Il
decreto sull'eroicità delle virtù vissute
da mons. Josemaria Escrivà, promulgato da Giovanni
Paolo II il 9 aprile 1990, colloca la figura del fondatore
dell'Opus Dei in un preciso contesto ecclesiale: la proclamazione
della vocazione di tutti i battezzati alla santità
viene richiamata, con parole di Paolo VI, come «l'elemento
più caratteristico del Magistero conciliare e,
per così dire, il suo fine ultimo», e mons.
Escrivà che a quella proclamazione dedicò
tutte le sue energie dal 2 ottobre 1928 viene posto
«in coincidenza profetica con il Concilio Vaticano
II». Del resto l'amore per la Chiesa e la volontà
di servirla promanano da tutti i suoi scritti, dalla predicazione
e dalla vita stessa del fondatore. Vorrei chiederle: come
esprimeva, soggettivamente, mons. Escrivà, la sua
dedizione di figlio della Chiesa?
Conservo, incancellabile, il ricordo dell'arrivo a Roma
del Padre. Era il 23 giugno 1946. Il Padre aveva 44 anni.
Io ero a Roma dal febbraio di quell'anno, perché
il fondatore mi aveva incaricato di avviare le pratiche
per l'approvazione pontificia dell'Opera. Poiché
le caratteristiche dell'Opus Dei rappresentavano una completa
novità nel Diritto canonico vigente, lavorai nella
misura delle mie possibilità seguendo le precise
indicazioni del fondatore. Mi dissero, tra l'altro, che
ancora non era possibile ottenere l'approvazione dell'Opus
Dei: eravamo nati questa fu l'espressione letterale
con un secolo d'anticipo. Essendomi imbattuto in
difficoltà così grandi, apparentemente insuperabili,
decisi di scrivere al Padre per fargli presente la necessità
della sua presenza a Roma.
Benché
in quel periodo egli patisse una gravissima forma di diabete,
al punto che il medico curante, prof. Rof, aveva declinato
ogni responsabilità sulla vita del Padre qualora
avesse intrapreso il viaggio, il 21 giugno il Padre si
imbarcò a Barcellona sul vecchio piroscafo J.J.
Sister, dopo aver chiesto il parere degli altri membri
del Consiglio generale dell'Opus Dei ed essersi affidato
alla Madonna della Mercede.
Dopo
un viaggio tremendo, a causa di una tempesta del tutto
insolita nel Mediterraneo, la nave attraccò nel
porto di Genova il 22 giugno, poco prima di mezzanotte.
Andai da Roma ad attenderlo, assieme a un altro membro
dell'Opus Dei, l'avv. Salvador Canals. Prima eravamo passati
da un modesto albergo per prenotare le stanze. Ricordo
che lì Salvador e io consumammo una cena molto
frugale: ci trovavamo in pieno dopoguerra; come dessert
ci servirono una porzione di parmigiano. Io non conoscevo
questo tipo di formaggio; lo assaggiai e mi parve molto
buono, sicché lo conservai per il nostro fondatore.
Non potevo sapere che quello sarebbe stato per lui il
primo cibo dopo quarantotto ore. Il Padre mi prese sempre
affettuosamente in giro per quel piccolo regalo.
L'indomani
il fondatore celebrò la sua prima Messa in terra
italiana, in una chiesa molto danneggiata dai bombardamenti.
Il viaggio verso Roma, in una piccola automobile noleggiata
e lungo le strade rovinate dalla guerra, fu interminabile
e scomodo. Ma il Padre era pieno di gioia e non si lamentava:
era emozionato perché finalmente si sarebbe compiuta
una delle sue più grandi aspirazioni: videre Petrum.
Durante tutto il percorso pregò moltissimo per
il Papa.
Sul
fare della sera del 23 giugno arrivammo a Roma. Nello
scorgere per la prima volta la cupola di San Pietro dalla
via Aurelia, recitò molto commosso un Credo. Avevamo
preso in subaffitto alcune stanze di un appartamento all'ultimo
piano di un edificio in piazza della Città Leonina,
n. 9, e lì vi era una terrazza dalla quale si vedevano
la Basilica di San Pietro e il Palazzo Pontificio. Nell'affacciarsi
a questa terrazza e nel contemplare le stanze occupate
dal Vicario di Cristo, il Padre espresse il desiderio
di rimanere lì per un po', raccolto in preghiera,
mentre gli altri, spossati da un viaggio così faticoso,
si ritiravano a riposare. Spinto dall'amore per il Papa
e commosso dal trovarsi così vicino alle sue stanze,
il Padre rimase su quella terrazza per tutta la notte
a pregare, senza dare peso alla stanchezza del viaggio
né al suo stato di salute, né alla sete
intensa causatagli dalla malattia, né ai fastidi
sofferti durante la traversata in nave.
Questo
episodio può dare un'idea dell'intensità
con cui il fondatore amava la Chiesa e il Papa. E tuttavia,
nonostante il grande desiderio l'ansia, quasi
di recarsi a pregare sulla tomba di san Pietro, il Padre
attese alcuni giorni prima di varcare la soglia del Tempio
della cristianità: a tanto giungeva il suo spirito
di mortificazione.
Alla
fine di quello stesso mese, esattamente il 30 giugno,
il Padre potè scrivere ai suoi figli del Consiglio
generale, che a quel tempo risiedeva ancora in Spagna:
«Ho un autografo del Santo Padre per "il fondatore
della Società Sacerdotale della Santa Croce e dell'Opus
Dei". Che grande gioia! L'ho baciato mille volte.
Viviamo all'ombra di San Pietro, accanto al colonnato».
Il
31 agosto dello stesso anno il fondatore fu in grado di
ritornare a Madrid con un documento della Santa Sede,
detto di lode dei fini, che non veniva rilasciato da quasi
un secolo. Le difficoltà cominciavano a essere
superate.
Il 21 ottobre 1946, partendo ancora da Barcellona per
ringraziare la Madonna della Mercede, mons. Escrivà
ritornò definitivamente a Roma, che rimase la sua
residenza abituale per quasi trent'anni, fino al giorno
in cui Dio lo chiamò a sé.
Prima
di procedere, mi consenta un piccolo chiarimento lessicale.
Lei nomina mons. Josemaria Escrivà come «il
fondatore» o come «il Padre». Ma questo
dolcissimo appellativo famigliare adesso compete a lei,
perché il fondatore che voleva essere chiamato,
e chiamavamo, Padre l'ha tramandato a tutti i suoi
successori. Quando, a partire dal 15 settembre 1975, abbiamo
incominciato a rivolgerci a lei come «Padre»,
si è prodotta un po' di confusione, perché
«Padre» era il fondatore, «Padre»
il suo primo successore. «Benedetta confusione»,
ha commentato lei stesso, perché testimonia la
profonda unità nella continuità dell' Opera.
Quasi subito, e spontaneamente, si è fatta strada
questa tacita convenzione: chiamiamo «nostro Padre»
il fondatore, e «Padre» il prelato dell'Opus
Dei. Questo dico perché quando lei parla del «Padre»
non è possibile alcuna confusione, ma anch' io
voglio nominare il fondatore come «nostro Padre»,
e non voglio privarmi della gioia di rivolgermi a lei
come «Padre».
Ma
torniamo al nostro argomento. Nostro Padre fu accolto
con benevolenza nella Curia romana, soprattutto da parte
dell'allora Sostituto della Segreterìa di Stato,
mons. Montini, ma conobbe anche le debolezze degli uomini
di Chiesa. Qualche volta disse dì aver perso la
sua innocenza proprio arrivando a Roma...
Le sue reazioni furono tuttavia sempre improntate a una
profonda visione soprannaturale. Per esempio, prese la
consuetudine di recarsi con frequenza in piazza San Pietro
per recitare il Credo accanto alla tomba del Principe
degli Apostoli e alla residenza del Papa; usava la formula
insegnargli da piccolo dalla madre e quando arrivava alle
parole «credo la santa Chiesa cattolica»,
aggiungeva l'aggettivo romana e poi l'inciso: malgrado
tutto. Una volta lo confidò, in mia presenza, a
monsignor Tardini, non ricordo se era già stato
nominalo Cardinale Segretario di Stato; e il prelato gli
domandò: «Che cosa vuol dire "malgrado
tutto"?». Il Padre rispose: «Malgrado
i miei peccati e i Suoi». Non voleva ovviamente
offendere monsignor Tardini; ma siccome nessun uomo è
esente dal peccato e il giusto cade sette volte al giorno,
il nostro fondatore avvertiva l'esigenza che i collaboratori
del Papa fossero molto santi e pieni di Spirito Santo,
affinchè anche nel resto della Chiesa vi fosse
più santità. Non ammetteva né giustificava
la falsa umiltà di alcuni ecclesiastici sempre
inclini a un'autocritica della Chiesa: la Chiesa
come ripeteva spesso è senza macchia, perché
è la Sposa di Cristo. Questo atteggiamento di meaculpismo,
come ebbe a definirlo, lo addolorava: non ammetteva che
il riconoscimento delle debolezze degli uomini offuscasse
la fede nell'obiettiva santità della Chiesa.
Nostro
Padre ha conosciuto tre Papi. Quali furono i suoi rapporti
con Pio XII?
Il Santo Padre Pio XII ricevette più volte in udienza
il Padre e dimostrò la propria stima verso l'Opera
concedendo le prime due approvazioni pontificie: il Decretum
laudis del 1947 e l'approvazione definitiva del 1950.
Per dimostrargli il proprio affetto, il nostro fondatore
non esitava a offrire al Papa anche regali assai semplici:
per esempio, una volta gli portò delle arance che
aveva ricevuto dalla Spagna, dato che a quell'epoca non
avevamo neppure i soldi per comprarci da mangiare a Roma;
un'altra volta, avendo saputo che al Santo Padre piaceva
un determinato vino spagnolo, se ne fece mandare una certa
quantità e glielo donò.
C'è
un episodio assai sintomatico dell'affetto del Padre per
il Sommo Pontefice. Durante un'udienza, a un certo punto
egli volle baciare i piedi di Pio XII. Il Papa gli permise
di baciarne uno, ma non volle che gli baciasse l'altro.
Allora il Padre insistè filialmente rammentando
al Santo Padre che egli era aragonese e, se tutti gli
aragonesi sono cocciuti, in lui questa caratteristica
era particolarmente sviluppata.
In
più occasioni Pio XII espresse il suo apprezzamento
per il fondatore dell'Opus Dei. Al card. Gilroy e al suo
ausiliare confidò: «È un vero santo,
un uomo mandato da Dio per i nostri tempi». È
stato lo stesso ausiliare, mons. Thomas Muldoon, dopo
la morte del Padre, a consegnare questo ricordo in una
testimonianza scritta.
In
un'intervista giornalistica (Colloqui, n. 229) nostro
Padre stesso ricordò che, incoraggiato dal fascino
affabile e paterno di Giovanni XXIII, una volta gli disse:
«Padre Santo, nella nostra Opera tutti gli uomini,
siano o no cattolici, hanno sempre trovato accoglienza:
non ho imparato l'ecumenismo da Vostra Santità».
E il Papa rise commosso, perché sapeva che, fin
dal 1950, la Santa Sede aveva autorizzato l'Opus Dei ad
accogliere come cooperatori i non cattolici e perfino
i non cristiani.
L'episodio avvenne proprio nella prima udienza che Giovanni
XXIII accordò al fondatore, il 5 marzo 1960. Il
Santo Padre era così semplice e affabile, che stimolava
confidenze anche poco protocollari nei suoi interlocutori.
Del resto, nostro Padre, nelle udienze papali, anche nei
casi in cui doveva trattare questioni di particolare importanza,
non mancava mai di raccontare dei fatti che avrebbero
potuto rallegrare il Papa. Ricordo che, pochi giorni dopo
il suo arrivo a Roma, fu ricevuto da mons. Montini, allora
Sostituto della Segreteria di Stato. Il nostro fondatore
gli parlò a lungo dell'Opera e gli raccontò
alcuni episodi dell'apostolato dei suoi figli. Mons. Montini
assicurò che li avrebbe riferiti subito al Santo
Padre: «Qui giungono solamente pene e dolori, e
il Papa sarà molto contento quando verrà
a conoscenza di tutte le cose buone che voi state vivendo».
Al
termine di quella prima udienza, Giovanni XXIII confidò
che le spiegazioni del Padre sullo spirito dell'Opera
gli avevano aperto «orizzonti insospettati di apostolato».
Non assistei all'udienza privata concessa da Giovanni
XXIII il 27 giugno 1962. Lo accompagnò don Javier
Echevarrìa, ma non fu presente al colloquio: fu
una conversazione a tu per tu fra il Papa e il fondatore
dell'Opus Dei. So che parlarono a lungo sullo spirito
e l'attività dell'Opera nel mondo e pochi giorni
dopo, vale a dire il 12 luglio 1962, il Padre scrisse
una lettera ai suoi figli del mondo intero chiedendo loro
di unirsi alla riconoscenza che egli sentiva di dovere
a Giovanni XXIII per avergli offerto ancora una volta
l'onore e la gioia di videre Petrum. Debbo aggiungere
che il nostro fondatore mi parlò più volte,
con accenti di grande ammirazione, delle virtù
sacerdotali di Papa Roncalli.
Durante
la dolorosa malattia di Giovanni XXIII, mons. Angelo Dell'Acqua
raccontò al Padre, con cui era in grande confidenza,
alcuni particolari di come si prendeva cura del Pontefice:
per esempio, quando stava al suo capezzale, il Papa gli
prendeva la mano e se accennava ad andarsene e a lasciare
la stretta, esclamava: «Angelino, non mi lasciare!».
Il Padre si rattristava al pensiero della solitudine in
cui si trovano i Papi e ringraziò di tutto cuore
mons. Dell'Acqua che con i più intimi collaboratori
della famiglia pontificia stava assistendo con affetto
Giovanni XXIII ormai agonizzante.
Già
dagli accenni precedenti si intuisce che la stima di Paolo
VI per l'Opus Dei e il suo fondatore datavano da prima
della sua elevazione al pontificato.
Basti ricordare che, una volta ottenuta l'approvazione
pontificia dell'Opus Dei, ritenni opportuno chiedere alla
Santa Sede, in qualità di Procuratore generale
e a nome del Consiglio generale dell'Opera, la nomina
di Prelato domestico per il fondatore. L'allora mons.
Montini non solo approvò la mia iniziativa, ma
la fece propria. Eravamo all'inizio del 1947.
Ben
conoscendo l'umiltà del Padre, avviai le pratiche
senza informarlo previamente. Nella primavera di quell'anno
arrivò la lettera di mons. Montini con il documento
di nomina del fondatore dell'Opus Dei a Prelato domestico;
era datato 22 aprile 1947. Mons. Montini esprimeva la
sua lode per l'Opus Dei e per il suo fondatore e aggiungeva
che l'Opera era una speranza per la Chiesa.
Il Padre ne fu molto grato, ma mi disse che non voleva
accettare e che pensava di restituire con tutta la sua
gratitudine il documento di nomina a mons. Montini e di
spiegargli che non desiderava alcuna onorificenza. Don
Salvador Canals e io lo pregammo di non farlo, e l'argomento
decisivo fu che con tale nomina si dimostrava in modo
ancor più patente la secolarità dell'Opus
Dei. Allora cambiò parere e scrisse una lettera
al Sostituto della Segreteria di Stato esprimendo i propri
sentimenti di gratitudine per quella prova di affetto
del Santo Padre e sua. In seguito venimmo a sapere che
mons. Montini aveva avuto anche la delicatezza di pagare
di tasca propria la tassa per la nomina.
Ho
potuto costatare in modo particolarissimo l'affetto di
Paolo VI per il Padre quando fui da lui ricevuto dopo
essere stato chiamato a succedere al fondatore. Paolo
VI mi parlò con ammirazione del Padre ed espresse
la convinzione che fosse un santo. Mi confermò
che già da molti anni leggeva ogni giorno Cammino,
con grande beneficio della sua anima, e mi domandò
a che età il nostro fondatore lo aveva pubblicato.
Risposi che lo aveva dato alle stampe a trentasette anni,
ma precisai che il nucleo del libro era già comparso
nel 1934 con il titolo di Consideraciones espirituales
ed era stato scritto un paio d'anni prima, all'età
cioè di circa trent'anni. Il Santo Padre rimase
pensoso per un attimo, poi osservò: «Allora
lo ha scritto nella maturità della giovinezza».
Ho
ancora ben vivo nella memoria il ricordo della visita
di Paolo VI al Centro Elis, il 21 novembre 1965, giorno
dell' inaugurazione. Il grandioso complesso che sorge
nel popolare quartiere romano del Tiburtino era nato da
un' iniziativa di Giovanni XXIII che aveva deciso di destinare
alla creazione di un'opera sociale in Roma la somma raccolta
fra i cattolici di tutto il mondo in occasione dell' ottantesimo
Compleanno di Pio XII, affidandone il progetto, la realizzazione
e la gestione all'Opus Dei. Ne scaturì una struttura
polivalente, composta da una Residenza per studenti-lavoratori,
da un Centro di formazione professionale con vari corsi
di specializzazione tecnica e artigianale, da una biblioteca,
da un Centro sportivo, da una Scuola alberghiera con annesse
attività di promozione della donna. Accanto all'Elis
sorge la chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista
al Collatino, affidata a sacerdoti dell'Opus Dei.
Il
Papa si trattenne ben oltre il tempo previsto per la visita.
Celebrò la santa Messa, benedisse una statua della
Madonna destinata all'Università di Navarra, e
visitò dettagliatamente i locali del Centro. Al
termine abbracciò il nostro fondatore e, visibilmente
commosso, esclamò: «Qui tutto è Opus
Dei». Fu un segno di grande considerazione per l'Opera
e per il Padre, tanto più che a quel tempo le visite
pontificie erano rarissime, e Paolo VI volle che l'inaugurazione
dell' Elis fosse fissata durante la fase conclusiva del
Vaticano II per consentire l'intervento di molti padri
conciliari alla cerimonia, come infatti avvenne. Qual
è stato l'ultimo incontro del fondatore con Paolo
VI?
Avvenne il 25 giugno 1973, ed ebbe caratteristiche singolari,
indimenticabil. Il Padre parlò al Papa di argomenti
molto soprannaturali, lo aggiornò sullo sviluppo
dell'Opera, sui frutti concessi dal Signore in tutto il
mondo. Paolo VI se ne rallegrò molto e a volte
lo interrompeva per lasciarsi andare a qualche elogio
o semplicemente per esclamare: «Lei è un
santo». Lo so perché al termine dell'udienza
vidi che il Padre aveva un aspetto piuttosto pensoso,
quasi triste; gliene domandai il motivo, ma sulle prime
non volle rispondermi. Poi mi raccontò che il Papa
gli aveva detto quelle parole ed egli si era colmato di
vergogna e di dolore per i propri peccati, giungendo persino
a protestare: «No, no. Vostra Santità non
mi conosce; io sono un povero peccatore». Ma il
Papa aveva insistito: «No, no, Lei è un santo».
Allora il fondatore aveva replicato, pieno di emozione:
«Sulla terra non c'è che un santo: il Santo
Padre».
Del
resto mons. Carlo Colombo, teologo di fiducia e amico
personale di Paolo VI, ha testimoniato che il Santo Padre
lo incoraggiò a scrivere la lettera postulatoria
per l'apertura del processo di beatificazione del fondatore
dell'Opus Dei. Ecco le sue parole: «Nel corso di
un incontro con Paolo VI, dove furono trattati diversi
argomenti, ebbi modo di esprimere al Pontefice la mia
intenzione di rivolgerGli una lettera postulatoria per
l'inizio del processo canonico che introducesse la causa
di mons. Escrivà de Balaguer, fondatore dell'Opus
Dei. Sentivo il dovere di far sapere al Pontefice perché
avevo intenzione di rivolgerGli una lettera postulatoria
che non avrei potuto scrivere se non avessi avuto personalmente
motivi seri che mi inducessero a farlo. Data la grande
confidenza di cui godevo presso il Papa, non potevo permettermi
di deludere la Sua fiducia. Paolo VI mi diede il Suo pieno
assenso e approvazione, data la grande stima che aveva
per il Servo di Dio, di cui conosceva il desiderio di
bene che lo guidava, l'amore fervente alla Chiesa e al
suo Capo visibile, lo zelo ardente per le anime».
Ero
presente, con un gruppo di membri dell'Opus Dei di diversi
Paesi, il 19 agosto 1979 alla Messa che Giovanni Paolo
II celebrò per noi, pronunciando l'indimenticabile
omelia in cui disse, fra l'altro: «Grande ideale,
veramente, il vostro, che fin dagli inizi ha anticipato
quella teologia del laicato, che caratterizzò poi
la Chiesa del Concilio e del post-Concilio». Sentire
dalla viva voce del successore di Pietro questo elogio
della nostra spiritualità e del nostro essere Chiesa
commosse me e tutti i presenti, e internamente abbiamo
rivolto quell'elogio al nostro fondatore che purtroppo
non ebbe l'opportunità di incontrare il futuro
Giovanni Paolo lI, un Papa che ha legato il suo nome alla
storia dell' Opera.
Nostro Padre è dunque considerato un precursore
del Concilio Vaticano II, eppure non partecipò
di persona al Concilio.
Il Padre fu molto contento per l'indizione del Concilio
Vaticano II e non appena Giovanni XXIII ne diede l'annuncio,
subito gli fece pervenire una lettera piena di gratitudine.
Prevedeva, fra l'altro, che il Concilio avrebbe colmato
la lacuna teologica sul ruolo dei laici nella Chiesa,
come infatti avvenne.
Previde
che lo avrebbero potuto convocare in qualità di
Presidente generale di un Istituto secolare, tale essendo,
a quel tempo, la configurazione giuridica dell'Opus Dei:
in tal caso avrebbe dovuto partecipare in qualità
di Padre conciliare alla stregua di altri Superiori di
istituzioni incluse nello stato di perfezione. Perciò,
malgrado desiderasse vivamente intervenire di persona
nelle riunioni conciliari, non ritenne conveniente prendervi
parte nella veste di Presidente di un Istituto secolare:
infatti ciò avrebbe potuto significare, se non
l'accettazione di uno status giuridico inadeguato alla
natura dell'Opera, almeno un dato di fatto che costituiva
pur sempre un precedente poco favorevole per la futura
revisione dell'inquadramente giuridico dell'Opus Dei.
Spiegò quindi alla Curia per quali motivi non considerava
prudente partecipare al Concilio e la sua decisione fu
compresa immediatamente.
In
seguito, fu invitato a intervenire come perito del Concilio
da mons. Loris Capovilla, fattosi interprete del desiderio
del Santo Padre Giovanni XXIII. Il fondatore reiterò
ancora una volta la propria disponibilità totale
e incondizionata, ma, dopo aver ringraziato dell'invito,
illustrò le ragioni per cui avrebbe preferito non
accettare, rimettendosi comunque alla decisione del Papa.
Ecco, in sintesi, tali ragioni: da un lato, non avrebbe
potuto dedicare tutto il tempo necessario allo svolgimento
di questo compito. E, dall'altro, diversi figli suoi vescovi
erano Padri conciliari e sarebbe sembrato strano che lui
intervenisse come semplice perito: non si trattava certo
di un atteggiamento di superbia, ma del desiderio di evitare
malintesi che avrebbero messo in cattiva luce la Santa
Sede. Siccome era noto che il fondatore aveva declinato
la nomina a Padre conciliare, se avesse accettato quella
di perito qualcuno avrebbe potuto pensare che volesse
muoversi dietro le quinte o con sotterfugi. Mentre coloro
che non erano al corrente della situazione avrebbero supposto
che non veniva attribuita all'Opus Dei alcuna importanza
ecclesiale.
Invece,
il nostro fondatore offrì alle autorità
ecclesiastiche competenti la collaborazione di tutta l'Opera
e di tutti i suoi membri, molti dei quali, in effetti,
parteciparono alla preparazione e allo svolgimento del
Concilio.
Per quanto mi riguarda, mi esortò ad accettare
le varie nomine nelle diverse Commissioni del Concilio
e a dedicarvi tutto il mio impegno. All'apertura dei lavori
venni nominato perito conciliare; Segretario della Commissione
per la Disciplina del clero e del popolo cristiano, all'interno
della quale ebbi l'obbligo di intervenire molto attivamente...
È
la Commissione che elaborò il decreto Presbyterorum
ordinis...
Esatto. Inoltre fui nominato consultore di altre tre Commissioni
conciliari (per i vescovi e il regime delle diocesi; per
i religiosi; per la Dottrina della fede; nonché
consultore della Commissione mista per le associazioni
di fedeli), e consultore della Commissione per la revisione
del Codice di Diritto canonico. Concluse le attività
dell'Assemblea Ecumenica, ricevetti la nomina a consultore
della Commissione postconciliare per i vescovi e il governo
delle diocesi.
Durante
lo svolgimento delle sessioni conciliari, accanto ai risultati
positivi e ispirati che sarebbero stati condensati nei
documenti definitivi, si verificarono malumori e confusioni,
spesso amplificati dai giornali. Se ne lamentarono gli
stessi Giovanni XXIII e Paolo VI, e mons. Dell'Acqua lo
confidò al nostro fondatore. Bisogna precisare
che la fiducia accordata da questo prelato al nostro fondatore
di cui è chiara prova la corrispondenza
risalente a quel periodo non era semplicemente
frutto dell'intimo legame d'amicizia che li univa, ma
era il Santo Padre a incoraggiare il Sostituto della Segreteria
di Stato in tal senso: in questo modo fu stabilito un
canale di comunicazione sempre aperto e diretto tra il
Papa e il nostro fondatore.
Nei
tre anni del Concilio, senza contare il periodo preparatorio,
il nostro fondatore si incontrò con molti Padri
conciliari, periti, ecc. A volte li invitava a pranzo
nella nostra sede centrale; altre volte era lui ad andarli
a trovare nelle case in cui avevano preso alloggio, quasi
sempre per ricambiare la loro visita. Vi erano giorni
in cui riceveva più di mezza dozzina di queste
visite e non era per nulla facile sottrarre alle sue mansioni
di governo dell'Opera il tempo necessario per accogliere
nel modo dovuto i vari cardinali, arcivescovi, vescovi,
nunzi, teologi, ecc.
Io
presenziai a molti di questi colloqui e ho potuto osservare
con quanta semplicità e affabilità il Padre
trattava coloro che venivano a trovarlo. Per esempio,
mons. François Marty, allora arcivescovo di Reims,
prima di diventare cardinale arcivescovo di Parigi, ebbe
a scrivere: «All'epoca del Concilio Vaticano II
ebbi l'occasione di incontrarmi a più riprese con
mons. Escrivà de Balaguer, fondatore dell'Opus
Dei. In seguito a quelle conversazioni conservo il ricordo
di un uomo che parlava solamente di Dio. Un momento di
colloquio con lui sembrava come un momento di preghiera.
Ma tutto ciò non toglieva nulla al suo buon umore,
al suo senso soprannaturale, alla sua carità piena
d'affetto».
Anche
mons. Abilio del Campo, vescovo di Calahorra, ha lasciato
questa testimonianza: «Credo sinceramente che Josemaria
abbia contribuito in modo decisivo a chiarificare dottrinalmente
molti punti sui quali le luci che egli aveva ricevuto
da Dio e la sua straordinaria esperienza pastorale nel
mondo del lavoro erano quasi insostituibili. Furono molti
i Padri conciliari che, avvalendosi della sua amicizia,
poterono raccogliere i suoi appropriati consigli».
Immagino
che alcuni di questi consigli riguardassero anche la difesa
dell'ortodossia cattolica, in quel periodo in cui un malinteso
«spirito conciliare» seminava parecchia confusione...
È significativa la testimonianza di mons. Giacomo
Barabino, allora segretario del card. Siri e oggi vescovo
di Ventimiglia, che ha dichiarato: «La difesa dell'ortodossia
non nasceva in lui da spirito di conservazione, da chiusura
mentale o rigidità di carattere. C'era un'evidente
preoccupazione di salvare l'ortodossia e le strutture
vitali, divine, della Chiesa; ma era altrettanto evidente
il suo spirito aperto e innovativo: sentirlo parlare di
come fosse necessario assecondare, ciascuno al proprio
posto e nella fedeltà al proprio carisma nella
Chiesa, la corrente santificatrice diffusa dallo Spirito
Santo nel Popolo di Dio, in ogni fedele chiamato alla
pienezza della vita cristiana, era davvero entusiasmante.
In tale sua coraggiosa apertura, egli metteva in risalto
la missionarietà della Chiesa in tutti gli ambienti,
anche nei più difficili. Per lui si trattava di
una realtà quotidianamente vissuta: era la coerenza
con l'idea fondamentale da cui era partito e cioè
quella della vocazione universale alla santità,
idea in forza della quale egli si adeguava continuamente,
con un'elasticità davvero ammirevole, alle esigenze
del tempo e della incarnazione della Chiesa».
Dev'essere
stata grande l'emozione di nostro Padre nel vedere confermata
dal Concilio e diventare patrimonio di tutta la Chiesa
l'intuizione che il Signore gli aveva affidato il 2 ottobre
1928...
In effetti, poco dopo la chiusura del Concilio, l'ho più
volte sentito ripetere: «Figli miei, al termine
di questo Concilio dobbiamo essere contenti. Trent'anni
fa alcuni mi accusarono di essere eretico, perché
predicavo aspetti del nostro spirito che adesso sono stati
proclamati in modo solenne dal Concilio». E in un'intervista
rilasciata all'Osservatore della Domenica, nel 1968, ebbe
a dichiarare: «Una delle mie maggiori gioie è
stata appunto vedere come il Concilio Vaticano II ha proclamato
con grande chiarezza la vocazione divina del laicato.
Senza ombra di presunzione, devo dire che, per quanto
si riferisce alla nostra spiritualità, il Concilio
non ha significato un invito a cambiare, ma ha invece
confermato ciò che per la grazia di Dio
stavamo vivendo e insegnando da tanti anni a questa
parte. La principale caratteristica dell'Opus Dei non
sono delle tecniche e dei metodi di apostolato, e nemmeno
delle strutture determinate, bensì una spiritualità
che conduce appunto alla santificazione del lavoro ordinario»
(Colloqui, n. 72).