Cielo" (p. 26) (38).
Più avanti, dopo aver riportato la losca prospettiva della
prova della Chiesa secondo san Paolo (2 Tm 4, 1-4), commenta - facendo
eco al "fumo del diavolo" penetrato nella Chiesa secondo la dolente
denunzia di Paolo VI -: "Non saprei dire quante volte si sono
realizzate queste profetiche parole dell'Apostolo. Soltanto un cieco,
però, non sarebbe in grado di vedere che si stanno
verificando ai nostri giorni (corsivo suo) quasi alla lettera. Viene
rifiutata la dottrina dei comandamenti della Legge di Dio e della
Chiesa, si manipola il contenuto delle beatitudini, interpretandole in
chiave politico-sociale: e se uno si sforza di essere umile, mite, puro
di cuore, viene trattato da ignorante o da sostenitore anacronistico di
cose superate.
Non
si sopporta l'onere della castità, e si inventano mille modi
per burlarsi dei precetti divini di Cristo" (p. 32). A suo avviso, e la
realtà sta sotto gli occhi di tutti, si tratta di un
tentativo di "mutare i fini soprannaturali della Chiesa" intendendo per
giustizia non la vita di santità, "ma una lotta politica
determinata, più o meno intrisa di marxismo, inconciliabile
con la fede cristiana" e per "liberazione, non la lotta personale per
fuggire il peccato, ma un impegno umano, forse nobile e giusto in
sé stesso, ma privo di senso per il cristiano quando implica
la svalorizzazione della sola cosa necessaria, la salvezza eterna delle
anime, una per una".
Perfino
il santo Sacramento dell'Altare - aggiunge - è profanato o
ridotto a un mero simbolo di ciò che chiamiamo comunione
degli uomini fra di loro. "Sono, questi", conclude, "tempi di prova e
noi dobbiamo chiedere al Signore, con clamore incessante, che li
accorci, che [...] conceda nuovamente la luce soprannaturale [alla sua
Chiesa], alle anime dei suoi pastori e a quelle di tulli i fedeli". E
ammonisce, facendo ancora eco a san Paolo: "La Chiesa non deve
impegnarsi a piacere agli uomini, poiché essi - da soli o in
comunità - non daranno mai la salvezza eterna: chi salva
è Dio" (p. 33). E Dio salva nella Chiesa e mediante la
Chiesa, com'è stata voluta da Cristo, costituita
cioè dal Papa assieme ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e
ai laici: oggi invece sono molti che cercano, e lo dicono, di
reinventare la Chiesa sul tipo della società civile secondo
i criteri della "democrazia" moderna (cfr p. 35).
Il
male quindi non è soltanto fuori, nelle forze del male che
imperversano dovunque, ma anche all'interno della Chiesa, dove
"l'ignoranza c'è sempre stata, ma in questi momenti
l'ignoranza più grossolana, in materia di fede e di morale,
si nasconde a volte dietro nomi altisonanti, apparentemente teologici"
(p. 37). Diagnosi amara, confermata fin troppo dal troppo che si
è scritto e si continua a scrivere in libri e riviste del
post-Concilio sulla natura della Chiesa e della sua missione.
3)
Lealtà verso la Chiesa. L'omelia (39)
sviluppa la riflessione iniziale dell'omelia precedente (pp. 21 ss.)
con rinnovata franchezza di stile nel denunziare le mistificazioni
largamente diffuse nella teologia contemporanea sulla natura divina
della Chiesa qual è rivelata dalle note che le competono
secondo il Credo della Messa: "una, santa, cattolica e apostolica", una
dottrina ripetuta dal Concilio Vaticano II (cost. Lumen gentium, n. 8)
"anche se in questi ultimi anni alcuni l'hanno dimenticato spinti da un
falso ecumenismo" (p. 41). E di lì a poco: "L'unione dei
cristiani? Sì. Anzi di più: l'unione di tutti
quelli che credono in Dio. Però Cristo ha fondato una sola
Chiesa e ha un'unica Sposa: esiste una sola vera Chiesa" (cfr p. 43) (40).
La
Chiesa poi è "santa" cioè unita a Dio
perché è stata "voluta da Cristo ed è
opera della Trinità Beatissima; è Santa ed
è Madre, la nostra santa Madre Chiesa" (cfr p. 44) (41).
Pertanto "la Chiesa, Sposa di Cristo, non ha motivo d'intonare alcun
mea culpa. Noi invece sì: mea culpa, mea culpa, mea maxima
culpa. Questo è il vero "meaculpismo", quello personale" (p.
47).
La Chiesa ancora è "cattolica" perché
è opera di Dio a salvezza di "tutti" gli uomini. E aggiunge
esultante: "Questa Chiesa Cattolica è romana. Io gusto il
sapore di questa parola: "romana". Mi sento romano, perché
romano vuoi dire universale, cattolico; perché
così mi sento spinto ad amare teneramente il Papa, Il dolce
Cristo in terra, come piaceva ripetere a santa Caterina da Siena, che
considero come un'amica carissima" (p. 51).
Infine
la Chiesa e "apostolica" cioè fondata da Cristo sugli
Apostoli e anzitutto su Pietro e i suoi successori sulla sede di Roma,
secondo la definizione del Vaticano I. E con evidente allusione a una
malintesa ma diffusa interpretazione del cosiddetto "principio della
collegialità" richiamato dal Vaticano II, osserva con tono
risoluto: "Non ha alcun senso perciò opporre il governo del
Papa a quello dei Vescovi o ridurre la validità del
Magistero all'assenso dei fedeli!" (p. 54). E, dopo una rinnovata
esortazione al dovere dell'apostolato: "Stare nella Chiesa è
già molto: ma non basta. Dobbiamo essere Chiesa,
perché nostra Madre non deve mai esserci estranea, al di
fuori, lontana dai nostri pensieri più profondi" (p. 57).
Queste sue meditazioni sulla Chiesa sono forse il frutto più
sofferto dell'amore alle anime del loro autore.